sabato, novembre 23, 2024
Ricordi cagliaritani
Una delle cose che meno apprezzo di Facebook è il refresh della timeline mentre sto leggendo un post e, magari, sto valutando se commentare. Salvo che non conosca o abbia memorizzato l’account, quel post scompare e buonanotte al secchio.
È successo anche per un post dedicato a una delle vestigia più inosservate - o meno valorizzate - della Cagliari medievale: la Torre dello Sperone, nota anche come Torre degli Alberti, di San Michele o di Portuscalas, nel quartiere storico di Stampace.
Eppure si tratta della più antica tra le quattro torri superstiti delle mura erette alla Repubblica di Pisa nei 109 anni (1215-1324) di sua presenza e domino su Cagliari; anni decisivi nel modellare l’impianto della città moderna.
Per questo motivo mi è saltato il ghiribizzo di scrivere un "appunto cagliaritano".
Un passo a ritroso nel tempo
La Karales romana e bizantina, composta da più agglomerati urbani in riva al mare e nell’immediato entroterra, si spopola a partire di primi del VIII secolo d.C.. La città, infatti, discontinua e sprovvista di mura è un bersaglio inerme per le incursioni delle flotte che partono dal Nord Africa islamizzato per razziare e catturare schiavi.
L’Impero Romano d’Oriente, di cui la Sardegna è formalmente provincia, non è in grado di prestare soccorsi, troppo impegnato com’è a difendere quel che resta dei suoi domini in Italia e a lottare per la sua stessa sopravvivenza, con Costantinopoli per due volte stretta d’assedio dagli Arabi. Inutile aspettarsi aiuto anche da Longobardi e Franchi, non attrezzati per affrontare una guerra navale.
Così gran parte della popolazione di Karales e le massime autorità cittadine si trasferiscono in cerca di riparo sulle sponde della vasta laguna di Santa Gilla. Quell’insediamento è la culla da cui emerge un abbozzo di regno autoctono, con l’arconte bizantino che si trasforma prendendo il titolo di Giudice e assumendo le prerogative di un sovrano, sia pure con una carica in parte elettiva.
Sant’Igia è la capitale e la residenza elettiva del Giudice di Cagliari, della cancelleria e dell’arcivescovo, sebbene fino alla seconda metà del XI secolo la corte giudicale rimanga itinerante per non dare riferimenti alle scorrerie saracene.
Le ingerenze pisane e la fine del giudicato
Riconnessi alla sfera culturale ed economica dell’Italia e dell’Europa alto medievale dopo l’intervento congiunto di Pisa e Genova, alleate per sventare la minaccia rappresentata dalle basi stabilite in Sardegna dall’emiro maiorchino Mujāhid ibn ʿAbd Allāh (italianizzato in Mugetto o Museto), i quattro giudicati sardi sono troppo fragili per non dipendere dalla protezione non disinteressata delle repubbliche di Pisa e Genova e del papato, destinandosi a fare la fine delle pedine sacrificabili nei giochi di potere dell’epoca.
In particolare Pisa, in competizione con Genova per la supremazia nel Mediterraneo occidentale, non tarda a prendere di fatto il controllo sui commerci e sulla politica dei giudicati sfruttandone le rivalità e le successioni dinastiche complicate dagli intrecci di parentela tra le quattro casate regnanti.
Si arriva al 1215, anno in cui il nobile pisano Lamberto Visconti, giudice consorte di Gallura, attacca il Giudicato di Cagliari, prende in ostaggio la giudicessa Benedetta e il marito ed estorce loro la concessione del colle disabitato che era stato l’acropoli di Karales per edificarvi una cittadella fortificata, Castel di Castro, ad uso esclusivo dei Pisani: viene così posta la prima pietra del quartiere Castello e della Cagliari moderna.
Troppo tardi gli ultimi due giudici di Cagliari tentano di sottrarsi alle ingerenze pisane stipulando accordi con Genova e cacciando i pisani dalla rocca cagliaritana. La reazione di Pisa è un’armata di terra e navale rafforzata da truppe degli altri tre giudicati. Sant’Igia viene cinta d’assedio nel 1257. La squadra navale inviata da Genova tarda ad arrivare e la capitale giudicale capitola nel luglio 1258, venendo rasa al suolo dai vincitori.
La Torre dello Sperone
Come recita l’epigrafe murata, la costruzione della Torre dello Sperone viene ultimata nel mese di marzo del 1293 durante il mandato di un esponente della casata degli Alberti, Conti di Prato, come capitano del popolo di Castel di Castro.
La Cagliari pisana sta vivendo una fase di relativa tranquillità ed espansione malgrado nel 1287 la potenza marittima di Pisa abbia subito un durissimo colpo con la sconftta nelle acque della Meloria. Ai piedi della rocca, destinata a sede delle istituzioni e alle residenze dei patrizi pisani, stanno crescendo i tre quartieri di Stampace, Marina (Lapola) e Villanova che ospitano rispettivamente attività artigianali e commerciali, i magazzini e le dimore dei lavoratori portuali e i contadini.
Le autorità pisane decidono di munire i sobborghi di mura, torri e bastioni a protezione sia dalle incursioni saracene sia, soprattutto, da possibili colpi di mano dei genovesi.
Il sistema di fortificazioni creato dai pisani sarà rivisto, rafforzato e ampliato dagli spagnoli nel XVI secolo su progetto dell’architetto castrense Rocco Cappellino. La Torre dello Sperone, tuttavia, è tra le opere che si salvano, divenendo una delle porte che collegano “Stampace alto” e “Stampace basso”, ossia l’estensione extra muros del quartiere che digrada verso il mare.
La torre si salva anche dalla demolizione delle mura di Stampace, Marina e Villanova decisa ai primi dell’Ottocento, allorché Cagliari perde la qualifica di piazzaforte militare ed è libera di ridisegnare il proprio assetto urbanistico.
Negli anni trascorsi a Cagliari sono passato infinte volte a fianco della torre, finendo per non fare più caso alla sua presenza, ingabbiata com'è tra altri palazzi, l'ospedale militare e quel goiellino che è la chiesa barocca di San Michele. Mi sono chiesto più volte se il segreto della sua longevità non stia proprio nel non rubare l'occhio, nell'arte sottile di mimetizzarsi nel paesaggio.
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domenica, aprile 22, 2018
Missing a bro'
È difficile scrivere di persone che conosci, ancora di più se si tratta di persone cui hai voluto un gran bene e non sono più di questo mondo. Eppure ho bisogno di scriverne per far scivolare la pena, l’oscuro senso di rimorso e per elaborare il senso di perdita.
Ho perso il migliore amico di una vita.
Potrei dire che l’ho perso diversi anni fa perdendolo di vista, come succede non solo per via della lontananza ma anche per quella sorta di pudore che porta a rispettare gli spazi e la riservatezza altrui. Non lo si sarebbe detto, con quella corporatura massiccia, l’espressione severa e la battuta arguta sempre in canna, ma Pierluigi era una persona sensibile, orgogliosa e riservata.
