lunedì, settembre 20, 2021

 

Negli scomodi panni del femminicida



Fossi una persona saggia dovrei tenermi alla larga da argomenti d’attualità in cui l’opinione pubblica è fortemente polarizzata. Siccome nonostante la canizie la saggezza tarda ad arrivare, uso questo blog in disarmo per azzardare una riflessione sul femminicidio o, meglio ancora, sul protagonista in negativo: l’omicida.

Per quella che è la mia insignificante esperienza di vita, noi uomini non siamo ancora entrati del tutto nell’ordine di idee che i ruoli all’interno delle coppie sono diventati fluidi, che le scelte vanno discusse e contrattate e, sopratutto, che il compito di adattarsi alla convivenza e alle sue scomodità non è più a carico esclusivo delle donne.

Vorremmo avere ancora il controllo della situazione senza l’incomodo di stare a discutere, chiedere, trovare compromessi, esporre apertamente sentimenti, malumori e dubbi senza l’ansia di difendere prerogative o di uscire sminuiti dal confronto con la persona che diciamo di amare.
Ci manca l’elasticità per accettare la libertà delle donne e non sappiamo parlare di noi, pretendendo però di essere capiti e rispettati.

Per questo ho scritto un abbozzo senza pretese di lettera, sulla falsariga di quelle che gli omicidi lasciano in giro per spiegare le ragioni del loro gesto, nella quale ho raccolto alcune delle cose che gli uomini non amano dire apertamente o confessano fuori tempo massimo. Il mio "esperimento di scrittura" nuon vuole minimamente essere un elogio del femminicida o di un certo vittimismo maschile che definirei "tossico".

Ovviamente in ogni femminicidio fa storia a sé e ci sono milioni di sfumature determinanti che non ho potuto né vagamente abbozzare né riportare in poche righe. Amen.


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mercoledì, dicembre 23, 2020

 

Alieni ortodossi a New York




Bill De Blasio, Sindaco di New York, ha fama d’essere persona di larghe vedute. Per costringerlo a elevare una sanzione da 15.000 $, perciò, ci deve essere dietro un motivo serio.

Lo schiaffo degli ultraortodossi

Destinatari della multa sono i vertici cittadini della setta chassidica Satmar, ala fondamentalista dell’ebraismo ortodosso che si concentra a Williamsburg (Brooklyn) e nel sobborgo di Kyrias Joel, contando nella sola Grande Mela su 65.000/75.000 aderenti.

A far saltare la mosca al naso di De Blasio è stata la sfacciata violazione delle disposizioni anti Covid-19 su assembramenti, distanze di sicurezza e uso di mascherine in occasione delle nozze del nipote di Aaron Teitelbaum, uno dei due grandi rabbini che si spartiscono la guida della setta, organizzate in gran segreto in una sinagoga di Williamsburg e celebrate alla presenza di migliaia di fedeli festanti (la capienza massima della sinagoga è di circa 7.000 persone).

C'era stato un precedente:
a ottobre, le nozze del nipote del gran rabbino Zalman Teitelbaum, fratello minore e acerrimo rivale di Aaron, erano state forzatamente ridotte ad appena 50 invitati dopo la minaccia di divieto da parte del Governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo.
I seguaci di Aaron hanno fatto tesoro della lezione riuscendo a mantenere il segreto più assoluto sui preparativi delle nozze. Poi, non contenti di aver eluso le norme dimostrando di infischiarsene della pandemia che sta flagellando gli Stati Uniti, a cose fatte hanno avuto l’impudenza di vantarsene pubblicamente con un articolo dai toni entusiastici comparso sul giornale in Yiddish della setta.

Chi sono i chassidim Satmar?

Stiamo parlando di una delle più numerose e potenti frange dell’ebraismo ultra-ortodosso, forte di circa 120.000 adepti sparsi tra USA, Israele, Olanda, Argentina e altre nazioni.

I tratti distintivi dello chassidismo Satmar sono l’estrema, letterale aderenza alle norme religiose, il totale rifiuto della moderna cultura laica, il fervente anti-sionismo, l’autoisolamento sia nei confronti dei non-ebrei sia verso il resto del mondo ebraico, l’autorità indiscussa del Rabbino su qualsiasi decisione rilevante nella vita del fedele e il sostegno all’educazione e alla comunicazione in Yiddish.
Non è un caso se a Kyrias Joel, 26.000 abitanti, il 91,5% dei residenti comunica in Yiddish in casa contro il 6,5% che utilizza l’inglese e ben il 46% dichiara di “non parlare bene o non parlare affatto l’inglese”.

Le origini della setta sono in Transilvania, regione oggi in gran parte entro i confini della Romania, ma fino alla prima guerra mondiale all’interno della cosiddetta Grande Ungheria e dell’impero Austro-ungarico. Il nome Satmar altro non è che la traslitterazione in Yiddish di Szatmárnémeti, l’odierna Satu Mare, città transilvana dove il rabbino Joel Teitelbaum aveva acquisito largo seguito tra la fine del XIX e la prima parte del XX secolo.

Nel giugno del 1944 Joel Teitelbaum scampò all’annientamento nazista della popolazione ebraica ungherese grazie ai suoi seguaci che raccolsero un’ingente somma per consentirgli di salire sul cosiddetto Treno di Kastner, il convoglio merci che trasportò 1.684 ebrei ungheresi da Budapest alla Svizzera dietro il pagamento di una cospicua somma di denaro alle autorità germaniche.
Dalla Svizzera, Rabbi Joel si spostò prima nella Palestina sotto mandato britannico e successivamente a New York dove, a guerra finita, riorganizzò la sua comunità tra gli ebrei di origine ungherese e mitteleuropea.
La famiglia Teitelbaum è di fatto una dinastia rabbinica (cosa non rara nell'ebraismo ultraortodosso) attualmente divisa tra i due nipoti di Rabbi Joel, ed è anche un piccolo impero: alla morte del padre degli attuali leader, avvenuta nel 2006, il patrimonio della setta era stimato in 1 miliardo di Dollari tra beni immobili, attività e conti correnti.

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giovedì, ottobre 04, 2018

 

Politica effimera: copertina e veleni per MEB



Sarà pure un’iniziativa discutibile sul piano dell’opportunità, dei tempi, delle modalità e della scelta della testata, sta di fatto che il lancio del nuovo numero del periodico Maxim con Maria Elena Boschi come cover story ha riportato in superficie la morchia della campagna di carachter assassination di cui l’ex ministro è stata fatta oggetto in quanto donna e donna di potere, simbolo dell’ascesa e della caduta del PD di Matteo Renzi e figlia dell'ex vicepresidente di quel cratere tossico chiamato Banca Etruria.

il bias

La bolla di bias cognitivo che circonda Maria Elena Boschi è palpabile nell’acredine di centinaia di commenti postati su Twitter che hanno rimasticato accuse e invettive memorizzate come mantra.
Nessuna curiosità, neanche un accenno di voglia di verificare se l’avvocatessa di Montevarchi corrisponda effettivamente alla Maria Etruria Boschi bersagliata dagli articoli di alcuni quotidiani e dai meme: figlia di papà algida, arrogante e assetata di potere, vestale del giglio magico, gregaria di bella presenza ma priva di autonomia e di spessore senza il suo anfitrione Renzi.

