domenica, settembre 24, 2006

 

The Smoking Pipe:

Quieto vivere?


lecchino
Nel numero di settembre del mensile Riza Psicosomatica è stata pubblicata una stuzzicante indagine sulla capacità degli italiani di dire NO condotta su un campione di 1.000 connazionali d’età compresa tra 25 e 65 anni.
A quanto pare, la tempra necessaria a pronunciare un NO è divenuta merce rara, se è vero che 6 italiani su 10 scelgono di “abbozzare”, d’essere irrimediabilmente e indefettibilmente proni davanti a qualsiasi richiesta avanzata da partner, prole, genitori, suoceri, amici, colleghi e superiori gerarchici.

OK, chi è senza peccato scagli la prima pietra, ma per quale motivo a volte è tanto difficile esprimere anche il più garbato e sensato dei dinieghi?
Nelle motivazioni-tipo che seguono ognuno di noi potrà trovare una o più risposte ai suoi NO mancati:
a) perché si aspira a una vita tranquilla, senza scossoni, alla larga da discussioni, polemiche o contrasti ansiogeni
b) per pura pigrizia
c) per la vergogna di doversi esporre in prima persona
d) per timore di essere fraintesi, derisi e messi a tacere
e) per paura di essere giudicati scortesi o maleducati
f) perché il senso del dovere e la mistica del sacrificio prevalgono sui desideri personali.

Quante volte dopo aver detto sì, aver chinato il capo, essersi accodati docilmente al branco ci si è sentiti alla stregua di patetiche merdine, frustrati, fessi, vigliacchi, bugiardi, leccapiedi?
Ognuno, credo, ha la sua privatissima collezione di memorabilia in tal senso. Dipende poi dal carattere del singolo riuscire a convivere più o meno serenamente con queste piccole o grandi debacle dell’autostima.

Un ultimo aspetto dell’articolo di Riza Psicosomatica mi è sembrato degno di nota: quando e perché gli italiani riscoprono l’orgoglio e il piacere di disubbidire, di pronunciare un sonoro nossignore.
Si tratta, in genere, di situazioni estreme, dove gli spazi per disimpegnarsi o trattare sono esauriti, quando si acquisisce la consapevolezza di non avere più nulla da perdere e ci si può permettere il lusso di uno schizzo di perfidia, del togliersi il sassolino dalla scarpa, dello scatto d’orgoglio o dell’insubordinazione clamorosa.
Mmmh... con il dovuto rispetto, queste forme di resipiscenza e di riscatto morale in extremis mi fanno pensare a certe discusse medaglie al valore ancora fresche di conio.

Comments:
Penso sia necessaria una sostanziale distinzione tra l'accettazione passiva di ogni minima richiesta altrui e le risposte suggerite dal senso del dovere che sentiamo nei confronti di chi ci circonda.
Il fatto che in determinati frangenti, quando non si ha nulla da perdere, ci si permetta di rifiutare, di disubbidire, mi suggerisce che si stia trattando di tutti quei “sì” di comodo, di quelle accettazioni passive fatte in nome di quello che, in fin dei conti, si potrebbe definire un proprio tornaconto personale.

Io definisco viltà tutto quel insieme di risposte date unicamente per salvaguardare sé stessi, senza una reale convinzione in merito o, ancora peggio, per ottenere qualcosa da altri. In linea di massima rifuggo gli atteggiamenti troppo passivi o accondiscendenti, perché li trovo molto più oppressivi e dominanti del reale coraggio.
Chi ha coraggio si scontra con la vita e con gli altri: chi accetta tutto –sempre posto che un giorno non “imploda”, subissato da quanto non ha mai espresso- obbliga chi lo circonda a scegliere per lui, a scontrarsi con la vita in sua vece, a prendersi responsabilità per conto terzi. Chi accetta tutto è di fatto inattaccabile: non ha una reale posizione da difendere, non ha mai torto, non ha mai colpe. Chi ha una propria opinione e cerca comunque di farla sentire si espone a dei rischi che non toccheranno mai a chi non si schiera, a chi resta nell’ombra accettando tutto.

Il fatto che 6 italiani su 10 preferiscano abbozzare non mi stupisce: è molto più facile, e sul breve periodo da frutti assai migliori. Mi schifa un po’ pensare che forse ci stiamo trasformando in un popolo di ignavi, senza infamia e senza lode, persone che alla libertà di pensiero e di azione preferiscono un quieto vivere di nevrosi e di cose non dette.

P.S. l'argomento trattato in questo post è leggero come l’uranio impoverito, per cacciar fuori un commento idoneo al caso son tre notti che non dormo...

P.P.S. non commento il fatto di leggere la rivista mensile Riza Psicosomatica per evitare di essere offensiva, non perché la cosa mi sia passata inosservata...

P.P.P.S. In tutto il web non è possibile trovare una definizione della parola risipiscenza: per intenderci, non l’ho trovata nemmeno nel dizionario dell’Accademia della Crusca... Copyman, ma ti fa tanto male pensar di scrivere come mangi?
 
Posso solo ringraziarti pubblicamente x l'acutezza e l'articolazione del commento, dolendomi che questo contributo sia sacrificato in una posizione defilata.