Ricordo ancora la prima volta che lo incrociai per strada. Era una calda mattinata d’inizio settembre, il giorno seguente sarebbe iniziata ufficialmente l’avventura del Ginnasio ed ero di ritorno in paese da una passeggiata verso il Bivio Carmine.
In direzione opposta vidi salire due coetanei mai visti prima che parlottavano tra loro: uno mingherlino con la faccia scaltra e l’altro che sembrava un assiduo frequentatore di palestre.
La prima impressione non fu molto positiva. Quei due potevano essere degli attaccabrighe - pensai - con il piccolo nei panni della mente e quello grosso in quelli del forzuto dall'intelligenza limitata. Finì che ci ritrovammo nella stessa classe e che Pierluigi si dimostrò un ragazzo calmo, educato, con un gran senso dell'ironia e dell'autoironia e con interessi non proprio comuni per i quattordicenni dell'epoca come il body building, i rapaci e le specie in via di estinzione.
Il passaggio da meri compagni di classe, superficialmente in buoni rapporti, ad amici avvenne al liceo e nell’anno della maturità.
All’interno della classe, un gruppetto aveva iniziato a passare insieme il tempo anche fuori dell’orario scolastico per studiare, ma non solo. Ci univa la sensazione di essere alle porte della nostra vita di adulti; ci spalleggiavamo, ci scambiavamo sogni, speranze e timori un po’ come nella canzone di Venditti “Notte prima degli esami”.
Pierluigi si mise con Annamaria, una compagna di classe che viveva in un appartamentino in affitto in paese e che sarebbe stata la sua compagna di vita da allora in poi.
All’università, Pierluigi e Annamaria si iscrissero alla facoltà di medicina e chirurgia e io a quella di giurisprudenza. Sembravamo destinati a perderci di vista: giri diversi, impegni diversi, la loro intimità di coppia che imponeva rispetto e discrezione.
Invece fu proprio allora che la generosità e la disponibilità di Pierluigi vennero fuori e l’amicizia tra noi divenne un punto fermo.
Specialmente dopo che mi staccai da Comunione e Liberazione e intorno a me crollò la rete sociale su cui avevo fatto affidamento, andare a trovare di tanto in tanto Pierluigi e Annamaria nel dopocena divenne un rito estremamente piacevole e rasserenante. Poteva capitare che mi trattenessi a parlare con Pierluigi sino a notte fonda perché lui sapeva come prendermi, o forse sarebbe più corretto dire sopportarmi. Tra noi c’era estrema facilità di discorso, complicità, scambio arricchente di esperienze, interessi, curiosità e cortesie.
C’era un unico argomento implicitamente tabù: gli esami universitari. Sapevo che sia Pierluigi sia Annamaria si erano impantanati ai primi esami e che questo pesava loro molto anche per le scontate ripercussioni nei rapporti con le rispettive famiglie.
Con il senno di poi, posso solo immaginare che quell’esperienza fallimentare sia stata un tarlo che ha scavato in profondità nell’autostima di Pierluigi. Aver “sprecato” quell’opportunità di studio non solo l’aveva costretto a rivedere al ribasso le sue ambizioni, ma era anche il peso umiliante di dover ancora dipendere economicamente dai suoi e di essersi dimostrato non all’altezza della fiducia riposta in lui.
Si dava da fare in ogni modo; era sempre disponibile a dare una mano nei lavori in campagna dai suoi e dai genitori di Annamaria, ma tutto questo, evidentemente, era solo un ripiego temporaneo e insoddisfacente.
Continuammo a frequentarci anche dopo la mia laurea. Quando poi, trasferitomi a Milano, decisi di sposarmi fu per me del tutto naturale scegliere Pierluigi come “best man”.
Gradualmente, però, i nostri rapporti divennero sempre più rarefatti e saltuari, le reticenze sul suo presente più ampie. Di internet e dei social neanche a parlarne. Tuttavia quando ci si trovava, in Sardegna, era come se non ci fossimo mai persi di vista e, dentro di me, lui continuava a essere una presenza certa.
E si arriva al presente, inaspettato e doloroso.
Un messaggio da parte di mio fratello m’informa di aver avuto la conferma di una voce giunta casualmente da una fonte poco attendibile: Pierluigi era morto a metà marzo.
Incredulità, sconcerto, dolore lancinante. Com’era stato possibile che una cosa così enorme fosse passata sotto silenzio? Perché? Cos'era successo?
La ragione è venuta a galla con pudore: Pierluigi si è suicidato, a quanto pare al culmine di un periodo depressivo, e ora riposa nel cimitero del suo paese. La famiglia ha gestito il lutto nel massimo riserbo.
Avrei potuto fare qualcosa per evitare questo epilogo? Avrei potuto essergli vicino invece di limitarmi a pensare come sarebbe stato bello incontrarlo nuovamente e parlare come ai vecchi tempi?
E Annamaria? Prima o poi riuscirò a parlare con lei, anche se onestamente non so cosa mai potrò dirle che non sia dannatamente inutile.
Pierluigi era una bella persona, quasi un fratello per me, e il mondo mi sembra più vuoto e solitario senza la nostra amicizia.
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venerdì, dicembre 08, 2017
Constant
25 anni fa usciva negli USA il singolo Constant Craving, una ballata avvolgente ai confini tra il genere country e il soft rock dominata da una voce femminile, quella di K.D. Lang, di cui si percepiva la spiccata personalità.
Per certi versi, il clamoroso successo dell’album che conteneva la hit (6 dischi certificati platino solo nei mercati USA/Canada) e l’aspetto prettamente musicale hanno avuto un impatto minore rispetto al “personaggio" K.D. Lang.
Il taglio di capelli, l’inclinazione per i blazer e il vestiario di taglio maschile portati con eleganza e il suo tranquillo coming out come lesbica fecero della cantante l’icona di stile “differente” che ancora mancava nello showbiz.
Non ha avuto la carriera lunga e sfolgorante che ci si poteva aspettare da una voce come la sua, ed è un peccato.
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sabato, novembre 25, 2017
Castway
Nostalgia, nostalgia canaglia. Da qualche giorno sono entrato per curiosità in un gruppo chiuso di Facebook dal titolo che non lascia adito a fraintendimenti: “Naufraghi di Splinder”.
Mi sono sentito un po’ un impostore tra di loro visto che sulla piattaforma Splinder, chiusa ai primi del 2012, ho pubblicato poco o nulla né si può dire che abbia lasciato il segno, mentre chi commenta ha vissuto intensamente quella stagione irripetibile di creatività e socialità malgrado Splinder.
Già, la sorte spettata a quel servizio resta uno degli esempi più eclatanti in Italia di come l’acquisto multimilionario da parte di un gruppo grosso, ma con il core business altrove e un management non all'altezza, possa essere il bacio della morte per i fiori di serra del web.