D’altronde non è che MEB sia apparsa a suo agio quando si è trattato di proporre un’immagine di sé meno inavvicinabile, avviluppata nei rituali e negli intrighi di palazzo, distaccata dalla vita dei comuni mortali.

Nelle interviste rilasciate a tale scopo sembra occhieggiare non solo l'esercizio del diritto di scegliere cosa condividere della propria sfera privata, ma anche una certa artificiosità, quasi ci fosse una riserva di fondo a sottrarre tempo alla politica per piegarsi alle indicazioni dell’ufficio stampa: questione di carattere o di priorità, forse.

Doctor Alessandro & Mr. Meluzzi

Sia come sia, saltando a pie’ pari i commenti alla copertina di Maxim smaccatamente triviali e offensivi, si segnala il “contributo alla discussione” offerto da Alessandro Meluzzi, habitué dei salotti televisivi che elenca nelle proprie referenze le qualifiche di medico psichiatra, psicoterapeuta, criminologo, docente di psichiatria forense e niente meno che Primate Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana.
Da una simile batteria di titoli professionali ci si aspetterebbe opinioni se non illuminanti, almeno originali. Al cospetto di un trend topic più vicino alle rubriche di Dagospia, invece, il buon Meluzzi non ha trovato di meglio che spiattellare un quesito lasco come: “A quando il servizio in Intimo?”

Per carità, la leggerezza di spirito, il guizzo d’ironia e la battuta arguta non destinata alla posterità sono merce corrente e del tutto legittima sui social: guai se fosse il contrario.
Solo che, a ben guardare, quel A quando il servizio in Intimo? ha la stessa eterea leggerezza della Kryptonite.

Sbaglierò, ma ho recepito nelle parole usate da Meluzzi una sgradevole mancanza di rispetto che va oltre il sarcasmo nei confronti di un personaggio pubblico di cui non si condividono le scelte e la collocazione politica.
A dirla tutta mi è parsa un’imbeccata perfida ai propri follower, una calcolata istigazione a sfogare su Maria Elena Boschi il sessismo pecoreccio dell'italiano medio e la malevolenza che le donne sanno distillare nei confronti di altre donne.

Il servizio fotografico per un periodico patinato non è certo una questione di stato, ma le parole sono importanti anche laddove hanno un ciclo di vita effimero come Twitter.

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sabato, maggio 12, 2018

 

Quando in chiesa si pregava Sant'Aronne


Della chiesa citata nel titolo non resta che un po’ di pietrame delle fondamenta a malapena distinguibile nel sottobosco. Apparteneva a un piccolo villaggio medievale, Olevani (od Olàfani), situato in una remota vallata dell’Alta Ogliastra apprezzata dai trekker perché gli impervi sentieri montani conducono a Codula di Luna e a quel paradiso marino chiamato Cala Luna.
Dell’esistenza del villaggio, estintosi tra il XII e XIII secolo per ragioni imprecisate (siccità, carestia, malattie, contrasti con altre comunità) è rimasto appena qualche brandello di notizia tramandato nella memoria orale dei paesi confinanti (Urzulei). Si narra ad esempio che Giorgio, primo vescovo di Suelli canonizzato come santo, abbia sostato a Olevani nella sua avventurosa visita pastorale (XI secolo). Si tramanda anche il nome del santo patrono cui era dedicata la chiesa del villaggio: Santu Aronau.

Come in un’indagine, un nome diventa un indizio che porta ad altro. Aronau, infatti, altri non sarebbe che l’Aronne (Aaron) dell’Antico Testamento, fratello di Mosè e Gran Sacerdote degli israeliti durante l’Esodo.

Santa Romana Chiesa annovera Aronne tra i santi e beati del calendario (festa il 1 luglio), ma anticamente il suo culto in pubblico era una sorta di concessione speciale ristretta alle famiglie ebree che si erano convertite al cristianesimo.
Per deduzione, l’elevazione a santo patrono implicherebbe una consistente presenza israelita a Olevani.

Da dove venivano questi ebrei e perché avevano scelto di vivere in un luogo tanto defilato?

L’unica fonte storica che abbia una qualche attinenza riguarda i 5.000 ebrei di Roma che l’imperatore Tiberio avrebbe fatto deportare sulla costa orientale sarda a seguito di tumulti scoppiati nella capitale.
Gli storici romani tagliano corto sulla sorte di questi infelici, spediti a fare da “cuscinetto” tra le pacifiche popolazioni latinizzate della costa e i “barbari” (barbaricini) dell’interno: sarebbero morti di stenti e di malattia a causa dell’insalubrità dei luoghi.

Per amore di ipotesi, se si volesse credere a una discendenza ebraica tanto prolifica e tenace da perpetuarsi per un millennio, ciò significherebbe che i deportati non erano solo di sesso maschile o che la deportazione abbia coinvolto interi nuclei familiari, dato che l’appartenenza al popolo ebraico si trasmette solo per via matrilineare. Si dovrebbe ipotizzare, inoltre, che la conversione al cristianesimo, avvenuta in epoca imprecisata, non avesse cancellato la consapevolezza delle radici ebraiche.

La presenza di piccole, ma influenti comunità ebraiche nei poverissimi villaggi dell’Ogliastra almeno fino alla messa al bando imposta dai cristianissimi re di Spagna è sempre stata un argomento a metà tra la speculazione di antropologia culturale e la leggenda a causa della totale assenza di documentazione.
La scoperta del culto tributato a Sant’Aronau non sposta gli equilibri, ma d’altra parte il mistero e le domande insolute sono parte integrante del fascino del Medioevo.

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martedì, giugno 20, 2017

 

Tiresiatyricon





Sulla figura di Tiresia, l’indovino per eccellenza nel mondo antico, sono fioriti diversi miti sin dai tempi di Omero.
Figlio di Evereo e della ninfa Cariclo, Tiresia viene tratteggiato come un cittadino tebano senza doti sovrannaturali e dalla vita ordinaria sino al giorno in cui, accidentalmente, viene a contatto con il mistero della metamorfosi.

Andato a passeggio sulle pendici del monte Citerone, Tiresia s’imbatte in una coppia di serpi attorcigliate nell’amplesso nel mezzo del sentiero.
Forse infastidito dalla mancanza di pudore, Tiresia separa i due rettili con un bastone finendo per colpire duramente la femmina. Mal gliene incoglie, perché si ritrova immediatamente trasformato in donna.

