lunedì, settembre 30, 2013

 

Seelvio il Gozeriano


Seelvio the Gozerian


Se davvero è aderente allo svolgimento dei fatti, il resoconto della riunione pomeridiana dei deputati e senatori PDL convocata alla presenza di Silvio Berlusconi è roba da cineteca.

Il motivo non risiede tanto nella prevedibile smacchiatura a secco dei timidi distinguo espressi da qualche ministro dimissionato a sua insaputa e da pochi altri esponenti “diversamente berlusconiani” del PDL, quanto nella concezione minimalista della democrazia interna in uso allorché Silvio smette i panni del liberal forse esuberante e naif, ma fondamentalmente bonario e conciliante.

La scena ricorda, involontariamente, la materializzazione di Gozer il Gozeriano in Ghostbuster 2.
La riunione, infatti, si risolve in un breve monologo di Silvio Berlusconi, il quale ribadisce con enfasi le ragioni per cui viene ritirato l’appoggio al governo Letta per andare speditamente verso nuove elezioni.

Al termine del monologo, solo l’incauto Fabrizio Cicchitto prende la parola avanzando la richiesta di aprire un dibattito.
La risposta cala inesorabile:
“Sei tu un dio??” - chiedono all'unisono Schifani e Brunetta in versione Mastro di Chiavi e Guardia di Porta.
“N-no…” - balbetta Cicchitto
“Allora la richiesta è respinta e la riunione può considerarsi terminata”

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sabato, settembre 21, 2013

 

BlackBerry®: dalla gloria alla cenere


Blackberry broken

È stato per anni lo status symbol dei manager e degli uomini politici che contano, ma anche la dannazione di chi, in azienda, è tenuto a essere costantemente reperibile e operativo: il BlackBerry®, il serioso palmare/smartphone della canadese Research In Motion (RIM), sta andando a grandi passi verso un rapido e inglorioso tramonto.

I numeri annunciati dall'azienda sono impietosi:
Dell'azienda che solo 4 anni fa aveva in mano una quota vicina al 50% del mercato degli smartphone in paesi come gli USA è rimasto poco. Molte delle perdite annunciate per il terzo quarto, infatti, sono dovute ai BlackBerry rimasti invenduti e alle penali pagate a fornitori e fabbricanti per ridurre la produzione in modo da non aumentare le giacenze.
I BlackBerry di ultima generazione, presentati alla chetichella malgrado integrassero il tanto atteso sistema operativo 10, sono stati accolti con indifferenza dal mercato, tant'è che - dettaglio beffardo - le vendite sono arrivate in larghissima misura da modelli delle generazioni precedenti.

Come ebbi a scrivere tempo addietro, i principali acquirenti Business/Enterprise e i competitor non hanno avuto un occhio di riguardo per il blasone del marchio BlackBerry. Era impensabile, d'altra parte, che aspettassero pazientemente che RIM risolvesse le faide interne ai vertici e mettesse una pezza a ritardi ed errori di strategia.
Le ultime comunicazioni dell'azienda canadese suonano come la bandiera bianca che precede la resa: la guerra degli smartphone è stata persa.

It's the end of the world as we know it and I feel fine (REM)

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domenica, settembre 15, 2013

 

Syrian connection



La guerra civile in Siria che, tra svolte annunciate e rimandate, si trascina in uno stallo sanguinoso, resta un rebus assai più complicato di quanto non appaia dai resoconti dei media. Finora, l’unica cosa evidente è che né l’esercito fedele al governo di Bashir al-Assad né le forze dell’opposizione riescono a ottenere una netta prevalenza territoriale e sul campo nonostante i sostegni economici e militari di cui dispongono.

Syria
Le origini della contrapposizione stanno nelle dinamiche interne della Siria: un paese che per un trentennio è stato messo sotto vetro dall’efficienza dell’apparato poliziesco messo in piedi dalla “Volpe di Damasco”, Hafez al-Assad, un leader particolarmente abile nell’imporre il peso politico-militare di Damasco ad alleati e avversari, ma anche cinico e spietato nella repressione del dissenso.

Il rovescio della medaglia dei decenni di stabilità interna è stato l’immobilismo sociale ed economico affiancato da una corruzione strisciante. Si diceva che in Siria non si muovesse foglia senza l’assenso e la “compartecipazione agli utili” dei fedelissimi di Assad, collocati in tutti i gangli vitali dello Stato e in larga misura legati al Presidente anche dalla comune appartenenza alla minoranza religiosa Alawita, una frangia “scismatica” dell’Islam Sciita diffusa in circa il 10% della popolazione siriana.