Tornando al gruppo, l’atmosfera non poteva che essere quella dei raduni di ex liceali e compagni di classe, dove ci si ritrova vent'anni dopo con l’imbarazzo di farsi riconoscere o di frugare nella memoria in cerca della scintilla di un ricordo in comune.
Il tutto, però, gestito senza affanno, con garbo, affettuosa sollecitudine e spigliatezza. L’onda della nostalgia dei bei tempi andati e il piacere di ritrovarsi non fanno perdere la consapevolezza che la vita è andata avanti, altrove o di traverso in certi casi.
Molti dopo Splinder hanno aperto un blog altrove, ma “non è stata più la stessa cosa”; diversi hanno smesso di scrivere. Un po’ tutti si sono sentiti dispersi, tagliati fuori, periferici rispetto a un flusso che ormai passa altrove, frammenti in caduta libera di una galassia perduta… naufraghi di Splinder, appunto.
Un ultimo appunto: sono abbastanza vecchio da avere una collezione di ricordi nostalgici di altre e più lontane stagioni nelle quali mi sono sentito parte di qualcosa di più grande e di importante: i baracchini CB, le radio libere, i newsgroup, i forum e la chat tra utenti Mac quando la Mela morsicata non era ancora l’acclamata griffe di dispositivi hi-tech di lusso. Oggi guardo i fenomeni social con occhio disincantato e il freno a mano tirato e non è che mi senta privilegiato. C’è qualcosa di peggio dell’innamorarsi di un'idea ed è il non innamorarsi più.
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domenica, novembre 05, 2017
Maniac
Ebbene sì, lo ammetto a fatica, ma anch’io ho assunto comportamenti turpi e inappropriati nei confronti del gentil sesso.
I fatti risalgono a molti anni fa, però ritengo giusto assumermi la responsabilità dell’accaduto.
Tornato dalla mia solita visita al parchetto malfamato e malfrequentato dove, secondo voci di corridoio, andavo a molestare le vecchiette con la scusa di cercare l’ispirazione, mi fermai alla reception per scambiare quattro chiacchiere con la segretaria.
Lei mi dava le spalle, china sulla fotocopiatrice e io, che quel giorno indossavo un trench alla tenente Colombo, proprio non seppi resistere all'insana tentazione... infilate le mani nelle tasche, improvvisai il classico gesto del maniaco sessuale.La poverina colse il movimento con la coda dell’occhio. Non sussultò: fece una vera e propria giravolta acrobatica e, fissandomi con gli occhi sbarrati, esclamò: “Oh santalamadonna!!”.
Dopo qualche secondo tolse le mani dalla bocca e, profferita qualche esclamazione non esattamente da educande, si sciolse in un irrefrenabile moto di ilarità neanche mi fossi mostrato ignudo sotto l’impermeabile :-(
In effetti l’avevo messa sotto shock perché tutto si sarebbe aspettata da me tranne una burla sopra le righe.
Ho grande rispetto per le donne e, malgrado il tempo trascorso da allora, mi affligge il pensiero che qualcosa che ho fatto possa aver offeso e traumatizzato quella persona. Mi rincresce; non riflette ciò che sono.
Mi scuso perciò con l’ex collega per le conseguenze che possono averla tormentata in tutti questi anni a causa del mio comportamento del tutto incongruo.
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martedì, giugno 20, 2017
Tiresiatyricon
Sulla figura di Tiresia, l’indovino per eccellenza nel mondo antico, sono fioriti diversi miti sin dai tempi di Omero.
Figlio di Evereo e della ninfa Cariclo, Tiresia viene tratteggiato come un cittadino tebano senza doti sovrannaturali e dalla vita ordinaria sino al giorno in cui, accidentalmente, viene a contatto con il mistero della metamorfosi.
Andato a passeggio sulle pendici del monte Citerone, Tiresia s’imbatte in una coppia di serpi attorcigliate nell’amplesso nel mezzo del sentiero.
Forse infastidito dalla mancanza di pudore, Tiresia separa i due rettili con un bastone finendo per colpire duramente la femmina. Mal gliene incoglie, perché si ritrova immediatamente trasformato in donna.
In questo frangente Tiresia dimostra non comuni doti di adattabilità, abbracciando senza drammi la sua nuova identità di genere di cui sperimenta tutte le sfaccettature fisiche, emotive, sociali e sessuali.
Trascorsi sette anni, Tiresia si ritrova nuovamente davanti una coppia di serpenti in amore. Ammaestrata dal ricordo di quanto avvenuto, Tiresia questa volta si premura di colpire il maschio. Ça va sans dire, Tiresia torna a essere un uomo.
La faccenda, sia pure straordinaria, sarebbe finita nel dimenticatoio se Zeus, reso disinibito da troppe libagioni, non si fosse impelagato in un’accanita discussione con sua moglie Hera.
Motivo del contendere era chi, tra uomini e donne, ricavasse maggior piacere dall’atto sessuale. Il padre degli dei sosteneva fosse la donna, mentre Hera era irremovibile nell’indicare l'uomo.
Non arrivando a un compromesso ai coniugi divini sovviene quanto accaduto a Tiresia, così lo convocano sull’Olimpo per fare da giudice alla disputa. Messo alle strette, Tiresia dichiara - con più onestà che tatto - che la donna può arrivare a provare un piacere tre volte superiore a quello dell'uomo.
Non tollerando di essere contraddetta e sentendosi smascherata, l’infuriata Hera si vendica privando Tiresia della vista.
Zeus, che non può annullare il gesto di sua moglie, per risarcire il malcapitato gli dona il potere della chiaroveggenza e una vita lunga sette volte la media dei mortali.
Tiresia morirà ultracentenario lontano da Tebe: secondo alcuni di congestione, essendosi abbeverato all’acqua gelida di una fonte mentre era in fuga dalla città messa al sacco. Secondo altri muore di sfinimento durante il viaggio di trasferimento a Delo in compagnia di sua figlia, anch’essa indovina.
Arrivato negli inferi Tiresia convince Ade, Signore dell’Oltretomba, a lasciargli il dono della preveggenza. Per questo nell’Odissea Ulisse consulta l’ombra di Tiresia per sapere se, quando e in che modo potrà fare ritorno a Itaca.
Dal mito alla farsa
La metamorfosi da uomo in donna e viceversa, la curiosità e l’esplorazione delle potenzialità insite nelle differenze non solo fisiche tra i sessi troveranno nelle Metamorfosi di Ovidio una sistemazione poetica elegante, ma in epoca romana non mancheranno di stuzzicare la produzione di parafrasi e parodie scurrili del mito.
In una di queste Tiresia, cittadino e marito integerrimo, subisce le ire del dio Apollo, che ha allacciato una tresca con l’avvenente e giovane moglie.
Ferito nell’onore, Tiresia dà in escandescenze il giorno in cui, tornato a casa, scopre i due amanti in flagrante. Nell’accesso d’ira Tiresia arriva a rovesciare sul talamo il contenuto di un braciere provocando ustioni alla virilità del dio, al momento in forma d’uomo. Sofferente e infuriato per tanta mancanza di reverenza, Apollo si vendica trasformando all’istante Tiresia in donna, pensando così di prendere due piccioni con una fava: sbarazzarsi di un infimo rivale e umiliarlo a morte.