In questo frangente Tiresia dimostra non comuni doti di adattabilità, abbracciando senza drammi la sua nuova identità di genere di cui sperimenta tutte le sfaccettature fisiche, emotive, sociali e sessuali.

Trascorsi sette anni, Tiresia si ritrova nuovamente davanti una coppia di serpenti in amore. Ammaestrata dal ricordo di quanto avvenuto, Tiresia questa volta si premura di colpire il maschio. Ça va sans dire, Tiresia torna a essere un uomo.

La faccenda, sia pure straordinaria, sarebbe finita nel dimenticatoio se Zeus, reso disinibito da troppe libagioni, non si fosse impelagato in un’accanita discussione con sua moglie Hera.
Motivo del contendere era chi, tra uomini e donne, ricavasse maggior piacere dall’atto sessuale. Il padre degli dei sosteneva fosse la donna, mentre Hera era irremovibile nell’indicare l'uomo.

Non arrivando a un compromesso ai coniugi divini sovviene quanto accaduto a Tiresia, così lo convocano sull’Olimpo per fare da giudice alla disputa. Messo alle strette, Tiresia dichiara - con più onestà che tatto - che la donna può arrivare a provare un piacere tre volte superiore a quello dell'uomo.

Non tollerando di essere contraddetta e sentendosi smascherata, l’infuriata Hera si vendica privando Tiresia della vista.
Zeus, che non può annullare il gesto di sua moglie, per risarcire il malcapitato gli dona il potere della chiaroveggenza e una vita lunga sette volte la media dei mortali.

Tiresia morirà ultracentenario lontano da Tebe: secondo alcuni di congestione, essendosi abbeverato all’acqua gelida di una fonte mentre era in fuga dalla città messa al sacco. Secondo altri muore di sfinimento durante il viaggio di trasferimento a Delo in compagnia di sua figlia, anch’essa indovina.
Arrivato negli inferi Tiresia convince Ade, Signore dell’Oltretomba, a lasciargli il dono della preveggenza. Per questo nell’Odissea Ulisse consulta l’ombra di Tiresia per sapere se, quando e in che modo potrà fare ritorno a Itaca.


Dal mito alla farsa

La metamorfosi da uomo in donna e viceversa, la curiosità e l’esplorazione delle potenzialità insite nelle differenze non solo fisiche tra i sessi troveranno nelle Metamorfosi di Ovidio una sistemazione poetica elegante, ma in epoca romana non mancheranno di stuzzicare la produzione di parafrasi e parodie scurrili del mito.

In una di queste Tiresia, cittadino e marito integerrimo, subisce le ire del dio Apollo, che ha allacciato una tresca con l’avvenente e giovane moglie.
Ferito nell’onore, Tiresia dà in escandescenze il giorno in cui, tornato a casa, scopre i due amanti in flagrante. Nell’accesso d’ira Tiresia arriva a rovesciare sul talamo il contenuto di un braciere provocando ustioni alla virilità del dio, al momento in forma d’uomo. Sofferente e infuriato per tanta mancanza di reverenza, Apollo si vendica trasformando all’istante Tiresia in donna, pensando così di prendere due piccioni con una fava: sbarazzarsi di un infimo rivale e umiliarlo a morte.

Qualche tempo dopo, il dio si ricorda della sua vittima e si reca in incognito a Tebe, pronto a godersi lo spettacolo di un Tiresia caduto in disgrazia e oggetto di scherno.
Resta, perciò, sbigottito trovando l’ex cittadino modello intento a concedersi con evidente soddisfazione prima a un nerboruto carrettiere, poi a un alto magistrato della città.

Costretto a fare la fila confuso in mezzo a un campionario di tebani allupati, finalmente Apollo riesce ad appartarsi e a scambiare quattro chiacchiere con Tiresia. Si arrende così all'evidenza che il mortale non ha alcun rimpianto per ciò che ha perduto, anzi benedice la sventura che le ha fatto scoprire quanto limitate fossero le sue esperienze di uomo rispetto al piacere che il corpo e la mente di una donna possono provare. Malgrado sia un dio, però, Apollo è in imbarazzo: non riesce a simulare un appetito erotico per Tiresia benché quest’ultima s’industri allo scopo. Delusa, Tiresia si lascia sfuggire: “Tra tutti i figli d'uomo belli e brutti, giovani o canuti solo tu, o straniero, ti sei mostrato incerto, incapace di ardere come uno stoppino bagnato e di farmi sentire desiderata, simile a una dea!”

Indispettito, Apollo abbandona il travestimento. Indifferente alle lacrime e alle suppliche, ritrasforma un'affranta Tiresia in uomo, per di più cieco a causa dell'esposizione all'insopportabile fulgore divino.
Tuttavia, punto dal rimorso di essersi comportato in modo meschino e timoroso del giudizio degli altri dei, in extremis Apollo concede a Tiresia il dono della preveggenza.

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domenica, giugno 11, 2017

 

Disumanizzare





Non mi ritengo buonista: mi sta solo sul cazzo chi, dall'alto di una presunta superiorità culturale e morale, con due righe sprezzanti di commento su Facebook disumanizza milioni di persone di cui, ovviamente, sa tutto quel che c'è da sapere.
Agli occhi di questi colti crociati da tastiera gli altri sono il MALE alle porte di casa: se non sono belve sanguinarie sono parenti o complici di belve, infidi sempre e comunque.
Perciò ai loro occhi è innaturale che nascano, crescano, ridano, piangano, sudino, abbiano fame, paura e il mal di denti, si innamorino, abbiano figli e li amino come noi.

Ne discende che per i subumani non valga quel che diceva un Rabbi messo a morte sotto il regno di Tiberio:

E chi è quel padre fra di voi che, se il figlio gli chiede un pane, gli dia una pietra?
O se gli chiede un pesce, gli dia invece un serpente?
Oppure se gli chiede un uovo, gli dia uno scorpione?
"Believe me when I say to you / I hope the Russians love their children too" cantava Sting a metà degli anni '80...

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martedì, giugno 06, 2017

 

Diversi, uguali, umani



Lezione di disegno

Mio figlio sistema la sua scatola di colori di fronte a me

e mi chiede di disegnare un uccello per lui.

Nel colore grigio immergo il pennello

e disegno un quadrato con serrature e sbarre.

Lo stupore gli riempie gli occhi:

"... Ma questa, padre, è una gabbia:

non sai disegnare un uccello?"

E io gli dico: "Figlio, perdona,

ho dimenticato la forma degli uccelli".
***
Mio figlio mette il libro di disegno davanti a me

e mi chiede di disegnare del grano.

Prendo la penna

e disegno una pistola.

Mio figlio si burla della mia ignoranza

domandandomi:

“Padre, non sai la differenza tra una spiga e una pistola?“

Gli dico: "Figlio,

una volta conoscevo la forma della spiga di grano

la forma del pane

e quella della rosa.

