martedì, gennaio 29, 2008

 

Fading




La fatica di questi giorni si fa sentire, disponendomi alla malinconia.
Lascio che tutto scivoli su note languide che hanno il ritmo carezzevole delle onde, cullato dalla voce dolce-amara di Kayah.

Sotto il velo della stanchezza, immagini e parole assumono accenti e sfumature inaspettate, diventano oblique e sfuggenti come i frammenti di un sogno, come il testo di questa canzone.


Non è un uccello
(To nie ptak)

Lei ondeggia in una veste dai colori vivaci,
di tanto in tanto volta il capo
e sorride.
Potresti giurare di aver visto le sue ali, ieri,
mentre cercava di nasconderle
sotto l'abito.

Ma lei
lei non è un uccello, non vedi?
Lei non è un uccello
non è un uccello, non vedi?

Con ogni suo movimento ti dice che t'ama,
ma tu cerchi piume sotto un orlo dai mille colori
perché di certo
hai visto l'ombra delle ali
ed è per questo che hai costruito una gabbia.

Ma lei
lei non è un uccello, non vedi?
Lei non è un uccello
non è un uccello, non vedi?

Ma lei
quest'oggi
quando l'oscurità nasconderà il tuo cuore
sarà alla finestra, ridendo tra le lacrime
con i capelli al vento.
E si trasformerà in un corvo
solo per tornare qui
ma come uccello del paradiso
perché è ciò che volevi
come un uccello del paradiso
come un uccello del paradiso
perché è ciò che volevi

(Kayah - Goran Bregovic)


P.S.: Per chi fosse curioso di ascoltare la canzone, ho trovato questo video su YouTube.

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sabato, gennaio 26, 2008

 

Tutti a casa




- “Ha sentito di Prodi? Guardi, son proprio contenta che l’hanno mandato a casa, quello là."
- "Aaah, era ora! Mi è stato sempre antipatico, sa? Con quell’aria da viscido e quel sorriso deficiente. E come apriva bocca, poi, mi dava sui nervi."
- "Sì, sì, cara, ha ragione. Lui e quegli incapaci della sinistra sono stati la rovina di questo paese.”


Epitaffio per Romano Prodi e per il governo dell’Unione: uno dei tanti che si potevano ascoltare in giro dopo il cupio dissolvi di giovedì sera al Senato.
C’è poco altro da aggiungere: probabilissimo che tra qualche mese le chiavi di questo Paese saranno restituite all'Unto, che potrà stappare lo champagne insieme ai suoi cortigiani, scherani e alleati.
Anche senza le scene da bettola offerteci da provetti alfieri del bon ton come Gramazio, Storto e Storace, sappiamo di che pasta sia fatta questa Destra che rispecchia gli umori profondi, gli interessi di bottega e i vizi di una certa Italia, per cui manteniamo la calma mentre ci prepariamo al peggio.

D’altra parte, se sfogliamo l’album dei ricordi di questi due avventurosi anni di governo del Centrosinistra resta l’impressione che ogni istantanea sia sfocata, che il tempo a disposizione sia stato dissipato a sedare le continue fibrillazioni interne alla maggioranza e a raggiungere estenuanti compromessi al ribasso.
Tante, troppe le promesse rimaste lettera morta: dalla legge sul conflitto d’interessi alla riforma del sistema radiotelevisivo, dalla modifica Legge 30 (Legge Biagi) alla riforma istituzionale.

La serietà al governo è impallidita in un ben più modesto “io speriamo che me la cavo”, mediando tra le velleità frustrate della Cosa Rossa, i rigurgiti di nostalgia democristiana dei centristi e le genuflessioni ai poteri forti e alle lobbies che hanno visto in prima fila la dirigenza del PD, troppo impegnata a dare al partitone un’identità ecumenica che non scontentasse nessuno.
A dirla fuori dai denti, chi più chi meno ne avevamo tutti le scatole piene di questa maggioranza rissosa, friabile e strabica, di dover trattenere il fiato a ogni votazione al Senato, di assistere impotenti alle prodezze di omuncoli che si atteggiavano a titani primeggiando nella sagra del veto incrociato e nel festival della tirata per la giacchetta.

Ci saremmo aspettati un qualche soprassalto d'orgoglio, un colpo di reni dopo l’affossamento dei PACS/DICO, dopo la resa alle corporazioni in rivolta contro il decreto Bersani, dopo la gestione a dir poco dilettantesca delle patate bollenti del CdA RAI e del caso Speciale: invece niente.
I pochi frutti dell’azione di governo restano nascosti nelle pieghe di una situazione economica difficile e recessiva, nei conti pubblici avviati al risanamento dopo anni di sciagurata finanza creativa. OK, ma la cambiale che abbiamo firmato per avere qualcosa di più e di meglio è andata in protesto e ora...
ora, ladies and gentlemen, sono cactus amari.

