venerdì, settembre 29, 2023

 

Esselunga e la pesca delle polemiche



Non avrei mai immaginato che uno spot TV per una catena della GDO presente nelle regioni del Nord e Centro Italia (non oltre Firenze) potesse gonfiare una bolla politico-mediatica su scala nazionale, arrivando a scomodare persino l'inquilina di Palazzo Chigi.
Certo, il successo editoriale del libello di Vannacci induce a pensare che oggi basti montare una polemica per promuovere anche il nulla cosmico. Nel caso dello spot Esselunga, tuttavia, mi pare che il can-can sia fuori misura e fuori luogo.

Ho frequentato Esselunga da consumatore e conosco la sua comunicazione: gradevole, accattivante, curata, in linea con punti vendita che somigliano - anche per i prezzi - a boutique alimentari adattate a superfici medio-grandi e grandi.
Lo spot della discordia non si discosta da quelli che l’hanno preceduto nel 2020 e in occasione del Natale: tecnicamente molto ben fatti per essere pubblicità, di cui si percepisce sia l’idea creativa non banale sia una regia e una produzione di taglio cinematografico. Nondimeno, il troppo zucchero dei buoni sentimenti ha l’effetto di lasciare in bocca un che di artefatto e di stucchevole.

La scelta di affrontare un tema complesso e spinoso come separazioni e divorzi sfruttando il punto di vista e il candore di una bambina è un’idea originale, direi anche astuta, ma paga dazio ai tempi ristretti (pur essendo quasi un cortometraggio) e al messaggio pubblicitario da veicolare con un eccesso di semplificazione e una serie di forzature poco realistiche.
Preferisco non entrare nello specifico delle mie reazioni a come è stata trattata una situazione spiacevole e caotica per gli adulti e ancor più per i figli piccoli com’è la separazione. Sono passato per questa esperienza e mi limito a dire di non essermi sentito particolarmente infastidito od offeso.

Non dobbiamo scordare che stiamo pur sempre parlando di una campagna pubblicitaria, di un intrattenimento e un gioco di seduzione a carte scoperte il cui scopo ultimo è indurci a preferire una certa insegna per gli acquisti.
Se non si può escludere totalmente il sospetto che lo spot sia anche un assist al modello di famiglia tradizionale tanto caro - almeno di facciata - all’attuale maggioranza parlamentare Dio, Patria & Famiglia, volerci leggere un intento moralistico o propagandistico mi sembra fare un processo alle intenzioni.

Preoccupa, invece, la sensazione che la bolla polemica sullo spot Esselunga faccia parte di una deliberata spinta a evadere dalla realtà di un Paese in affanno, corroso dalle crescenti diseguaglianze sociali e con prospettive economiche per nulla incoraggianti; una distrazione di massa per prendere tempo che, evidentemente, riesce gradita a un numero consistente di connazionali.
Tutto questo, comunque, va oltre i meriti e i demeriti di una micro-favola pubblicitaria forse ruffiana ma narrata e impacchettata con i fiocchi.

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lunedì, settembre 18, 2023

 

Diga del Gleno: la sciagura accantonata compie 100 anni




Il primo dicembre prossimo sarà trascorso un secolo esatto dal disastro della diga del Gleno (Alpi Orobie), una delle sciagure accantonate di un Paese che da sempre ha seri problemi di memoria.
Il computo ufficiale delle vittime nei paesi e nelle frazioni della Val di Scalve e di parte della Val Camonica fu di 356 morti.

Cos’era successo?
Quel primo di dicembre del 1923 la sezione centrale della diga non ancora ultimata né collaudata sul torrente Povo si sbriciolò sotto la pressione dell’acqua che aveva riempito l’invaso a causa di un autunno particolarmente piovoso. Una massa d’acqua, fango e detriti stimata tra 5 e 6 milioni di metri cubi percorse come una furia il letto del torrente spazzando via ciò che incontrava fino a concludere la sua corsa riversandosi nel Lago d’Iseo.
A differenza del Vajont ( diga costruita a regola d’arte nel posto sbagliato ), quella del Pian di Gleno fu una brutta storia di errori ingegneristici, decisionismi fuori luogo e ricorso a materiali scadenti.

Andiamo per ordine.
La prima richiesta di concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo risale al 1907. Dopo essere passata varie volte di mano, la concessione viene rilevata nell’immediato primo dopoguerra dalla Ditta Galeazzo Viganò, di proprietà di una famiglia si imprenditori brianzoli arricchitisi con le loro filande attive a Triuggio.

Nel 1917, dopo che il Genio Civile ha stabilito che l’invaso non potrà contenere più di 3,9 milioni di metri cubi d’acqua, la Ditta Galeazzo Viganò comunica alle autorità l’inizio dei lavori sebbene il progetto esecutivo non sia stato ancora presentato per approvazione. Solo nel 1921 il progetto per la costruzione di una diga a gravità elaborato dall’ingegnere bergamasco Gmur completa l’iter burocratico e risulta approvato.
Tutto a posto? Neanche per idea.

Nel 1918 l’Ing. Santangelo ha preso il posto di Gmur, deceduto, e il progetto viene modificato in corso d’opera da diga a gravità, dove è il peso stesso dello sbarramento a contrastare la pressione esercitata dall’acqua, a diga  ad archi multipli, struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago.