Ma in questi tempi crudeli

negli alberi della foresta s'adunano

i combattenti delle milizie

e la rosa indossa un'uniforme sbiadita.

Questo è tempo di frumento armato

uccelli armati

cultura armata

religione armata.

Non puoi comprare una pagnotta

senza trovarvi dentro una pistola

Non puoi cogliere una rosa nel campo

senza che levi le sue spine contro il tuo volto

Non puoi comprare un libro

che non ti esploda tra le dita".
***
Mio figlio siede ai bordi del letto

chiedendomi di recitare una poesia.

Dai miei occhi una lacrima scivola sul cuscino.

Stupito, mio figlio la sfiora ed esclama:

"Ma questa, padre, è una lacrima, non una poesia!"

E io gli dico:

"Quando crescerai, figlio mio,

e leggerai l’antologia della poesia araba

scoprirai che parole e lacrime sono gemelle

e che la poesia araba

non è altro che una lacrima pianta da dita che scrivono".
***
Mio figlio ripone le penne e i pastelli nella loro scatola

e mi chiede di disegnare una patria per lui.

Trema il pennello nelle mie mani

e il cuore mi si spezza nel pianto.

Nizar Qabbani

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sabato, gennaio 07, 2017

 

Le divisioni di Saviano



Gomorra book by Roberto Saviano

«Il Papa? Quante divisioni ha il Papa?», avrebbe chiesto Stalin a Yalta a quanti gli facevano presente le esigenze di Pio XII sull'assetto europeo. La stessa domanda risuona oggi a proposito di Roberto Saviano da Napoli, scrittore e saggista, almeno alla luce delle reazioni tranchant nei toni e miserrime nei contenuti di alcuni noti esponenti della politica nostrana alla sua uscita sogno sindaci africani estrapolata da un’intervista curata da Gianni Riotta per la RAI.

Già, di quante divisioni dispone Roberto Saviano? È un pericoloso arruffapopoli? È il leader in pectore di un movimento politico di massa? Si candida a sindaco di qualche grande città? Ha in tasca la potenza deflagrante della verità assoluta o la soluzione definitiva per sanare l’Italia meridionale dai suoi mali endemici?

Direi niente di tutto questo. Saviano di per se non è un oracolo, un santone o un eroe senza macchia da sollevare su laici altari.
Di mestiere fa lo scrittore, ovverosia campa sul successo di ciò che scrive. E siccome scrive e parla di malavita organizzata e di altri problemi di stringente attualità si documenta, studia, riflette ed esprime opinioni talvolta discutibili ma non del tutto infondate: è così che si è costruito una sua autorevolezza.

Dice anche stronzate, Saviano, che sembra avere un altissimo concetto di se a fronte di una simpatia e di un calore umano tutt’altro che irresistibili e si presta al rituale delle “ospitate” sui media per promuovere le sue opere in uscita. Dov’è lo scandalo?
Dà fastidio, ah come dà fastidio in questo Paese il Roberto Saviano ghibellin fuggiasco con robusto conto in banca; quanto urta l’intellettuale finto-asceta che si permette di levare il dito accusatore senza sporcarsi le mani, il pennivendolo che lucra vendendo la carogna di un’Italia parallela, cinica, molle, malavitosa e decadente.

Ma esiste quest’Italia marcia alle radici o è solo il parto della fantasia di un furbone, di un lavativo che ha trovato il modo di vivere in agiatezza senza faticare?
Forse è proprio qui il punto. Non è in discussione l’esistenza di camorra, sacra corona unita, ndrangheta e mafia, dei racket, della corruzione, del caporalato, delle guerre per il controllo del territorio, ma che sia Saviano a spremere questi bubboni per vendere - bene - i suoi libri: altrove chiamerebbero questo atteggiamento invidia sociale o rancore iconoclasta.

Quanto poi al “sogno un sindaco africano” non significa niente se non si colloca quest'affermazione nel contesto dell’asfissia culturale, politica e amministrativa del Centro-Sud, dove i semi del riscatto e della speranza sembrano puntualmente seccare in una terra diventata sterile.
Prendersela con Saviano perché “fa male all’immagine di Napoli” o perché invade indebitamente il campo della politica è un po’ come avere un orgasmo fissando il dito che indica la luna.

Inciso finale: a scanso di equivoci, mai stato fan di Roberto Saviano.

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mercoledì, novembre 30, 2016

 

Quotation



Io conosco la risposta. La risposta è che mai e poi mai devi fare affidamento su un’altra persona per la tua pace interiore.
Se lo fai resterai fregato anche se in buona fede: non oggi, forse, ma prima o poi.
Devi - che ne so - imparare a vivere con te stesso. Devi imparare a rassettare il letto da solo e a preparare la tavola per uno senza sentirti patetico. Devi essere forte, fiducioso e compiaciuto di te stesso e non dare la minima impressione di essere incapace di arrangiarti senza quella certa stramaledetta persona.
Devi fingere, di brutto.

Armistead Maupin, da More Tales of the City

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giovedì, agosto 25, 2016

 

"Cold Case" archeologico



Morgan FreemanQualcuno forse ricorderà l’attore Morgan Freeman nei panni del moro Azeem nel film Robin Hood, principe dei ladri (1991), ambientato nell’Inghilterra del XII secolo.
La presenza di un musulmano di colore - uomo d’arme e di raffinata cultura - dava un tocco di esotico alla trama e faceva da contraltare all'irruenza di Robin di Locksley, rampollo della piccola nobiltà educato più all'uso delle armi che ad altri saperi.

Fuori dagli artifici scenici, però, imbattersi nelle spoglie di una persona nata e cresciuta nel Nordafrica sepolte in un cimitero medievale inglese è un po' come trovare un iPhone in una tomba etrusca. Ed è esattamente quanto è successo alcuni anni fa a Ipswich, antica cittadina portuale dell'Inghilterra sud-orientale, creando i presupposti per un particolarissimo "cold case" archeologico.

Andiamo per gradi

Durante i lavori di scavo per la costruzione di un complesso residenziale vengono alla luce una quindicina di sepolture di epoca medievale. Un’equipe di archeologi, storici e medici forensi viene chiamata a esaminare i resti esumati per valutare la scoperta e inquadrarla dal punto di vista storico.
La composizione interdisciplinare del team consente di chiarire subito alcuni punti.
Innanzitutto, data la collocazione del sito si risale al camposanto attiguo al convento dei Frati Minori Francescani di cui è attestata la presenza in loco dalla fine del Duecento, ma di cui da secoli non resta alcuna traccia se non nella toponomastica (Franciscan Road) e nelle antiche mappe della città.
Inoltre, il fatto che le salme fossero state deposte in tombe singole esclude automaticamente che si trattasse di sconosciuti, servi o persone indigenti, cui nel medioevo erano destinate le fosse comuni.