Qualche tempo dopo, il dio si ricorda della sua vittima e si reca in incognito a Tebe, pronto a godersi lo spettacolo di un Tiresia caduto in disgrazia e oggetto di scherno.
Resta, perciò, sbigottito trovando l’ex cittadino modello intento a concedersi con evidente soddisfazione prima a un nerboruto carrettiere, poi a un alto magistrato della città.
Costretto a fare la fila confuso in mezzo a un campionario di tebani allupati, finalmente Apollo riesce ad appartarsi e a scambiare quattro chiacchiere con Tiresia. Si arrende così all'evidenza che il mortale non ha alcun rimpianto per ciò che ha perduto, anzi benedice la sventura che le ha fatto scoprire quanto limitate fossero le sue esperienze di uomo rispetto al piacere che il corpo e la mente di una donna possono provare. Malgrado sia un dio, però, Apollo è in imbarazzo: non riesce a simulare un appetito erotico per Tiresia benché quest’ultima s’industri allo scopo. Delusa, Tiresia si lascia sfuggire: “Tra tutti i figli d'uomo belli e brutti, giovani o canuti solo tu, o straniero, ti sei mostrato incerto, incapace di ardere come uno stoppino bagnato e di farmi sentire desiderata, simile a una dea!”
Indispettito, Apollo abbandona il travestimento. Indifferente alle lacrime e alle suppliche, ritrasforma un'affranta Tiresia in uomo, per di più cieco a causa dell'esposizione all'insopportabile fulgore divino.
Tuttavia, punto dal rimorso di essersi comportato in modo meschino e timoroso del giudizio degli altri dei, in extremis Apollo concede a Tiresia il dono della preveggenza.
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sabato, aprile 29, 2017
Il lato non affilato della memoria
Ieri notte ho avuto notizie di una persona persa di vista quasi 40 anni fa: una bella persona conosciuta per poco tempo, ma di cui serbavo un bel ricordo.
Mi ero sempre ripromesso di informarmi ma, data la lontananza, il lunghissimo silenzio e la complicazione di non essere compaesani, non sapevo come farlo con la dovuta discrezione, senza infastidire o generare inutili incomprensioni.
Per me la fregatura sta nel fatto che, nella memoria, le amicizie con cui non ho più contatti restano esattamente come le ho lasciate: gli anni, le rughe e i capelli grigi, i matrimoni riusciti o deragliati, i figli e i problemi di salute sono tutte esperienze con cui non devono fare i conti, anche se sono perfettamente consapevole che si tratta di un artificio, una costruzione mentale, qualcosa di totalmente irreale.
Tornando a bomba, per farla breve ho saputo che questa persona così solare, simpatica e alla mano è morta circa 8 anni fa.
Il diabete, che già condizionava la sua vita quando la conobbi, se l'è portata via scavandola lentamente e silenziosamente, goccia a goccia, saccheggiando i suoi talenti un pezzo per volta.
Non so come spiegare cosa ho provato venendo a sapere che era morta da tempo: è stato come riaffacciarsi in una stanza della casa in cui si è cresciuti e trovarla vuota, in rovina, polverosa e silenziosa.
Non me la sono sentita di chiedere maggiori ragguagli sulla sua vita: sarebbe stato fuori luogo mettere in imbarazzo il mio interlocutore con domande indiscrete e personali, in ogni caso irrilevanti. Preferisco tenermi il calore del ricordo di un'amicizia adolescenziale e immaginare che la persona che conobbi abbia avuto la vita piena, negli affetti, nel lavoro e nel sociale, che meritava.
La memoria è un'arma a doppio taglio, ma qualche volta si ha la possibilità di scegliere la parte non affilata.
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giovedì, dicembre 01, 2016
Apotropaico
Un’immagine come questa ha risvegliato il ricordo, lontano nel tempo, di un ciondolino scoperto da bambino in una vecchia scatola di latta tra ditali, spille, bottoni e monetine fuori corso. Era una minuscola mano serrata a pugno appartenuta - venni a sapere - alla primissima infanzia di mio padre.
Ingenuamente, non capivo cosa fosse quella lieve protuberanza tra l'indice e il medio che sembrava un’imperfezione, una sbavatura. Ero ben lontano dall'immaginare che quell'oggetto fosse una mano fi*a, un amuleto oggi desueto che veniva indossato legato al polso a difesa da s’ogru malu: il malocchio.
Oggi fare la fi*a è solo un gesto volgare o, in altre parti del mondo, un modo spiccio per esprimere il rifiuto di fare qualcosa.
Nulla che spartire con il significato apotropaico del ninnolo, vestigia di remoti rituali contro l’invidia malevola intesi a mettere i bambini e la fertilità, sia femminile che maschile, sotto la magica protezione della vulva di una divinità (Iside, Astarte, Venere, Giunone).
Superstizione, senza dubbio, tuttavia provo rispetto per i sentimenti materni di mia nonna o di chi fece quel dono tanto particolare, conservato con discrezione nel ripiano più alto della credenza di cucina, mezzo secolo fa.
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giovedì, luglio 02, 2015
Condizionamenti
Flegetonte sta picchiando duro: traspirazione a 1000 malgrado il ventilatore acceso non-stop e, ovviamente, grande consumo d'acqua per reidratarsi.
Ed è proprio il ricorso più frequente al rubinetto che mi ha fatto pensare a quanto siano profondi e duraturi i condizionamenti acquisiti: nello specifico, quello del razionamento idrico.
Ancora oggi, dopo oltre 20 anni di permanenza in Lombardia, quando apro il rubinetto del lavello o del lavandino una parte di me teme che il getto si riduca rapidamente a un gocciolio e che dalle tubature arrivi il risucchio gorgogliante delle bolle d'aria.
È stato decisamente più facile liberarsi dell'abitudine di acquistare i fardelli di acqua minerale al supermercato che togliersi l'incubo dell'acqua di rete erogata solo poche ore al giorno.
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giovedì, febbraio 26, 2015
Random bombing
Mercoledì 17 febbraio 1943 due stormi di bombardieri medi statunitensi B-25 “Mitchell” decollati dall’Algeria fecero rotta verso l’aeroporto militare di Villacidro, dove erano di stanza caccia e bombardieri italiani e tedeschi, per “neutralizzarlo”.
I bombardieri al 17º Bomb Wing arrivarono sul bersaglio, ma rinunciarono a sganciare a causa delle pessime condizioni di visibilità.
I bombardieri del 310º Bomb Group, invece, mancarono l’obiettivo finendo per errore una dozzina di km a nord, nella zona collinare su cui sorge il paese di Gonnosfanadiga.
Forse mal interpretando le coordinate e la loro posizione, lo stormo attaccò il paese indifeso sganciando il carico di bombe a frammentazione ed effettuando mitragliamenti a bassa quota.