Da questo sonno forzatamente tranquillo, la Siria si è svegliata dopo la morte di Hafez al-Assad, nel 2000, e l’avvento del figlio secondogenito Bashir.
La politica di caute riforme economiche e di ammorbidimento del regime poliziesco avviata da quest’ultimo, però, è stata troppo blanda e lenta rispetto all’evoluzione del quadro internazionale e al deterioramento dell’economia nazionale, aggravato dal peso eccessivo delle spese destinate all’esercito.
Soprattutto, Bashir al-Assad non ha avuto il coraggio o il peso politico, dinanzi alle prime esplosioni di malcontento popolare coincise con la “primavera araba”, di fare concrete aperture alle istanze di una maggioranza sunnita troppo a lungo bastonata ed esclusa dal potere.

Forse nulla avrebbe potuto evitare il ripetersi dello scontro armato tra governo e il composito fronte dell’opposizione già avvenuto nei primi anni ’80 e conclusosi con la spaventosa punizione inflitta alla città ribelle di Hama (dai 10.000 ai 35.000 morti).
Bashir al-Assad avrebbe dovuto rischiare di alienarsi il blocco di potere e le fedeltà che avevano garantito suo padre e la sua stessa ascesa al potere senza alcuna garanzia. Dall’altra parte, l’insofferenza e la sete di rivalsa covate per anni erano troppo forti per accontentarsi di concessioni o compromessi.

Tuttavia, probabilmente il complesso sistema di convenzioni che nel mondo arabo regola le relazioni sociali persino tra acerrimi nemici avrebbe potuto evitare alla Siria le peggiori crudezze della guerra civile e favorire qualche forma di componimento se sulla crisi interna non si fossero pesantemente inseriti gli interessi configgenti delle potenze regionali (Iran, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Qatar) e, dietro di loro, le superpotenze USA e Russia.

Quel che fa pensare è che il futuro della Siria appare sempre meno nelle mani dei siriani. Salvo colpi di scena, saranno i rapporti di forza nell’area mediorientale a decidere se in Siria si arriverà a una soluzione che recuperi la coesione e l’unità della nazione, con o senza Assad, oppure verso una “libanizzazione”, una “irachizzazione” o una “libizzazione” del Paese. Anche l’intervento militare “limitato” annunciato dagli USA, ufficialmente giustificato con l’impiego di gas nervini sulla popolazione in una situazione peraltro mai chiarita, è comprensibile solo come “spallata” data a scopo di ripristinare equilibri geopolitici e d’influenza.

Temo che ci siano fortissimi e innominabili interessi alla polverizzazione della Siria. Come spiegare altrimenti la voce che dal Golfo Persico sia arrivata l’ordinazione ai laboratori di un ben identificato Paese europeo di uno stock di agenti chimici che qualcuno, in alto loco, ha autorizzato e fatto giungere sottobanco sul teatro siriano, pareggiando l’analogo shopping fatto tempo prima dal governo siriano nel Regno Unito?
O ancora, come si spiega la segnalazione della presenza sul campo, dove già operano allo scoperto le milizie libanesi di Hizbollah e brigate qaediste, di mercenari europei con funzioni di addestramento e di comando?

Sarà un caso, ma di questo non si parla per niente sui media.

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Zona Francamente Inconsistente



Zona Franca Integrale

Non ho alcun interesse specifico a schierarmi nella disputa sulla cosiddetta Zona Franca Integrale per la Sardegna. Anzi, a conti fatti schierarsi - soprattutto sul Web - significa cercare guai, data la crescente inclinazione di chi popola i social network a passare direttamente all’insulto, alla minaccia e al rogo in effige senza prendersi il disturbo di argomentare il dissenso verso le opinioni sgradite.
Tuttavia mi dispiace, e lo dico sinceramente, che molti si spendano con entusiasmo e generosità per una battaglia spacciata per l’accesso alla Terra Promessa e la panacea di tutti i problemi della Sardegna, mentre le basi giuridiche ed economiche appaiono fragili e fumose al punto di sembrare una fuga nell’immaginario.

Se le cose andranno come penso, non ci sarà nessuno abbastanza onesto da rivolgersi pubblicamente a questa base di attivisti ammettendo: “Scusate, abbiamo sbagliato”. Temo invece che la Zona Franca Integrale andrà a fare compagnia ai protocolli di cura rigettati, alle scie chimiche e ai chip sottocutanei di controllo nel repertorio della “informazione alternativa” come esempio di grande opportunità sfumata per il complotto demo-pluto-giudaico-massonico dei soliti poteri forti assecondati da politici sardi prezzolati.

Cerco ora di spiegare di cosa sto parlando. I fautori della Zona Franca Integrale vogliono l’estensione all’intero territorio regionale della Sardegna del regime di extradoganalità previsto per i porti e i punti franchi, ovverosia zone che fanno parte del territorio di uno Stato, ma sono considerate fuori dei suoi confini doganali e, perciò, esentate dall’applicazione di dazi doganali, IVA e accise su prodotti e servizi.