L’alieno che non ti aspetti

Nell’esaminare i resti, uno in particolare attira l’attenzione degli esperti. Si tratta dello scheletro completo di un uomo che presenta particolarità inusuali, a cominciare dal cranio che palesa tratti somatici marcati, ben diversi da quelli della popolazione anglosassone della Ipswich medievale e più vicini, invece, alle genti del Maghreb o dell'Africa sub-sahariana.
La scoperta scatena una ridda di domande:
- Com’era arrivato e cosa ci faceva un nordafricano tanto lontano dal suo paese d'origine?
- Di cosa era morto e come mai un probabile musulmano aveva ricevuto una sepoltura considerata invidiabile in un cimitero cristiano?

Ipswich Man reconstructionA questo punto scatta un'indagine che mette in campo un arsenale scientifico e tecnico degno di CSI.
La provenienza africana viene confermata dalla composizione chimica delle ossa e dei denti rilevata utilizzando l'analisi degli isotopi stabili.
Ciò che mangiamo abitualmente, infatti, deposita una "firma" riconoscibile sui denti e nello sviluppo delle ossa. Nel caso dello sconosciuto, emerge che la dieta nei suoi primi anni di vita era stata tipica di un ambiente nordafricano dell'epoca: un buon equilibrio di pesce, carne, frutta e verdure.
Ulteriori prove giungono dal DNA, che colloca i natali dello sconosciuto nella fascia nordafricana a ridosso del Mediterraneo orientale. Le informazioni genetiche, inoltre, suggeriscono che l'uomo non avesse la pelle scura, bensì un incarnato simile a quello di molti abitanti del Marocco: più che sufficiente, tuttavia, a spiccare tra i pallidi e al massimo rubizzi anglosassoni.

Lo studio dello scheletro descrive un uomo dalla mascella forte e dalla struttura muscolare ben sviluppata, a testimonianza di un'alimentazione adeguata e di una vita attiva, senza alcun segno di privazioni o di lesioni da stress riscontrabili negli schiavi. Oltretutto, il misterioso nordafricano aveva raggiunto un'età rispettabile, intorno ai 40/45 anni, in un'epoca in cui l'aspettativa di vita in Inghilterra era di soli 33 anni.
Prendendo l'impronta tridimensionale del cranio, viene ricostruito al computer e poi su un modello plastico il volto di quello che ormai viene familiarmente chiamato "l'uomo di Ipswich" (v.di immagine a fianco)

Una morte dolorosa

La datazione al Radiocarbonio fissa la morte in un arco temporale che va dal 1190 al 1300. Esaminando lo scheletro, gli studiosi riscontrano che negli ultimi mesi della sua vita l'uomo ha sofferto di un ascesso spinale: un'infezione batterica che, crescendo, ha compresso i nervi e il midollo spinale provocando dolori continui e lancinanti alla schiena e agli arti inferiori.
Progredendo, la patologia avrebbe prodotto effetti invalidanti, con la perdita del controllo su vescica e sfintere, la paralisi e, infine, la morte per setticemia.

Probabilmente l'infezione era partita in modo banale: un graffio, un'abrasione o persino un pelo incarnito nella parte bassa della schiena. Oggi un simile problema verrebbe risolto con una normale terapia farmacologica, ma nell'Inghilterra medievale non erano disponibili che medicamenti a base di erbe, impiastri e unguenti preparati principalmente dai monaci erboristi.
Ed è qui che entra in scena il convento dei Frati Minori. L'uomo, presumibilmente ricco e rispettato in città, ottiene di farsi curare e accudire in convento, trascorrendo nell'infermeria gli ultimi giorni del suo calvario.

La sepoltura nel cimitero del convento potrebbe essere interpretata come un ultimo segno di riguardo o come contropartita a una generosa donazione, ma lascia aperto un dubbio: è possibile che i Francescani abbiano chiuso un occhio sulla religione dell'uomo qualora fosse stato musulmano? Era forse un convertito? Era un cristiano d'oriente?

L'equipe è riuscita a far parlare le ossa, ma molte risposte sono destinate a restare inevase: chi era quell'uomo? che lavoro svolgeva?
Si può solo ipotizzare che fosse giunto in Inghilterra a seguito della crescita dei commerci con il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia avvenuta in parallelo alle Crociate. Forse era un mediatore, un commerciante o un incaricato d'affari che aveva aperto un fondaco nel porto di Ipswich, allora importante scalo per gli scambi commerciali tra l'Inghilterra, la Francia, le Fiandre e l'area del Baltico. La muscolatura potente non depone a favore di un tranquillo borghese sedentario e indifeso, ma non ci è dato sapere alcunché della sua vita e di suoi eventuali trascorsi avventurosi.
Chissà, magari era il vero Azeem.

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domenica, maggio 17, 2015

 

Metamorfosi



Traduzione e adattamento da Sum del neuroscienziato David Eagleman

Giunti nell’aldilà vi viene generosamente sottoposta l’opportunità di scegliere cosa vorrete essere nella prossima vita. Potreste gradire l’idea di appartenere al sesso opposto, nascere in seno a una famiglia regale, essere filosofi dall’illimitata profondità di pensiero, scienziati brillanti e innovatori, generali che trionfano sui campi di battaglia.

metamorfosi
Ma forse siete tornati nell’aldilà dopo una vita difficile e dura. Forse siete stati portati allo stremo dal peso e dalla complessità delle decisioni, delle responsabilità e dei sacrifici che vi hanno accompagnato in vita e ora c’è un’unica cosa cui aspirate: la semplicità. Questo rientra tra le cose che possono essere concesse.

Così per il prossimo giro scegliete di essere un cavallo. Vi attrae la beatitudine di una vita semplice come quella. Avete sempre immaginato quanto possa essere piacevole essere un cavallo. Pomeriggi immersi nella quiete a nutrirsi in pascoli aperti e rigogliosi, l’eleganza e l’equilibrio imponente della vostra struttura, i muscoli possenti, la pacifica coda che si muove lenta o gli sbuffi di vapore che fuoriescono dalle narici mentre galoppate su pianure imbiancate dalla neve.

Annunciate la vostra decisione.
Vengono pronunciate le parole dell’incantesimo e per il vostro corpo ha inizio la metamorfosi. I muscoli si ingrossano, un tappeto di morbido pelo erompe per coprirvi come la più confortevole delle coperte in inverno.
I mutamenti nella struttura celebrale seguono a distanza serrata quelli anatomici, cosicché l’ispessimento e l’allungamento del collo vi appaiono naturali mentre avvengono. La carotide cresce di diametro, le unghie si fondono diventando zoccoli, le ginocchia si irrobustiscono e le anche si rafforzano. Contemporaneamente, il vostro cranio si allunga assumendo la sua nuova forma e il cervello si rimodella: la corteccia celebrale rimpicciolisce e cresce il cervelletto, i neuroni vengono reindirizzati, le sinapsi scollegate e ricollegate secondo lo schema equino e il vostro sogno di capire come ci si possa sentire a essere un cavallo galoppa verso voi da lontano. Gli affanni che vi hanno amareggiato in passato svaniscono, il cinismo maturato sui comportamenti umani si sgretola e persino il vostro modo di pensare umano inizia a dileguarsi.