L’incursione avvenne nel primo pomeriggio (intorno alle 15.00) cogliendo totalmente alla sprovvista la popolazione di Gonnosfanadiga.
Le bombe caddero nel centro nel paese e nelle strade principali. L’effetto delle schegge metalliche liberate dagli ordigni fu devastante: 83 persone morirono e altre 98, in gran parte donne e bambini, subirono ferite e mutilazioni.
Trattandosi di un paesone agricolo, privo di qualsivoglia installazione di interesse bellico o strategico, l’errore di valutazione di chi comandava lo stormo fu marchiano e difficilmente scusabile.
Questa pagina ingloriosa è stata rimossa dalla memoria dei comandi Alleati e dalla storia del 310º Bomb Group, più volte decorato per le azioni portate a termine con successo in Nord Africa e in Italia durante la WWII.
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Wednesday, February 17th, 1943 two formations of USAF B-25 "Mitchell" medium bombers took off from Algeria flying en route to the military airport of Villacidro (Southern Sardinia) to "neutralize it”.
The bombers of the 17th Bomb Wing arrived on target, but gave up to drop bombs due to poor visibility conditions.
The bombers of 310th Bomb Group, instead, missed the target ending by error about a dozen miles north, on the hills on which stands the town of Gonnosfanadiga.
Perhaps misinterpreting the coordinates and their position, the group attacked the defenseless town dropping the load of cluster bombs and carrying out strafing.
The raid took place in the early afternoon (around 3:00 PM) seizing totally off guard the population of Gonnosfanadiga.
The bombs fell downtown and in some of the broader streets. The effect of metal splinters was devastating: 83 people died and 98 others, mostly women and children, were badly injured.
Gonnosfanadiga was - and still is - a rural town, without any installation of military or strategic interest, then the error of assessment of who commanded the bomb group was ignominious and hardly excusable.
This inglorious page has been removed without any excuse by the Allies and from the history of 310th Bomb Group, repeatedly decorated for many successfully completed actions in North Africa and Italy during WWII
sabato, febbraio 08, 2014
Radici
Che perda cravada intr ‘e su coru
s'ammentu ‘e tie est dolu ki non sanat
Del posto in cui si nasce non si riesce quasi mai a dire qualcosa di nuovo, di sapido e di profondo che vada oltre la banalità del risaputo o della parafrasi di qualche fonte abusata.
Nel mio caso, poi, si aggiunge l’amarognola consapevolezza di una membrana di estraneità mai venuta meno, come se io e il mio paese di origine - Lanusei - ci fossimo studiati per anni mantenendo le distanze.
A un’analisi razionale, persino la mozione degli affetti e l’orgoglio nel proclamarmi, in ordine decrescente di importanza “Lanuseino, Ogliastrino, Sardo, Italiano, cittadino del mondo” si rivelano per ciò che sono: il bisogno di ancorare a una narrazione più grande la definizione del sé e la volontà ostinata di appartenere a una storia che non m'appartiene più.
Lanusei è l’ambivalenza della memoria che ricama sui ricordi piacevoli, alterandoli affinché siano più dolci e struggenti, mentre sigilla quelli scomodi nella luna nera dell’inconscio con il loro carico di schegge taglienti d'incomunicabilità, disprezzo, derisione, senso di alienazione e lutto.
Lanusei è una ferita che non rimargina. Lanusei è una spina nel fianco che non smette di dolere; è il battito del cuore che viene a mancare ogni volta che penso alla resa al fatalismo della mia famiglia d’origine e a quel poco che resta del mio passato già destinato all’oblio.
Quando sono partito per andare a lavorare non pensavo che sarei rimasto lontano tanto a lungo. Senza alcuna vergogna ammetto, però, che mi sentivo sollevato dall’angoscia di non trovare spazio per realizzarmi e dare un senso a quell’accozzaglia di interessi enciclopedici che, messi insieme, non facevano una professione spendibile in paese.
A Milano mi lega unicamente il lavoro, anche se troverei difficile rinunciare ai suoi ritmi, alle sue risorse e a certe sue comodità. Non si tratta d'ingratitudine: nemmeno quando ho messo su famiglia ho smesso del tutto di sognare un ritorno a casa che non fosse forzato, a capo chino o con i piedi in avanti.
Forse c’è un po’ di spirito di rivalsa in questo sogno tenuto nel cassetto, ma preferisco pensare che sia voglia di serenità, di ritrovare quella parte di me rimasta ad ammirare il panorama in cima a pissicuccu.
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domenica, settembre 01, 2013
Incipit
Nel 1973 gli Area registrarono un LP dal titolo fortemente provocatorio: Arbeit Macht Frei (il lavoro rende liberi), riprendendo la macabra iscrizione che campeggia ancora oggi sopra il cancello principale del lager di Auschwitz.
Non meno deliberatamente provocatoria era una delle tracce, "Luglio, Agosto, Settembre (Nero)", politicamente schierata a favore della causa palestinese e incisa a distanza di appena un anno dalla Strage di Monaco, nella quale un commando del gruppo palestinese denominato Settembre Nero aveva rapito e ucciso 11 atleti israeliani che partecipavano alle Olimpiadi organizzate a Monaco di Baviera.
Nel contesto politico e musicale di allora nessuno, credo, si prese la briga di tradurre l'incipit della canzone, declamato in arabo da una voce femminile, presumendo che fosse una ricercatezza stilistica della band o, comunque, un semplice accessorio rispetto al testo "militante" in italiano. Per caso ho trovato la traduzione, scoprendo così che si tratta di un'accorata esortazione alla pace recitata da una donna che si autodefinisce "masriyya", id est "una egiziana".
Non so fino a che punto questa incongruenza tra arabo e italiano sia stata una licenza artistica o, piuttosto, il frutto scontato della schematizzazione ideologica del conflitto israelo/palestinese, con i palestinesi nella parte del popolo oppresso che vorrebbe vivere in pace, ma è costretto a prendere le armi per non essere schiacciato dall'oppressore; in altre parole, un antecedente storico del "Restiamo umani" caro a Vik Arrigoni.
In ogni caso, resta la valenza poetica e la drammatica attualità dell'incipit nei giorni che sembrano precedere l'intervento militare statunitense nella guerra civile siriana. Resta aperta, oggi come allora, l'ambiguità di fondo nell'uso della parola pace.
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mercoledì, giugno 19, 2013
La musica che non gira intorno
Frullato di musica italiana
Ho ascoltato le esibizioni live di due band italiane e, ancora una volta, sono stato colto dalla sconfortante idea di essere diventato vecchio dentro, un “matusa” come si diceva un tempo.
C’è però qualcosa che non quadra nello sfacelo dei miei neuroni sensibili alla musica: mancano i sintomi della classica sindrome passatista, quella che induce a stabilire inderogabilmente la morte della musica al termine di una decade ormai lontana e che, in nome di tale verità inconfutabile, dispone l’animo del malcapitato allo sdoganamento ecumenico di tutto ciò che è stato prodotto entro la fatale scadenza, fossero anche le porcate più immonde.
