giovedì, giugno 12, 2014

 

Iraq: e ora come la mettiamo?


Iraq Army

In altre occasioni mi sono avventurato in giudizi sul calderone del Medio Oriente, con i calcoli opportunistici, le strane convergenze e i disinvolti cambi di alleanze che lo alimentano.

Per qualche tempo, almeno a giudicare dal basso interesse dei media occidentali e italiani in particolare, è sembrato quasi che l'Iraq dell'interminabile, fragile e insanguinata transizione post-Saddam fosse avviato a diventare un'anonima, debole, ma relativamente tranquilla nazione guidata da un governo espressione dell'accordo tra gli Stati Uniti e la maggioranza sciita. Non che mancassero le auto-bomba e le scaramucce con milizie qaediste e gruppi armati sunniti guidati da ex del partito Baath, ma il governo iracheno sembrava in grado di controllare la situazione sul campo e di non farsi invischiare nel ciclone siriano.

La facciata si è sgretolata in fretta, liquefacendosi come l'esercito iracheno dopo la disastrosa rotta di Mossul e la perdita di città e province del nord sotto i colpi delle milizie jiahdiste dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (ISIS).
Se serviva una dimostrazione di come non basti spendere decine di milioni di Dollari in addestramento e armamenti per costruire un esercito se poi non si fa nulla per pacificare e ricostruire una identità nazionale, questa è stata servita. Nonostante i rinforzi ricevuti dal teatro siriano, l'ISIS da solo difficilmente riuscirebbe a controllare il territorio se non godesse di appoggi presso i sunniti in cerca di una rivincita.
Allo stesso tempo, non è dato sapere fino a che punto la comunità sciita, divisa in fazioni rivali, sia interessata a difendere il governo del premier Nuri al Maliki, cui molti sembrano non perdonare la litigiosità, la lentezza nell'affrontare gli enormi problemi di un Paese devastato e, soprattutto, l'insufficiente autonomia dalla tutela USA.

C'è un altro aspetto non meno importante nel riacutizzarsi della crisi irachena: il ruolo dei Paesi vicini e delle diplomazie internazionali.
Una guerra civile in Iraq non può in alcun caso essere un semplice affare interno, sia perché ne va del controllo dei pozzi petroliferi sia perché offre a nazioni da sempre in competizione per affermarsi come potenze regionali un'ulteriore opportunità di ridisegnare a loro vantaggio gli equilibri geopolitici.

Il gioco delle parti, difatti, ricalca grosso modo quello che tiene la Siria in un pantano insanguinato. Chi, come l'Amministrazione Obama, il governo britannico, la Turchia di Erdoğan e alcuni Paesi del Golfo Persico, aveva scommesso sulla cacciata di Bashir al Assad finanziando e armando l'opposizione, ora si trova in imbarazzo vedendo le fila dell'ISIS ingrossate da gruppi armati provenienti dalla Siria.
L'Iran, ovviamente, si dichiara pronto a scendere in campo, ufficialmente in difesa dei "fratelli sciiti iracheni", e persino Assad si è offerto di aiutare l'Iraq, in parte per spezzare il fronte jihadista e scongiurare la minaccia di un califfato iracheno ostile, in parte per sdebitarsi con l'Iran per l'aiuto fornito inviando a suo fianco le milizie libanesi del partito Hezbollah.
E allora, come la mettiamo?

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