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martedì, gennaio 22, 2008

 

Povera Patria...




La Campania ancora brucia e soffre d'orchite alle ecoballe, le borse di tutto il mondo vanno in picchiata per l'esplosione della bolla speculativa sui mutui-spazzatura e noi - con il governo Prodi entrato in crisi "per motivi familiari" - proprio non sappiamo dove diavolo conferire tutta la spazzatura prodotta dalle dichiarazioni dei nostri uomini politici.

La mobilitazione domenicale a difesa del diritto del Romano Pontefice a esternare liberamente è stata - a mio modesto avviso - l'epitome perfetta dello sciocchezzaio nazionale cavalcato da personaggi che non sanno quel che dicono e non dicono quel che sanno, eppure parlano e, soprattutto, straparlano con la massima disinvoltura.

Un esempio? L'esimio assessore lombardo allo Sport Piergianni Prosperini (ex Lega Nord, ora Alleanza Nazionale) ha regalato ai microfoni la seguente, sublime perla: "Sono l'umile orso nella montagna del Signore, agli ordini di Papa Benedetto XVI, vicario di Cristo, Papa e, spero presto, Re".
Nella concitazione di afferrare per la coda il mistico augello dell'ispirazione, il soave Prosperini probabilmente si è dimenticato di omaggiare la memoria di Bonifacio VIII e Pio IX, nonché di mandare tanti cari saluti al fantasma della Repubblica Italiana, un tempo (forse) stato laico.

Che vogliamo farci? Oggi chi ha l'ardire di professare civilmente la propria laicità si becca aggratis le patenti di "Imbecille", "Laicista" e "Ignorante" generosamente dispensate dai facondi, democratici e tollerantissimi maître a penser della Destra Liberal/Teocon.
Vabbé, a ciascuno la libertà d'essere folgorato sulla via di Damasco, sulla Salaria, sull'Appia Antica, in via della Conciliazione o sullo svincolo autostradale di Benevento, tuttavia la spocchia con cui certi personaggi predicano male dopo aver razzolato per anni nel peggio fa venire voglia di rispondere: "Ma andate a scopare il mare!"

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lunedì, gennaio 21, 2008

 

Ritirate strategiche



"Che s'ha da fa pe' campà?"
Questo si domandava stamattina l'oscuro e cogitabondo copywriter, sentendosi più come mai calato nel ruolo di coprywater e immerso nella cacca sino al colon.

Il motivo di tali considerazioni esistenziali?
È immortalato nell'immagine a lato: l'argomento migliore, il massimo da cui possa sgorgare un gioioso rivolo di letteratura post-moderna sub specie di comunicazione aziendale... .

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sabato, gennaio 12, 2008

 

Il sorriso di Giada



Per i suoi compagni di scuola Giada era “Giada la grassona” e “Giada la matta”.
Per Valeria, l’anziana commessa del bar pasticceria Morselli, Giada era la bambina che la domenica e nelle feste comandate entrava tenuta per mano dal padre e si rimpinzava all’inverosimile di pasticcini, praline e cioccolata, assorta e apparentemente ignara degli sguardi accigliati o commiserevoli dei clienti di passaggio.
Pochi facevano veramente caso a quella bambina silenziosa e vestita come una principessina sovrappeso. D’altra parte, nella sua passeggiatina domenicale Giada non concedeva attenzioni a nessuno all’infuori del papà e dei dolci. Tutte queste io le avrei avrei apprese con il tempo.


Conobbi Giada un pomeriggio che passai a riprendere Martina, mia figlia, che era andata a giocare all’oratorio della parrocchia. Tagliando, come al solito, per i giardinetti dietro la chiesa, fui attirato dalle urla che provenivano da un crocchio di ragazzini poco distante. Mi avvicinai, preoccupato che Martina fosse coinvolta in quella che aveva tutta l’aria di essere una zuffa.
Al mio arrivo, il cerchio si aprì di colpo e vidi due ragazzini che infierivano su una loro coetanea: uno la teneva ferma e l’altro la tempestava di pugni e calci. Lei gridava e singhiozzava, cercava disperatamente di divincolarsi dalla stretta e gemeva a ogni colpo subito.
Mi occorse un attimo per far allontanare i due aggressori, molto di più per trattenere la vittima che, pur se pesta e inzaccherata di erba e di fango, si agitava determinata a vendicarsi.
Non trovai di meglio che cercare di calmarla mentre l’accompagnavo al vicino oratorio. Dall’occhiata significativa e dalle parole del sacerdote capii che la bambina non era nuova a situazioni burrascose.
Tornando a casa, Martina mi raccontò che la bambina soccorsa era “quell’antipatica grassona di Giada”, una coetanea che “per fortuna frequentava in un’altra classe”.
Tutti a scuola conoscevano Giada e se ne tenevano a distanza. “Sai, papà, quella lì è una spostata” - esclamò Martina battendo significativamente l’indice sulla tempia - “Magari non ti accorgi neanche che c’è, poi a un tratto ti salta addosso urlando come una matta che hai rubato le sue figurine o che le hai detto parole brutte.