No, sia pure confusamente io resto possibilista, aperto all’ascolto, desideroso di emozionarmi ancora, senza pregiudizi, nazionalismi o esterofilia. Ho i miei limiti di genere, ovviamente, perché ci sono sonorità come quelle di tal Scrillex, feticcio della mia ondivaga figlia adolescente, che mi risultano congeniali come la nevralgia del trigemino.
Per farla breve, la prima band era in odore di contratto per andare suonare in Giappone e negli USA per meriti ignoti, visto che il repertorio era un rock vagamente orecchiabile, suonato i modo passabile ma anche sciapo e per nulla originale.
La chicca era la vocalist: un corpo estraneo, fuori tempo e fuori tono, di quelle cantanti che sospetti siano state messe al microfono perché non c’era di meglio, perché è lei la ragazza del leader o perché ha portato in dote il garage o la cantina dove si fanno le prove.
La seconda band - e già definirla tale è un complimentone - si è esibita in una riuscita imitazione dei cori “da gita scolastica del liceo”, sia pure con contorno di basi elettroniche e tastiere.
Siccome di band emergenti, magari non scalcinate come quelle descritte, ne ho ascoltate parecchie e l’alternativa sono le ugole seriali plastificate-talentate-amicate-sanremate, sapete che vi dico? Che è ufficiale, sono un matusa e ora, senza alcuna vergogna, mi sparo in cuffia Get Lucky.
RIP
Fino a poche settimane fa, sinceramente, il nome Claudio Rocchi mi diceva poco o tendeva a sovrapporsi a quello di Claudio Lolli. Immagino il ribrezzo degli estimatori per cotanta dimostrazione d’ignoranza. D’altra parte, però, avrebbe poco senso se millantassi che all’alba della pubertà disponevo dei mezzi tecnici (dischi, giradischi, radio, registratori ecc.) e, soprattutto, dei mezzi culturali per confrontarmi con un certo genere musicale e con liriche ad alta densità di metafore: questo tipo di giochetto si fa quando si è adolescenti in vena di “farsi belli”.
M’è bastato leggere su una bacheca un post terribilmente umano della compagna di Rocchi per spingermi ad ascoltare un po’ di repertorio datato su youtube.
No, non è scattato il colpo di fulmine, però la distanza tra la libertà poetica di Claudio Rocchi e il conformismo glitterato della canzonetta attuale è roba da panico. Si vede che è era tempo che facessi i conti con la sua musica, e ci sono arrivato quasi fuori tempo massimo.
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venerdì, dicembre 07, 2012
Aromi perduti
Sin da bambino il giardino di zia Lina (madrina di mio padre) era per me un piccolo, ombroso eden botanico, fascinoso e inaccessibile, protetto com'era da un'alta recinzione.
Morta zia Lina, per qualche anno mi sono dedicato a recuperare il giardino in stato di abbandono rastrellando, potando, zappando, innaffiando e rimpiazzando con piante nuove quelle morte di vecchiaia o di incuria. Era il mio hobby ogni volta che tornavo in paese da Cagliari e andavo piuttosto fiero dei risultati ottenuti.
Una volta trasferitomi a Milano per lavoro, per qualche tempo ho sperato che i miei fratelli continuassero a prendersi cura del giardinetto. Loro, invece, scelsero di monetizzare quel fazzoletto di terra di circa 60 mq, ma questa è un’altra (triste) storia.
Una delle “mie” essenze preferite era sistemata vicino al cancello. Gracile e slanciata, non dava troppo nell’occhio e non aveva neanche una fioritura degna di nota, però se strofinavi le sue foglie ti lasciava sulle dita un intenso, delizioso profumo agrumato. Si trattava di un esemplare di Cedrina o Lemoncina, una verbenacea che predilige i climi miti e l’esposizione soleggiata, ma che si era ben adattata a una collocazione esposta ai venti impetuosi e agli inverni alquanto crudi del mio paese.
È improbabile che quella Cedrina sia ancora viva e vegeta, un po’ per l’età - avrebbe più o meno 60 anni - un po’ perché da un ventennio il giardino è abbandonato a se stesso. Stamattina per caso, affettando un limone, ho ripensato a quella pianta con un po’ di nostalgia
Mi piacerebbe acquistarne una da tenere in appartamento: non sarebbe la stessa cosa, ma non c’è nulla di male nel soddisfare questo desiderio di radici.
martedì, novembre 29, 2011
half-light zone
Quanto dolore
rimorso
e desolazione
vivono ancora nei recessi della memoria.
Frammenti di passato
schivati come lebbrosi
stanotte non cessano di battere alle pareti.
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sabato, ottobre 22, 2011
AreAzione
Quando uscì il 33 Giri “Crac!” degli Area avevo 13 anni. Come tutti gli adolescenti di questo mondo, stavo abbandonando il conformismo acritico dell’infanzia e confusamente (molto confusamente) cercavo di mettere insieme un abbozzo di personalità autonoma.
Dal punto di vista musicale e dell’ideologia dichiarata, gli Area si collocavano agli antipodi dei riferimenti culturali di genitori e fratelli maggiori: era scontato, perciò, che ne facessi la bandiera delle mie velleità di smarcarmi dalla routine di una famiglia tutta casa e chiesa.
Per quanto possa suonare il massimo dell’incoerenza, di lì a poco sarei entrato nell’orbita di Comunione e Liberazione. A suo modo, anche quella era una scelta di rottura rispetto a un contesto cattolico che sentivo sempre più stretto e asfittico, ripiegato nella ripetizione abitudinaria della tradizione, privo di risposte e di significato.
Ma torniamo agli Area e alla loro musica.
L’Elefante Bianco mostra gli anni che ha sotto il profilo di un testo “ribellista” che pure adoravo. “Guarda avanti, non ci pensare, la storia viaggia insieme a te” e “spezza poi tutto con radicalità” erano benzina per le fantasie di un adolescente impacciato e solo apparentemente tranquillo.
Riascoltando oggi, però, la mia attenzione si concentra sull'aspetto prettamente musicale. Provo un pizzico di rimpianto per una stagione lontana in cui si osava ancora battere i sentieri della creatività e della sperimentazione musicale con esiti controversi, ma sempre stimolanti e spesso eccellenti.
La miscela di jazz, progressive, elettronica ed ethno music che anima il pezzo è assolutamente originale, così come la vocalità inconfondibile di quel benedetto folle di Demetrio Stratos.
Il drumming di Giulio Capiozzo e il basso e di Ares Tavolazzi creano un tappeto ritmico impressionante per precisione ed efficacia lavorando su tempi dispari di matrice balcanica, mentre le tastiere ricamano un fraseggio ossessivo "dandosi la voce" in una sorta di danza circolare.
Giù il cappello, e poco male se qualcuno storcerà il naso.