Quanto alla scelta degli argomenti, sono consapevole che certe mattonate invogliano alla lettura quanto l'idea di masticare aglio appena svegli.
Il fatto è che, a mio parere, ci stiamo abituando a subire l'informazione. Su ogni possibile argomento esistono centinaia di articoli, commenti, saggi, interviste, ore e ore di soporifero bla bla bla televisivo.
Paradossalmente, però, ci viene a mancare il tempo e il coraggio di rielaborare in modo critico, di allargare il campo, di osare una reinterpretazione assolutamente non autorevole, magari incompleta e totalmente campata x aria, ma quanto meno nostra.
Tendiamo a vivere ripiegati nel privato: il resto rischia di scivolarci addosso senza lasciare traccia.
 
Vivere "ripiegati nel privato", isolati ed incapaci di considerare il mondo secondo un metro che non sia quello che ci viene propinato.
Vivere di idee mai messe in discussione, di opinioni dettate dalla maggioranza, prendere ogni cosa per vera "perché l'ha detto la TV".
Essere bombardati da così tante informazioni da perdere il senso generale di quanto apprendiamo. Accettare tutto, dare tutto per buono, in un consenso totale che ci priva di qualsiasi capacità di analisi, trasformandoci in massa amorfa di tacchini. D'accordo, diciamolo, fa un po' senso: e nel complesso è un discorso abbastanza moralista che periodicamente torna in auge ed è da almeno vent'anni che ce lo tiriamo appresso... Un po' trito e ritrito come discorso, diciamocelo.

Ma cosa accade quando il senso critico ci abbandona "nel privato"? In quella nostra piccola sfera di affetti e di rapporti interpersonali?

Perché è di quello che si sta parlando, si sta parlando di coloro che dicono sì comunque, che quindi non hanno una propria idea nemmeno fra le pareti domestiche -aggiungerei non hanno nerbo, non hanno carattere, non hanno forza, e nemmeno voglia di prendersi delle responsabilità- coloro che di propria iniziativa non scelgono nulla, amici di tutti, dipendenti ideali, persone incapaci di negarsi, persone che seguono la banderuola gestita dal capo, dalla mamma, dalla moglie, dai figli. Gente che magari ha pure un'opinione, e magari nemmeno stupida, una propria idea di come funziona la vita e il mondo, ma che all'atto pratico preferisce prendere per buono ciò che va bene agli altri, mettendo da parte l'individualità per quieto vivere, per paura dei giudizi, per non essere mal interpretati, per non esser maleducati... Per un generale menefreghismo nei confronti della propria opinione, per un disinteresse totale verso la propria percezione...
I'm sorry, questo non è guardarsi l'ombelico: va ben oltre. Si può guardare solo a sé stessi ed avere un'opinione ben precisa, e la capacità di formularla.
Per me il dire sempre di sì continua ad esser sinonimo di viltà.
 
C'è un edit non segnalato nel post.

Il caso aggiunto, che tratta del senso del dovere, è ben lungi dal poter essere accomunato agli altri.
Si tratta di qualcosa di ben diverso, se non di opposto.
Un discorso è non esprimere un diniego perché è più facile accettare passivamente piuttosto che mettersi in gioco, piuttosto che schierarsi.
Un discorso è quando di fatto non è possibile fare altrimenti.
Le responsabilità e i doveri esistono: dire di sì in determinati frangenti è comunque una scelta. Ed è anche tra le più coraggiose.
Si annulla la propria opinione perché è necessario non a un proprio scopo, ma per portare avanti una propria scelta, una propria decisione.

C'è un abisso tra i primi casi e quest'ultimo aggiunto. Non trovo le parole adatte ad esprimerlo, proverò con un esempio:
- Lavoratore subordinato dipendente, che dice di sì al capo per far bella figura, e dice di sì comunque, e dice di sì sempre, magari con un sorriso, magari per farsi ben volere, magari per esser meglio accettato o più considerato: farebbe di tutto pur di non cambiare posto, pur di non cambiare niente e restare lì, col proprio piccolo equilibrio intatto.
Il dipendente ideale: venti o trent'anni nella stessa azienda senza alcun problema di sorta.
- Lavoratore subordinato dipendente, che dice di sì al capo e magari ne soffre: non può fare altrimenti, dato che il pane a casa lo deve portare, e se la sua opinione differisce troppo da quella dei superiori mette da parte momentaneamente la propria, in attesa di tempi migliori. Quando differisce in maniera sostanziale, dimissioni, e ricerca di un posto di lavoro che non lo costringa ad essere troppo distante dalla propria percezione di sé.
Ha detto dei sì non sentiti, e magari accettato cose che di norma non avrebbe accettato, l'ha fatto per portare avanti una sua scelta -quel posto di lavoro ben preciso- per dovere -perché guadagnarsi da vivere è il primo dei doveri dell'età adulta- e in quel accettazione certo non ha perso la propria dignità, né tanto meno la propria reale opinione.

Non devo essermi espressa bene. Però io la differenza la vedo, e non mi sento di accomunare il senso del dovere -che vivo come giusto e positivo- con l'accettazione passiva.
Non c'è alcuna passività nel fare il proprio dovere. E' l'applicazione della forza di volontà, cosa che nobilita quasi quanto il lavoro.
 
Non darti pensiero x la forma: i contenuti arrivano con impeto e chiarezza a chi legge.
Non entro nel merito delle tue riflessioni. che in gran parte condivido, unicamente per la necessità di rileggere il tutto con la dovuta calma.

Grazie. Un abbraccio
 
Ringrazi, sì, ma non rispondi...
No, per carità, non mi offendo.
Semplicemente, non ti commento più ;-)
 
Dico Sissignore solo a me stesso!
 
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