Quella sera stessa rividi Giada. Era sulla porta di casa accompagnata da un’anziana e minuta signora che dichiarava di essere la nonna.
A parte il bernoccolo sulla fronte, il livido che andava scurendosi appena sotto lo zigomo e il labbro inferiore gonfio, Giada era ben diversa dalla furia scarmigliata che aveva cercato di mordermi la mano come ringraziamento per il mio intervento.
Raccontando quanto sapevo dell’accaduto del pomeriggio, ebbi modo di osservare il comportamento di Giada. Qualcosa in lei mi incuriosiva e metteva a disagio. M’inquietava la sua apparente mancanza di reazioni, il passaggio repentino da occhiate colme di interesse verso Martina, che intanto fingeva di essere intenta a finire i compiti, a sguardi vacui quando, evidentemente, percepiva di essere al centro dell’attenzione degli adulti.
E poi c’era un altro dettaglio che mi tornò in mente solo in seguito: neanche quando la nonna l’accarezzava e la blandiva, Giada accennava l’abbozzo di un sorriso.


Nelle settimane successive non ebbi ulteriori occasioni di rivedere Giada. Mi preoccupai, però, il giorno in cui mia moglie e Martina m’informarono che Giada aveva preso l’abitudine di seguire a distanza Martina per un pezzo di strada quando tornava a casa dall’oratorio.
Quella sera volli verificare la cosa. All’oratorio notai come Giada, costantemente relegata ai margini dei giochi di gruppo, cercasse ogni pretesto per richiamare l’attenzione di Martina e quanto fosse contrariata quando mia figlia la respingeva, preoccupata e infastidita.
La situazione poteva prendere una brutta piega - pensai - se davvero Giada aveva l’inclinazione a improvvisi scatti di violenza. Per fortuna, proprio in quel momento la nonna di Giada apparve al cancello e la nipotina si dispose docilmente a seguirla.
Inutile dire che feci la mia bella ramanzina a Martina per l’atteggiamento che aveva tenuto. Tuttavia intuivo che mia figlia non era per nulla convinta: non avrebbe mai accettato spontaneamente Giada come amica, un po’ per timore dei comportamenti di lei un po’ per la vergogna di essere vista fraternizzare con “la matta”.


C’erano domande che restavano senza risposta: come mai né io né mia moglie avevano mai visto la mamma o il papà di Giada? Perché alla sua età, la bambina veniva lasciata libera di seguire di nascosto Martina dopo l’orario dell’oratorio? Perché sia a me che a mia moglie era rimasta la spiacevole impressione che dietro quello sguardo velato si nascondesse tanto dolore?
In ogni caso, cosa potevamo fare e chi eravamo noi per impicciarci dei fatti di un’altra famiglia?


La scuola era terminata da pochi giorni quando, un sabato poco dopo le due del pomeriggio, Giada fece comparsa sul marciapiede davanti casa. Sostava e guardava fisso verso casa nostra, sola.
La prima ad accorgersene fu Martina. Io e mia moglie decidemmo di aspettare un po’ prima di fare qualsiasi passo. Poi - con le buone e con le cattive - convincemmo Martina ad andare a chiamare Giada prima che prendesse un’insolazione. Restammo a osservare l’approccio dalla finestra del soggiorno, pensando che Giada sarebbe scappata o avrebbe rifiutato l’invito. Invece le due bambine tornarono insieme verso la porta di casa.
Senza darlo troppo a vedere, per tutto il pomeriggio ci demmo il cambio per controllare che le due bambine fossero tranquille e rilassate. Le vedemmo impegnate a confabulare fittamente, poi a giocare insieme.
Giada sembrava particolarmente attratta da uno dei peluche della cameretta di Martina: un grande cucciolo di tigre dal pelo folto e perennemente arruffato; la vedemmo più volte intenta a spazzolarlo con cura.