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domenica, giugno 20, 2010
High density resume 06.20.2010
Fantastici quegli anni, ma anche no
Un articolo di Lux, al secolo il giornalista Lucio Bragagnolo, mi ha fatto riflettere, sorridendo, sulla mia appartenenza a quella schiera di over 40/nearby 50 che cercano di tenersi al passo con le tecnologie, ma che con la testa sono rimasti fermi a cavallo tra gli anni '80 e i ’90: il paleozoico in termini informatici.

Fatta questa precisazione, torno a quel mondo informatico che oggi appare così lontano e astruso, ma che su di me pesa in termini di abitudini che non riesco proprio a scrollarmi di dosso. A chi non c’è passato per esperienza richiedo un certo sforzo d’immaginazione, ma tant’è.
Ho appena scaricato dal web iTunes 9.2: poco meno di 500 MB per un’unica applicazione, e avverto una sensazione di vuoto allo stomaco pensando allo spazio abominevole che occupa.
Non c’è niente da fare: immancabili, i fantasmi degli hard disk da 40 o 250 MB con cui ho lavorato per anni appaiono e mi fissano corrucciati come fossi un folle sperperatore di spazio prima di farmi ciao ciao con la manina. Non conta neppure il fatto che oggi anche una chiavetta USB da quattro soldi offre 1 GB di spazio.
Diagnosi: claustrofobia cronica da hard disk sottodimensionato.
Altri riflessi condizionati?

Con i 16 o 32 MB di costosissima RAM - di cui una parte assorbita dal sistema operativo - disponibili nei computer dei primi anni '90, era obbligatorio scegliere a cosa destinare la memoria per poter sperare di lavorare su Photoshop piuttosto che su Word o Filemaker senza trovarsi a dover riavviare il computer dopo mezzora al massimo.
O ancora l’incavolatura quando cerco un file archiviato anni fa e scopro che non lo posso più aprire perché l’avevo compresso con uno dei tanti programmini che servivano a risparmiare spazio sul disco rigido e che comunque, anche a recuperarli fortunosamente, oggi non girerebbero sul computer a disposizione.
Per non parlare di quando masterizzo un CD o un DVD. In automatico, verifico la velocità di masterizzazione, chiudo tutte le finestre e le applicazioni aperte e sto fermo a guardare finché l’operazione non è terminata; il tutto pur sapendo che l’epoca dei primi masterizzatori SCSI (scasi) esterni è finita da un pezzo, e con essa il dover trattenere il respiro e incrociare le dita temendo il fatale errore di scrittura/lettura (overburning).
Ripensando a queste e ad altre situazioni, mi passa d'incanto qualsiasi nostalgia per il passato, YouTube o non YouTube.
È un mondo difficile

Questa è la finanza, bellezza
Restando in tema, in questi giorni la cronaca ha riportato alla ribalta l’infatuazione per la finanza “creativa” che aveva contagiato amministrazioni regionali e comunali anni fa .
Andiamo con ordine. Tra il 2002 e il 2006, con il beneplacito del governo allora in carica, regioni come Puglia e Lombardia, ma anche diverse amministrazioni comunali si rivolsero a broker e a prestigiosi istituti di credito internazionali per trovare in Borsa le risorse finanziarie per eseguire opere pubbliche di vario genere.
In altre parole, le amministrazioni pubbliche erano autorizzate a rivolgersi al mercato finanziario per ottenere prestiti o emettere obbligazioni poliennali (bond) da collocare presso i risparmiatori italiani ed esteri.

E qui viene il bello, perché questi fondi di ammortamento vennero ceduti in gestione alle banche che avevano curato il collocamento dei Bond attraverso la creazione di un derivato, uno strumento finanziario che nello specifico funziona pressapoco così:
- io banca investo i fondi accantonati da te in titoli di stato o garantiti dallo stato scelti insindacabilmente da me;
- io banca riservo a me gli interessi;
- in caso di insolvenza di uno stato debitore tu, regione, dovrai cacciare i soldi che mancheranno all’appello.
Ciliegina sulla torta: è emerso che i fondi di accantonamento pugliesi e lombardi sono stati allocati in titoli del debito sovrano della Grecia.
È chiaro che si tratta di una scelta studiata per lucrare su un tasso d’interesse particolarmente elevato, adeguato al rischio di bancarotta del Paese.
Però che volete che importi questo insignificante dettaglio a banche che in questi anni hanno guadagnato senza rischiare un centesimo e ad amministratori che non rispondono pressoché MAI della gestione dei fondi pubblici?
Buona settimana
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domenica, aprile 25, 2010
Sunday Mix & Match 04.25.2010
Ligabue inconsueto e d'autore
Variazione su temi tzigani
Sogno un gran falò
e brucio nel mio sogno
Aspetta ancora un poco il sonno
che poi il senno arriverà.
Ma all'alba niente va
no, nessuno danza,
ti alzi, fumi e bevi un po'
per smaltir la sbronza
E allora andiamo in là,
un po' più in là
ancora un poco un poco un poco
un po' più in là, ancora in là
sempre un poco un po' più in là
Fiasche verdi in osteria
bianco il tovagliolo
clown, se i miseri hanno un cielo
e io nemmeno un volo.
La chiesa sa di umidità
bruciano l'incenso
niente in questa chiesa va,
niente segue un senso
E allora andiamo in la,
ancora in là
ancora un poco un poco un poco
un po' più in là, ancora in là,
dietro un altro fuoco
Io mi affanno verso il colle
cerco scampo in su
c'è solo un olmo accanto a me
non c'è nient'altro qui
Se almeno un po d'edera poi
abbracciasse il colle
sarei felice e invece no,
niente qui mi attira
In là insieme, più in là insieme
ancora un poco un poco un poco
un poco un po' più in là
verso un altro fuoco
Rincorro il fiume e Dio non c'è
la luce qui colora
campi e i fiori intorno a me
la strada è lunga ancora
Lungo la strada un bosco, e lì
danzano le streghe
nelle pieghe dell'oscurità
danzano le scuri
Ben sicuri, dei cavalli
ritman la cadenza
in questa danza niente va
e io ne ho già abbastanza
Non c'è chiesa, non c'è osteria
niente è più sacro, ma è già sera
No, ragazzi, niente va
niente qui mi attira
E allora andiamo in là,
un poco un poco un poco
un poco un po' più in là
ancora in la, ancora in la
dietro un altro fuoco
E allora andiamo in là
ancora in là, ancora un poco un poco un poco
ancora in là, ancora in là
dietro un altro fuoco.
Non sono mai stato un fan di Luciano Ligabue, pur trovandolo superficialmente più simpatico e genuino di altri musicisti italiani.
Condivido l’opinione di chi ritiene che da qualche anno il Liga abbia esaurito la benzina; le sue ultime fatiche discografiche sono rock mediamente ben confezionato, ma a mio parere anche vuoto e di maniera, come se il suo marchio di fabbrica incartasse poche idee non particolarmente memorabili.