Improvvisamente, però, prendete consapevolezza di un problema che non avete considerato: più diventate cavallo, più dimenticate il desiderio originale. State dimenticando come era essere umani che si chiedevano come fosse essere un cavallo. Questo barlume di lucidità non dura a lungo, ma quanto basta per essere la punizione per il vostro prometeico peccato. Ancora per un istante siete mezzi uomini-mezzi cavalli, e ciò rende acremente inutile che ora siate consci che non si può apprezzare la destinazione senza conoscere il punto di partenza, non si può essere felici nella semplicità a meno che non si ricordino quali siano le alternative.

E questa non è neppure la peggiore delle rivelazioni. Con orrore vi rendete conto che la prossima volta che ritornerete nell’aldilà, con il vostro cervello equino non avrete la capacità di chiedere di diventare nuovamente uomo: la scelta di discendere la scala dell’intelligenza o di abbracciare il livello di consapevolezza di un’altra specie, infatti, è irreversibile.
Una frazione di secondo prima di perdere definitivamente le vostre facoltà umane, riflettete dolorosamente su quale magnifica forma di vita extraterrestre, affascinata dall’idea di una vita più semplice, abbia scelto nell’ultimo giro di essere umana.


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domenica, dicembre 01, 2013

 

Avanzi di stagione



La decadenza

Nei giorni scorsi, l'epilogo della procedura di decadenza da senatore della Repubblica nei confronti di Silvio Berlusconi ha fatto parlare alcuni di ritorno del Paese alla normalità. Pur avendo sempre visto il Cavaliere di Arcore come il fumo negli occhi e considerando più che corretta l'applicazione della Legge Severino, non mi sento di sposare interpretazioni tanto ottimistiche.

Immaginate il raccontino che segue, volutamente fuori dal tempo, recitato sul palcoscenico da un attore nei panni di un personaggio popolaresco.

mask of Tecoppa
Conoscevo una donna - gran bella donna anche se non più nel fiore degli anni - che da un giorno all’altro smise di uscire di casa se non per fare la spesa, di fretta, alla bottega più vicina.
Sapete, la poverina si vergognava assai perché aveva un problema: sulla natica destra le era spuntato un gran bubbone che le doleva giorno e notte, impedendole di star seduta, di dormire e rendendole penose persino le funzioni corporali.

Il bubbone diventava più grosso di giorno in giorno, insensibile alle pomate e alle medicazioni che la poverina provava ad applicare. Una volta tentò pure d’inciderlo per farlo sgonfiare, ma appena lo toccò con la punta dell’ago il dolore fu tale da farla stramazzare a terra priva di sensi.

Allora lei cercò di scendere a patti, ma il bubbone - che era d’indole maligna e provava gusto a comandare - prima pretese che la natica non fosse mai più toccata né lavata, poi che la donna restasse stesa sul letto a pancia in giù con le natiche scoperte affinché lui potesse sbrigare certi suoi affari con comodo e alla luce del giorno. Ogni nuova richiesta che le giungeva attraverso certe venuzze del sedere era giustificata ricordandole, a mo' di avvertimento, che dal benessere del bubbone dipendeva quello di lei.
Il maledetto aveva pure figliato una corona fitta di pustole che, rese spavalde dalla vicinanza e dal potere di cotanto padre, davano il tormento all’infelice quando il loro signore riposava o si sollazzava nel pus.

Passarono così vent’anni, finché un giorno la poveretta incespicò tornando dalla bottega e si ruppe malamente una gamba. Il dottore che la visitò venne a sapere della triste storia e, da uomo pratico e di scienza, non ebbe esitazioni: fatta addormentare la donna con l’etere, nettò la natica dalle croste e dallo sporco, disinfettò per bene e con il bisturi asportò la zona infetta, scavando finché la carne viva non apparve totalmente sana.

Trascorsero i lunghi giorni della convalescenza e quando lei fu nuovamente in grado di camminare, poté fare i suoi bisogni senza fastidi, come tutti i cristiani di questo mondo. Passando davanti allo specchio, finalmente sorrise soddisfatta e felice. Era la prima volta che le capitava di sorridere da quando era iniziato il suo tormento. Fu allora che con sgomento si accorse che i denti, trascurati a causa del bubbone, erano diventati guasti e tremolanti.

La morale della storia, amici miei, è che questa è la vera decadenza: una nazione che si è piegata all’immoralità fatta sistema non se ne libera facilmente e a poco prezzo.
Vecchi amici che tornano

Circa 2 settimana fa, proprio nel bel mezzo di un picco di lavoro, la batteria e il caricabatteria del mio Macbook hanno dato forfait. Speravo di tirare avanti almeno fino all’arrivo della tredicesima per acquistare i pezzi di ricambio: è andata diversamente.
Dato che l’IT aziendale aveva libero solo uno sfiatato notebook con Win XP reduce da troppi passaggi di mano, ho rimesso definitivamente in pista l’iMac usato a casa fino al 2009, con 14 anni di servizio sul gobbo ma ancora in ordine di battaglia.

Site Studio MacCome prevedevo, riacclimatarsi ai ritmi compassati e ai limiti del vecchietto è stato un trauma.

Poco male per i video su Youtube in modalità “fermo-immagine” perché si sopravvive anche senza. I problemi più seccanti sono altrove. Ancora oggi finisco invischiato nella melassa (termine di mio conio) perché dimentico che tenere aperte in contemporanea 3 o 4 applicazioni manda in apnea la RAM, che chiama in suo soccorso il disco rigido.
Per non parlare di quando mi tocca aprire il pachidermico OpenOffice 3, che è di una lentezza esasperante sull’iMac, per “passare in lavanderia” i testi prodotti con le vecchie versioni di TextEdit, Mariner Write o Bean. Questi ultimi sarebbero perfetti, leggeri e scattanti come sono, non fosse per un difetto congenito di cui non riesco a venire a capo: quando passo i file ai colleghi, MS Word attiva automaticamente il dizionario INGLESE per il controllo ortografico, il ché vuol dire che sui loro schermi il 90% del testo appare segnato come errato o non riconosciuto.

Pian piano, però, sto riappropriandomi di abitudini dimenticate e richiamo dal passato vecchi compagni di strada. Gli ultimi arrivi in ordine di tempo sono Cog, uno smilzo lettore mp3 che fa le veci del massiccio iTunes, e Site Studio, che nella mia lontana stagione di web-designer amatoriale e creatore di contenuti mi ha dato più di una mano d’aiuto.
Ho messo in funzione la mia piccola macchina del tempo e, finché l’iMac regge, è un passatempo divertente tra un lavoro e l’altro.