Venne l’ora di telefonare ai genitori di Giada per avvertirli che la bambina era a casa nostra e che, se loro erano d’accordo, sarebbe potuta restare anche a cena. Al numero dettatoci da Giada rispose la nonna. Dalla cornetta, la voce della signora esprimeva contrarietà, non sorpresa.
Ci disse che il padre della bambina era fuori città per lavoro e che la madre era indisposta, ma che sì, Giada poteva restare, ovviamente se la cosa non ci creava troppo incomodo.
Fu una serata piacevole per tutti. Tenemmo d’occhio le reazioni della nostra piccola ospite, ma ci accorgemmo di essere a nostra volta sotto osservazione. Con la coda dell’occhio, infatti, scorsi Giada che mi lanciava occhiate scrutatrici. Nei confronti di mia moglie e di Martina, invece, dimostrava una sorta di basita adorazione. Mancava solo un dettaglio: che le labbra di Giada si stirassero in un sorriso capace di sollevare quelle benedette guance paffute e di illuminare il viso.


Per tutto il mese di Luglio, Giada fu una sorta di figlia adottiva. Non che venisse ogni giorno a farci visita, ma ormai era una di casa.
Frammento dopo frammento, con l’aiuto determinante di Martina che raccoglieva le confidenze di Giada, si composero le possibili risposte alle domande sul conto della bambina che ci eravamo posti tempo addietro.
La sofferenza di Giada era iniziata circa due anni addietro, allorché la madre aveva iniziato a manifestare i primi sintomi rilevanti di turbe psichiche.
Nella memoria della bambina erano rimaste scolpite le terribili scenate per la cameretta lasciata in disordine o per la sua lentezza nel fare colazione. Non poteva dimenticare il suo peluche preferito gettato deliberatamente nel caminetto, il rumore della porta della camera da letto che veniva sbattuta e chiusa a chiave, le ore interminabili passate nell’andito a piangere, bussare, supplicare e attendere che la madre decidesse di perdonarla.
Il padre adorato, spesso assente diversi giorni la settimana, quando tornava a casa si sforzava di sopperire in qualche modo alla mancanza di cure e d'affetto.
Già provata, Giada aveva vissuto come un abbandono l’essere mandata per due mesi presso uno zio paterno, dimostratosi anaffettivo e violento.
La situazione era parzialmente migliorata quando la nonna materna si era trasferita da loro, dividendosi tra le cure alla figlia e l’accudimento della nipote.


Giada cenò con noi anche la sera immediatamente precedente la nostra partenza per le ferie estive. D’accordo con Martina, avevamo preparato per lei una piccola sorpresa da consegnare quando l’avremmo riportata a casa dei suoi. Vedendola immalinconita per l’imminente distacco, però, decidemmo di anticipare i tempi. A fine cena, perciò, Martina portò in soggiorno il voluminoso pacco, consegnandolo tutta trepidante all’amichetta.
La reazione di Giada alla vista del grande tigrotto di peluche fu fulminea. Si alzò, scaraventò a terra il giocattolo, spinse da parte con violenza l’esterrefatta Martina e corse alla porta di casa. Prima che ci riprendessimo dalla sorpresa, Giada aveva scantonato per qualche via laterale.
Ci volle tempo per ritrovarla ancora singhiozzante e ranicchiata ai piedi di un albero in un angolo del giardino dietro la parrocchia. Il breve percorso in macchina verso casa sua si svolse nel più completo silenzio. Eravamo tesi, imbarazzati e afflitti per aver causato una reazione del genere.
Al momento del commiato, Martina allungò esitante a Giada il peluche che sino a quel momento aveva tenuto stretto a sé e le mormorò: - “Se non lo vuoi come regalo, almeno tienilo finché non torniamo, così lui si sentirà meno triste e solo.
Alla luce del lampione assistetti a un piccolo miracolo. Giada stava sorridendo; sorrideva davvero a tutti noi, a dispetto dei grossi lucciconi che stavano scendendole piano lungo le guance.




Questo post/papocchio è stato scritto per simpatia nei confronti dell’iniziativa dello Scarabocchio di Comicomix, per ricordare il sorriso di un bimbo e aiutare altri bambini a continuare a sorridere.

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mercoledì, gennaio 09, 2008

 

Fortuna e Caso



Bajii Najii
- Sorte Propizia e Caso -
ma la Sorte è cieca,
le puttane del Caso girano ubriache
e i folli si cercano nell'ora della sventura
(Garamantes)

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