Solo che Michelangelo Viganò e suo fratello Virgilio, messo a dirigere il cantiere della diga malgrado manchi delle necessarie competenze tecniche, non hanno intenzione di perdere tempo e denaro nel demolire lil basamento già costruito per la diga a gravità e scavare la roccia in modo da ancorare saldamente gli archi. Inoltre, i due Viganò si confermano allergici alle intromissioni del Genio Civile, per cui scelgono di mettere ancora una volta quest’ultimo davanti al fatto compiuto.

Nell’agosto 1921 l’Ing. Castelli del Genio Civile ispeziona il cantiere e fa partire una diffida immediata alla prosecuzione dei lavori, ingiungendo ai Viganò di presentare un nuovo progetto esecutivo. In barba alla diffida i lavori proseguono a ritmo serrato anche perché le maestranze sono pagate a cottimo. Per risparmiare, inoltre, i materiali utilizzati sono di qualità scadente, lavorati e applicati senza cura.

Nell’ottobre del 1923 il bacino artificiale si riempie a causa delle piogge e si manifestano le prime massicce perdite d’acqua alla base delle arcate sovrastanti le fondamenta a gravità. Si arriva alle 7.15 di sabato primo dicembre 1923, ora in cui le 10 arcate centrali della diga di Gleno crollano come un castello di carte.

Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condanna Virgilio Viganò e l'ingegner Santangelo a tre anni e quattro mesi di reclusione più 7.500 lire di multa. La pena sarà ridotta a due anni di reclusione e la multa revocata in virtù degli accordi stragiudiziali per il risarcimento ai familiari delle vittime e a quanti avevano subito danni.

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sabato, settembre 09, 2023

 

Nucleare: ciò che Salvini non dice



Uno dei temi di propaganda che la Lega sembra intenzionata a cavalcare in vista delle prossime elezioni europee è il ritorno al nucleare in nome della indipendenza energetica.

Secondo Matteo Salvini questa svolta nella politica energetica nazionale sarebbe fattibile nel giro di pochi anni: appena 5 per la costruzione della prima centrale atomica di "ultimissima generazione", sicura e "verde", in un programma che ne prevederebbe una decina da dislocare sul territorio nazionale.

Non sono contrario per principio all'energia nucleare ma, tanto per cambiare, le affermazioni del leader leghista nonché ministro dei trasporti sembrano affette da patologica “annuncite”, ovvero “mettere il carro davanti ai buoi”.

Ci sta che Salvini usi un linguaggio discorsivo e nebuloso sulla "ultimissima generazione" trattandosi di un aspetto tecnico. Basti considerare che la maggior parte delle centrali attive sono di seconda generazione, della terza se ne contano 3 o 4 nel mondo e hanno richiesto decenni e costi altissimi per essere completate, mentre sulla quarta generazione esistono solo ipotesi e studi, di cui l'unico fattibile in tempi relativamente brevi riguarda i reattori di piccole dimensioni.

Salvini, però, si guarda bene dal descrivere l'attuale situazione del nucleare in Italia, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle scorie radioattive.
Dal 1987 (anno dei referendum) a oggi, infatti, non siamo ancora riusciti a completare il ricondizionamento e lo stoccaggio definitivo in sicurezza delle scorie radioattive provenienti in massima parte dalle 4 centrali nucleari smantellate e dai siti dismessi della filiera nucleare, ma anche da rifiuti industriali e di reparti ospedalieri di medicina nucleare. Stiamo parlando di circa 95.000 mc. di materiale a bassa, media e alta (solo il 3%) radioattività.

Manca un elemento-chiave presente in altri Paesi europei: il Deposito Nazionale.
Il progetto esiste da tempo e prevede una struttura interrata che occuperà una superficie di circa 150 ha. realizzata in moduli di calcestruzzo armato e di cemento disposti a più livelli di contenimento come una sorta di matrioska. Per il completamento dell’opera occorrerebbero, in teoria, 4 anni con 4.000 operai al lavoro per una spesa stimata in 900 milioni di €.
Solo che dal 2022 la lista ristretta dei siti con le caratteristiche ideali per accogliere il Deposito Nazionale giace secretata presso i ministeri competenti ed è ancora tutta da espletare la spinosa fase di negoziazione con gli enti locali coinvolti.

L’impasse è tutto politico perché nessuno - Lega inclusa - gradisce l’idea di intestarsi una decisione tanto controversa rischiando di alienarsi un territorio.
Traccheggiare, però, costa caro: abbiamo già speso cifre notevoli per mandare tonnellate di combustibile radioattivo a riprocessare nel Regno Unito e in Francia con la promessa di riprendercele entro il 2025 per stoccarle nel Deposito Nazionale ultimato (promessa chiaramente irrealizzabile), con Parigi che non pare più disposta a reggere il gioco accettando ulteriore materiale da trattare.

Ciò che Salvini omette di dire, infine, è che non basta costruire una o più centrali atomiche “sicure” senza sforare tempi e costi quando c’è anche da ricostruire tutta o quasi la filiera italiana dell’energia atomica.

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