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sabato, ottobre 26, 2013

 

Scivolando oltre il bordo


An evening with Ariela

Mrs. Ariela Che hanno a che fare con l’orso (che sarei io) le ombre elusive della possessione dionisiaca, trance liberatoria che riportava fuggevolmente l’uomo a contatto con una condizione di purezza pre-razionale, e quelle austere dei filosofi della arché, la critica irriverente a titani del pensiero strutturato come Kant ed Hegel e le riflessioni sul teatro di una singolare figura di intellettuale, attore, regista e teorico della rappresentazione teatrale?
C’entrano, perché in un uggioso giovedì sera di fine ottobre l’orso in questione ha fatto uno strappo alla routine casa-ufficio-casa per andare ad ascoltare gli argomenti di cui sopra.

Sfidando la contrarietà del fato, palesatasi con un guasto al treno della metropolitana che l’ha scodellato a metà strada in compagnia di centinaia di altri passeggeri imbufaliti, il plantigrado si è recato niente meno che alla presentazione di due libri di e su Alessandro Fersen.
D'altra parte, a spingere l'orso lontano dalla tana era un’occasione non facilmente ripetibile: conoscere di persona Ariela, di passaggio al Franco Parenti di Milano per presentare i due libri di suo padre, di cui una riedizione di un testo filosofico del 1936 e una raccolta di appunti.
Dopo anni di simpatici scambi sui reciproci blog e su Facebook è stato piacevolissimo incontrare questa pimpante signora zeneise trasferitasi da circa mezzo secolo nel kibbutz di Bar Am, nel nord della Galilea a un tiro di schioppo dalla frontiera con il Libano.

Al di là dell’aspetto prettamente social di abbandonare per una volta la dimensione mediata e virtuale del web, l’appuntamento serale con Ariela, la Fondazione Fersen e con un assaggino del mondo di Alessandro Fersen è stato puro food for thought.


Dove stiamo andando?
warning-landslide
Avete presente quei momenti in cui ci si astrae dall'appiattimento sul presente e sul flusso caotico di azioni e reazioni, ritrovandosi ad osservare la propria vita come dall'alto di un balcone?

Beh, in uno di quei (rari) momenti di lucida astrazione mi è venuto spontaneo chiedermi dove cavolo stiamo andando noi italiani, chi realmente sieda al volante al di là del chiacchiericcio inconcludente e delle sagome senza spessore della politica da salotto e se, per caso, la sensazione di fluttuare pericolosamente nel vuoto sia non il frutto di una cattiva digestione, bensì la mal dissimulata realtà di un volo incontrollato verso il fondo del baratro.

A riportarmi bruscamente al piano terra ha provveduto il pensiero molesto, per non dire peggio, di schiattare avendo nelle orecchie la voce e la risatina di Renato Brunetta: ca@@o che incubo.

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sabato, febbraio 25, 2012

 

Letteralmente



foto: Marco Pistis


Mio fratello Roberto ha presentato il suo terzo libro a Lanusei. Mi sarebbe piaciuto esserci, invece mi toccherà aspettare i tempi delle poste italiane per leggere questa sua fatica letteraria di cui non so assolutamente niente a parte il titolo: “Il mio Camminare Insieme”.
Ammiro l’intraprendenza e la determinazione nello scrivere di Roberto, più forti della malasorte che ha messo fuori portata o mandato al macero altri progetti professionali e di vita.

Per quanto mi riguarda, ho declinato gli inviti a cimentarmi con qualcosa di più complesso e corposo dei brevi racconti messi online sul sito personale e sul blog su Splinder: due spazi - guarda caso - finiti entrambi nel buco nero della Rete con la chiusura di Yahoo! Geocities prima, e di Splinder poi.
Onestamente, non è mai scattata in me la scintilla creativa che motiva allo sviluppo di un libro, né ho mai pensato che le mie fantasie stralunate potessero interessare qualcuno oltre il sottoscritto, che da anni ne fruisce liberamente ogni notte al posto del sonnifero. :-)


P.S. Ora che ci faccio caso, dovrei fare pulizia nella blogroll eliminando tutti i link ai blog che si appoggiavano alla defunta piattaforma Splinder: in pratica sarebbe un'ecatombe.
Tutto sommato, però, fa quasi tenerezza vedere comparire le miniature snap, ferme a qualche anno fa. E' un po' come sfogliare vecchie cartoline.

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venerdì, luglio 15, 2011

 

Bel Paese Inc.



Patrizia Asproni
«Sono stanca del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Non ne abbiamo più bisogno.
Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nella competenza del Ministero dello Sviluppo Economico.»
( Patrizia Asproni, Presidente Confcultura Confindustria )


In via di principio non sarei contrario a un passaggio di consegne tra ministeri, visto che è difficile ipotizzare una gestione del patrimonio culturale, artistico e archeologico nazionale più mortificante, deficitaria e autolesionista di quella del MIBAC targato Sandro Bondi*, ora affidata al pragmatico e discreto Giancarlo Galan.

Tuttavia non sono sicuro della visione che sta dietro questa dichiarazione della responsabile confindustriale per la cultura. Non vorrei che l'auspicio fosse esclusivamente quello di trovare un uditorio più sensibile e malleabile con cui intavolare una trattativa che, en passant, preveda un robusto ammorbidimento dei vincoli e dei poteri di vigilanza.
Si sa, una cosa è il mecenatismo e le sponsorizzazioni, un'altra è la prospettiva di ottenere una corsia preferenziale per concludere buoni affari nel santo, salvifico e patriottico nome della "valorizzazione".


* In realtà avrei una candidata sciaguratamente perfetta per polverizzare i record negativi del MIBAC, ma è meglio che tenga per me il suo nominativo: hai visto mai che i peggiori incubi si avverino?!?

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domenica, giugno 26, 2011

 

pillola amara


PostIt



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domenica, giugno 12, 2011

 

pizzini ispiratori



regola di vita

Woody Allen Quote

chiedere scusa




Buona settimana

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venerdì, maggio 27, 2011

 

De minimis



Dalla tribuna della rubrica che cura sul Foglio di Giuliano Ferrara, l'intellettuale "tradizionalista" Camillo Langone si esercita in uno sport che ultimamente va di moda in quella borghesia conservatrice e cattolica che ha in Silvio Berlusconi e nel PDL i propri riferimenti elettivi e affettivi: il tiro al bersaglio sulle gerarchie ecclesiastiche "progressiste" e sulle figure femminili più rappresentative della cultura laica.

Prima Donna A modo suo, Langone è persona coerente e - credo - intellettualmente onesta nell'esercitare quella libertà di pensiero che oggi è facoltà poco apprezzata, coltivata e promossa in primis nella fazione in cui ha scelto di militare.
Tuttavia, neanche Langone riesce a sfuggire all'omologazione a schemi mentali profondamente introiettati nella cultura e nella società italiana allorché scorge il segno dell'abominio nella mancata messa all'indice della scrittrice Michela Murgia e del suo libro "Ave Mary", riflessione eterodossa sulla figura di Maria.