Che io sappia, in Italia esistono due località in cui si applica da tempo la Zona Franca: Livigno e l’exclave di Campione d’Italia. Altre due zone potrebbero beneficiarne, ma hanno preferito ottenere dallo Stato forme di fiscalità di vantaggio di altro genere: la Val d’Aosta (per Statuto Regionale) e il territorio di Gorizia.
A livello europeo, invece, gli esempi di Zona Franca applicata sono gli arcipelaghi delle Canarie e delle Azzorre e i territori francesi d’oltremare.
L’evidente ragion d’essere delle Zone Franche è compensare, attraverso un regime fiscale speciale, la penalizzazione dovuta a una collocazione geografica ultra-periferica e disagiata, promuovendo l’allineamento delle economie locali a quelle degli Stati di appartenenza e prevenendo lo spopolamento.
Senza questi oggettivi e riconosciuti presupposti di svantaggio, l’Unione Europea non è propensa a dare semaforo verde all’istituzione di nuove Zone Franche, classificandole come inammissibili “Aiuti di Stato”. Non a caso, l’istruttoria di Bruxelles sulla Zona Franca di Livigno è stata chiusa perché il regime extradoganale è applicato su un ambito territoriale talmente ristretto e isolato da non creare apprezzabili fenomeni di distorsione del mercato.

Problema numero 1: la Sardegna rientra nei parametri comunitari per ottenere lo status di Zona Franca integrale?
In linea di principio, l’insularità della Sardegna è indiscutibile, così come è oggettivo lo svantaggio competitivo delle merci prodotte sull’isola. Inoltre, sin dai trattati istitutivi della CEE uno degli obiettivi di fondo che l’Europa si è data è quello di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni e il ritardo di quelle più svantaggiate e insulari.

Sta di fatto, però, che anche in sede di revisione del regolamento attuativo del codice dogale comunitario, avvenuta pochi mesi fa, la Sardegna non è nominata tra i territori esenti dai dazi doganali.
Dimenticanza? Tradimento? Complotto?
Forse sarebbe più giusto parlare di ignavia - antica e recente - a livello regionale, dato che l’istituzione di punti franchi è prevista dall’articolo 12, comma secondo, dello Statuto regionale approvato con Legge Costituzionale nel lontano 1948. Per inciso, il primo comma stabilisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di regime doganale.
Inoltre, in attuazione dell’articolo 12 dello Statuto, il Decreto Legislativo 10 marzo 1998 n.75 dispone l’istituzione in Sardegna ”di zone franche nei porti di Cagliari, Olbia, Oristano, Porto Torres, Portovesme e Arbatax, nonché in altri porti e aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili. La delimitazione territoriale delle zone franche e la determinazione di ogni altra disposizione necessaria per la loro operatività viene effettuata, su proposta della regione, con separati decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”.

E qui viene il bello.
Sebbene io abbia abbandonato da oltre un ventennio gli studi giuridici, trovo fumosa e difficile da difendere l’interpretazione estensiva degli articoli citati fatta dai sostenitori della Zona Franca Integrale, secondo cui la Sardegna vanterebbe dal 1948, e tanto più dal 1998, un diritto all’extradoganalità per il 100% del suo territorio.
Si vorrebbe che la perimetrazione dei porti franchi e delle aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili sia il grimaldello logico-giuridico per quest’operazione di copertura integrale. Per quanto mi riguarda, in punta di diritto la trasformazione implicita dei porti franchi in isola franca mi sa tanto di “credevo fosse amore, invece era un calesse”.
Inoltre, anche seguendo lo schema previsto dal decreto legislativo del ’98 è poco plausibile che il governo nazionale appoggi l’istituzione di una Zona Franca su scala regionale non fosse altro perché sarebbe come gettare un cerino acceso nella polveriera dei rapporti Stato-Regioni e sulla più che precaria stabilità dei conti pubblici.

In ogni caso le chiacchiere in libertà sono state tante, gli annunci roboanti pure, ma i fatti dicono che l’Europa tra pochissimo chiuderà a chiave il fascicolo delle zone franche e la Sardegna resterà al palo.

Quesito numero due: ammettiamo per ipotesi che la Regione abbia proposto, il governo nazionale acconsenta e l’Europa sia disponibile a fare buon viso a cattivo gioco. La Zona Franca Integrale è davvero la cura miracolosa contro il declino e la desertificazione della Sardegna?