Forse proprio per questo mi piace ancora di più il Ligabue totalmente fuori dagli schemi che, al Club Tenco, si confronta con l’adattamento in italiano di “Moja tsyganskaja”, canzone piuttosto impegnativa da rendere del repertorio del poeta e cantautore russo Vladimir Vysotskij (1938-1980).
Esteri: le crisi dimenticate

Il fatto che gli abitanti della sterminata provincia americana si dimostrino poco interessati a ciò che avviene oltre l'orizzonte fisico, in giro per il mondo, fa sentire noi europei su un gradino più in alto, più smaliziati e cosmopoliti: ma è davvero così?
Cosa ci autorizza a sentirci più acculturati e informati di un farmer dell'Arkansas o dell’Idaho?
Mmmh, prendiamo un caso tuttora d’attualità: cosa può aver capito un italiano medio dell’arresto e del successivo rilascio dei tre connazionali volontari di Emergency in Afghanistan?
Se la sua unica fonte sono i telegiornali italiani, c’è da scommettere che l'italiano medio sia rimasto confuso, interdetto, e che - sotto sotto - abbia pensato che Emergency si sia meritata una bella bastonata perché s’impiccia troppo di politica.

A voler essere generosi con i media italiani, le sole informazioni sulla nostra ex colonia passate con qualche risalto sui telegiornali riguardavano le navi abbordate dai pirati del Puntland.
Lo stesso test può essere ripetuto con altri focolai di guerra e di crisi umanitaria: Darfur, Eritrea, Congo, i campi di internamento libici per i migranti clandestini che respingiamo al limite delle acque territoriali ecc. ecc..
La realtà è che manager, direttori di testata e investitori pubblicitari sanno bene quello che tendiamo a nascondere a noi stessi: le nostre riserve d'interesse, sollecitudine e amore per il prossimo sono decisamente sovrastimate.
Uno spettatore a disagio, depresso o saturato dall’esposizione quotidiana di morti e distruzione è solo un pessimo affare: non alza gli indici di ascolto e non è nello stato d'animo giusto per recepire gli stimoli all’acquisto.
Così meglio nascondere tutto sotto lo zerbino o deviare l’attenzione del pubblico mandando in onda un bel servizio distensivo sul gossip, sulla moda bimbo o su un’esposizione canina.
Le fabbriche della resistenza:
testimoni silenziosi e dimenticati

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domenica, aprile 18, 2010
Sunday Reminder 04.18.2010
Stereotipi
Per chi se lo fosse perso, eccco un esauriente estratto dal documentario “Il Corpo delle Donne” di Lorella Zanardo (l’originale sul blog omonimo), oggi divenuto anche un libro edito da Feltrinelli.
Non ho molto da aggiungere, se non che delle donne ho un concetto un po’ meno rudimentale di due tette, due natiche e una patata che deambulano con appeso il cartellino "sessualmente disponibile".
Il brivido del kitsch
Negli ultimi giorni mi sono divertito a rievocare alcuni degli oggetti buffi e strampalati che trent'anni fa erano onnipresenti nei cataloghi di vendita per corrispondenza e nelle pagine pubblicitarie di alcune riviste popolari.


Possiamo noi esimerci dall’avere in cucina il simpatico ceppo per coltelli a forma di bambolina vudù, da infilzare con un sorriso sadico mentre pensiamo all’odiato ex boy/girlfriend?
Possiamo non stupire e rallegrare i nostri ospiti servendo loro bibite rinfrescate con insoliti cubetti di ghiaccio a forma di cervello?
Certo che no, ci mancherebbe altro!!
Ma anche no, Iago!

“Gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano;
potessero non sembrare nemmeno uomini
quelli che non sono come sembrano!“
(Iago, Dall’Otello di Shakespeare)
Che succederebbe se le parole del perfido Iago si dovessero avverare? Non oso pensare quale immagine infernale rifletterebbe lo specchio del bagno, per non parlare del folle bestiario che troverei per strada, in metropolitana, in ufficio, in TV...
Il Grande Bardo era un genio, ma su questo punto forse è meglio salvare le apparenze.
Adiosu, Nicola
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domenica, gennaio 24, 2010
Duri da digerire
Sul finire degli anni ’80 mi capitò di fare un favore a una persona che mi era vicina: garantire alcuni voti - incluso il mio - a un candidato del Partito Socialista Italiano alle elezioni amministrative provinciali.
La richiesta mi risultava indigesta perché non avevo alcuna simpatia per il PSI targato Craxi, ma d’altra parte non potevo rispondere picche a chi mi chiedeva una mano d’aiuto.
Uscendo dal seggio elettorale irritato e con la coscienza politica in rivolta, mi capitò di pensare a un celebre titolo del Manifesto, il ”Non moriremo democristiani” di Luigi Pintor, riadattato per l’occasione in uno sconfortato “Non è che moriremo socialisti?”

Il PSI attirava come il miele quella fetta di italiani - liberi professionisti, commercianti, stilisti, starlet del cinema e della TV, bancari e burocrati rampanti - che vedevano nel Garofano l’ascensore per la loro scalata sociale, la scorciatoia per ottenere scatti di carriera o concludere affari senza dare tante spiegazioni o dover fare il giro delle sette chiese.
Altri elettori erano semplicemente sedotti dal carisma impetuoso, sprezzante e decisionista di Bettino Craxi: un marziano rispetto alla paludata ipocrisia dei notabili democristiani e al cupo moralismo dei leader comunisti.
L’appetito del PSI, la sua aggressività quando si trattava di mettere le mani sul potere o di reclamare una fetta più grande di torta erano sotto gli occhi di tutti al centro come in periferia. Il partito guidato da Craxi, infatti, non badava a spese e non andava per il sottile pur di piazzare i suoi uomini sulle poltrone da cui si maneggiavano soldi e consenso.
Allora, però, tutto sembrava possibile e ammissibile nell’Italia da bere resa euforica dall’economia che tirava, dopata dal fiume di soldi che usciva dalle casse dello stato, gongolante all’idea di aver sorpassato il Regno Unito in termini di PIL e soddisfatta di acquistare BOT e CCT che rendevano dal 12 al 20% annuo.

Quando oggi sento nostalgici - autentici e d’occasione - intonare giaculatorie in memoria di Bettino Craxi, laicamente beatificato come statista, martire e titano della storia repubblicana, fremo pensando a quanto ci è costato tirarci fuori dalle secche di un debito pubblico schizzato al 115% sotto il CAF (l’asse Craxi-Andreotti-Forlani), al sacco delle risorse nazionali di cui per anni il leader socialista è stato partecipe e connivente, alle macerie morali che ha lasciato in eredità.
Sulla doppia morale e sul piegare sistematicamente l'interesse generale a quello particolare imparati alla scuola di quel PSI campa di rendita l’attuale maggioranza.
Da questo punto di vista, ahimè, se pure non siamo morti socialisti non è che ci abbiamo guadagnato granché.
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