Michela Murgia sa difendersi benissimo da sola e ha già un giudice naturale per la qualità dei suoi libri: i lettori.
Se me ne occupo è perché nella chiamata in causa della scrittrice sarda intravedo il retaggio di una certa misoginia di matrice "paolina" e la spia del desiderio profondo, a stento represso, di castigare le donne che "non sanno stare al loro posto".

Michela Murgia è solo uno dei possibili simboli di un'identità femminile percepita come destabilizzante ed eversiva; di tutte quelle donne considerate irrequiete, irriverenti e arroganti, non abbastanza modeste, accomodanti, materne o decorative.
Il peccato che non si può perdonare a queste donne è il loro essersi sottratte alla tutela patriarcale non chiedendo né patteggiando il permesso di uscire dall'ombra, privando così l'uomo di una delle prerogative più sacre: quella di "concedere" qualcosa come dimostrazione d'amore e/o di benevolenza, ma anche d'implicita superiorità sull'altro sesso.

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lunedì, novembre 22, 2010

 

Meditation Mode



Appunto di viaggio

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Di ritorno dalla trasferta di 3 giorni e mezzo in Sardegna. Non è andata né meglio né peggio di quanto avessi messo in conto.
Le formalità di legge sono state sbrigate a Cagliari in poco più di 10 minuti, così sono rimaste tante ore vuote in cui mi sono sentito fuori posto, uno spettro evocato per sbaglio, una presenza tollerata solo perché doverosa e dichiaratamente di passaggio.
Forse era destino che dovessi arrivare alla mia non più verde età per gustare il lato ironico e paradossale di un'assoluta première: un pizzico d'imbarazzo fuori standard per chi mi conosce da capo a piedi dalla bellezza di 26 anni. D'altra parte non può essere altrimenti quando le geometrie familiari si svirgolano e si diventa - bon gré mal gré - ospiti temporanei, anomali e ingombranti nell'intimità familiare altrui.
Caso mai fossero rimasti dubbi in proposito, il mondo altrove continua uguale a prima e nulla è più come prima.
Meglio così.



Pessimismo cosmico?

Provate a farvi un panino con Dante Alighieri” (Giulio Tremonti)


Nel mio Paese, gli studenti dovrebbero prendere sul serio le immaginifiche metafore di superbi intellettuali come Giulio Tremonti e Renato Brunetta.
Poiché la cultura è notoriamente un companatico che non sazia, i libri di testo - ma anche spartiti, sceneggiature, romanzi, saggi, poesie, elzeviri, quadri, pellicole, CD e DVD multimediali - andrebbero immediatamente conferiti nei termovalorizzatori per contribuire al benessere nazionale e abbattere la bolletta energetica.
Tanto a queste beate latitudini si sprecano il cattivo gusto, la mediocrità esibita con debita fierezza, le sagre della porchetta e i coloriti riti pseudo-celtici: basta sapersi accontentare.

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sabato, ottobre 23, 2010

 

BZ 308: l'aereo che non doveva volare



Una storia sfortunata e poco conosciuta che merita di essere sottratta all'oblio è quella del Breda-Zappata 308: l’aeroplano che non doveva volare.

Questa storia è ambientata nell’Italia devastata e stremata all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, e più precisamente nella grande area industriale al confine tra Sesto San Giovanni e Milano occupata dal complesso industriale e siderurgico della Ernesto Breda.
Di tutte le industrie pesanti italiane, la Breda è tra quelle uscite peggio dalla guerra sia a causa dei danni provocati dai bombardamenti alleati, sia perché l’azienda non può più fare affidamento sulle grandi commesse pubbliche per finanziare la ricostruzione, riconversione e riorganizzazione delle produzioni.

In particolare la Sezione V - quella dedicata all’aeronautica - è ridotta a un cumulo di macerie e rottami di aerei militari mai completati. Mancano le materie prime, impianti e tecnologie sono indietro di almeno 10 anni e non c’è in tutta Italia una fabbrica che sia in grado di produrre motori per aviazione.
Tuttavia, dirigenti e lavoratori della Breda Aeronautica scelgono di giocare la carta più rischiosa per il rilancio: non solo si rimboccano le maniche per ricostruire capannoni e linee di montaggio, ma richiamano a Sesto San Giovanni uno dei migliori progettisti italiani, l’ingegner Filippo Zappata.

A costo di grandi sacrifici viene completato e messo in produzione il progetto, rimasto accantonato durante la guerra, per un grande e moderno quadrimotore interamente metallico capace di trasportare fino a 80 passeggeri sul medio e lungo raggio: il BZ 308.

A fine 1945 il BZ 308 è completo per due terzi, ma iniziano i problemi. La disponibilità all’acquisto espressa dall’aeronautica italiana viene congelata dal blocco imposto dalla Commissione Alleata di Controllo che supervisiona ogni progetto industriale italiano.
La realizzazione del nuovo aeroplano è osteggiata soprattutto da parte americana, che nel BZ 308 vede un temibile concorrente per i modelli prodotti dalle industrie USA.
Da quel momento, l'avanzamento dell’aeromobile subisce ritardi, sabotaggi e difficoltà di ogni genere: i pezzi semilavorati ordinati arrivano in fabbrica a singhiozzo, ma soprattutto occorrono quasi 3 anni perché si sblocchi la fornitura dei motori inglesi Bristol Centaurus.
In aggiunta, anche il clima nelle fabbriche di Sesto San Giovanni è tuttaltro che tranquillo.

Il prototipo del BZ 308 fa il suo primo volo il 27 agosto 1948, ma l’aereo non arriverà mai alla produzione in serie nonostante le ordinazioni pervenute da numerosi Paesi.
I tre anni di ritardo hanno scavato una voragine nelle già asfittiche casse della Sezione Aeronautica, pertanto per la produzione occorrerebbe un investimento da parte dello Stato, ma da Roma arriva solo un assordante silenzio.
Anche se in via non ufficiale, l’Italia sceglie di rinunciare a un progetto industriale valido in cambio della sicurezza di ricevere gli aiuti americani di cui ha estremo bisogno per la ricostruzione.

La Breda Aeronautica viene chiusa nel 1951, mentre l’unico esemplare di BZ 308 è ceduto all’Aeronautica Militare che lo utilizza sulla rotta Roma-Mogadiscio (in quel periodo la Somalia è affidata all’amministrazione fiduciaria italiana su mandato dell'ONU).



Il sipario sull’aereo che non doveva volare cala definitivamente all’aeroporto di Mogadiscio nel 1954. In fase di atterraggio, lo sfortunatissimo BZ 308 va a schiantarsi su un rullo compressore dimenticato in pista.
Amen.

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