La visione suggestiva propagandata dai promotori della Zona Franca Integrale è il cartello dei prezzi alle pompe di benzina, gli scaffali che traboccano di merci a prezzi da sballo, i casinò in stile Las Vegas e le imprese che bussano alla porta per investire e dare occupazione.
Si tratta, però, di una “cartolina” ampiamente ipotetica, perché ciò che funziona a Livigno o a Campione non è detto che sia replicabile su scala molto più vasta.
La ragione sta nel fatto che la Zona Franca Integrale non è sinonimo di paradiso fiscale alla San Marino o isole Cayman e, da sola, non basta ad attirare investimenti internazionali e creare nuovi posti di lavoro. I maggiori benefici del regime extradoganale consentito dalla UE, infatti, ricadono sulle imprese che fanno export su export come quelle che movimentano container nel Porto Canale di Cagliari.
Per vincere la concorrenza di Paesi come Turchia, Serbia, Montenegro, Croazia e Slovenia, che possono mettere sul piatto sgravi fiscali importanti e un costo del lavoro quasi irrisorio, occorre affiancare la Zona Franca con robusti incentivi da parte della Regione e dello Stato.
Ergo, ogni posto di lavoro creato dalla Zona Franca avrà un costo aggiuntivo semi-occulto a carico dei contribuenti, con tutto ciò che ne consegue in termini di stabilità e di sostenibilità economica.

Non dimentichiamo un altro dettaglio: con l’eventuale avvento della Zona Franca Integrale, la Regione Sardegna dovrebbe raddoppiare l’attenzione sulla tenuta del proprio bilancio perché i 9/10 del gettito IVA generato sul territorio regionale che oggi lo Stato deve ritrasferire ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto regionale si ridurrebbero a un magro rivoletto.
A tutti questi inconvenienti, tuttavia, si potrebbe ovviare qualora la ZFI fosse realmente in grado di fare da volano a una robusta crescita dell’economia sarda.

Ok, fin qui le mie obiezioni di principio. Tralascio quelle legate al goffo intervento di un noto personaggio pubblico in cerca di maquillage all’immagine perché trattasi di soggetto notoriamente capace di provocare danni anche quando non prende iniziative.

Resta però il fatto che no ci si può limitare a dire NO schizzinosi, a difendere l’indifendibile classe dirigente sarda che in 60 anni si è baloccata in chiacchiere e nella spartizione di feudi, prebende e fondi pubblici, ad assistere inerti all’impoverimento e alla disgregazione di un’isola lasciata senza futuro, da cui chi può emigra.
Il merito dei promotori di Zona Franca Integrale è aver rimesso al centro dell’attenzione le questioni dell’isola che si sta spopolando e dell’insufficiente attuazione di misure di fiscalità di vantaggio e dei porti franchi.
Su questi argomenti chiunque reggerà le sorti della Regione Autonoma della Sardegna dopo le prossime elezioni amministrative dovrà misurarsi e dare risposte, possibilmente con i fatti.

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venerdì, settembre 06, 2013

 

Niente panico


Sleeping cat 5341

Nell'immagine sopra, il volitivo governo italiano presieduto dall'On. Enrico Letta attende, con ammirevole sobrietà e compostezza di modi, la messa in onda del videomessaggio con cui il condannato per frode fiscale con sentenza definitiva più famoso d'Italia gli darà il benservito "per il bene del Paese" (ovviamente)

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domenica, settembre 01, 2013

 

Incipit


AREAquote

Nel 1973 gli Area registrarono un LP dal titolo fortemente provocatorio: Arbeit Macht Frei (il lavoro rende liberi), riprendendo la macabra iscrizione che campeggia ancora oggi sopra il cancello principale del lager di Auschwitz.

Non meno deliberatamente provocatoria era una delle tracce, "Luglio, Agosto, Settembre (Nero)", politicamente schierata a favore della causa palestinese e incisa a distanza di appena un anno dalla Strage di Monaco, nella quale un commando del gruppo palestinese denominato Settembre Nero aveva rapito e ucciso 11 atleti israeliani che partecipavano alle Olimpiadi organizzate a Monaco di Baviera.

Nel contesto politico e musicale di allora nessuno, credo, si prese la briga di tradurre l'incipit della canzone, declamato in arabo da una voce femminile, presumendo che fosse una ricercatezza stilistica della band o, comunque, un semplice accessorio rispetto al testo "militante" in italiano. Per caso ho trovato la traduzione, scoprendo così che si tratta di un'accorata esortazione alla pace recitata da una donna che si autodefinisce "masriyya", id est "una egiziana".

Non so fino a che punto questa incongruenza tra arabo e italiano sia stata una licenza artistica o, piuttosto, il frutto scontato della schematizzazione ideologica del conflitto israelo/palestinese, con i palestinesi nella parte del popolo oppresso che vorrebbe vivere in pace, ma è costretto a prendere le armi per non essere schiacciato dall'oppressore; in altre parole, un antecedente storico del "Restiamo umani" caro a Vik Arrigoni.

In ogni caso, resta la valenza poetica e la drammatica attualità dell'incipit nei giorni che sembrano precedere l'intervento militare statunitense nella guerra civile siriana. Resta aperta, oggi come allora, l'ambiguità di fondo nell'uso della parola pace.

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