venerdì, febbraio 26, 2021
Dem radical-chic
Se mai dovessi scrivere per esteso tutto ciò che penso del Partito Democratico sarei immediatamente etichettato come tardo epigono di quella sinistra radical-chic che - si dice - provi un perverso diletto nel demolire per poi accucciarsi sulle macerie.
Senza addentrarmi sulle "tare genetiche" che affliggono il PD dalla nascita, argomento su cui esiste una bibliografia fluviale, provo un sentimento ambivalente di affetto e frustrazione verso un progetto ridotto a uno scarabocchio a furia di essere rimaneggiato, manipolato, asservito a idee, interpretazioni e aspirazioni disparate.
il risultato è un contenitore informe, mille volte rabberciato, vagamente funzionale ma sistematicamente inadeguato alle aspettative.
Abbiamo a che fare con un partito afasico, sfuggente, che fatica dannatamente a esprimere un abbozzo d'idea nitida su dove si voglia andare e come, di giustizia sociale, di valori: in definitiva qualcosa di sinistra. Pur tuttavia, dal PD non riusciamo a separarci malgrado un certo imbarazzo, un po' come succede agli accumulatori seriali (es: il sottoscritto) con i memorabilia delle esercitazioni scolastiche con il DAS o la ceramica nell'ora di applicazioni tecniche.
Lo so, il mio è un giudizio sommario e tranchant che non rende giustizia all'intelligenza e all'impegno disinteressato di molte persone che vivono attivamente il PD nelle sue strutture sul territorio: chiedo venia ma tant'è.
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domenica, febbraio 25, 2018
Spezzeremo lo smalto delle unghie alla Libia
Se non avessi visto e ascoltato lo spezzone video non ci crederei: Simone Di Stefano leader di CasaPound Italia espone durante un talk show la soluzione definitiva al problema dell'immigrazione, così semplice da far sembrare arzigogolato l'Uovo di Colombo.
La ricetta è di una linearità sconcertante, quasi imbarazzante: ci si accorda con alcune fazioni libiche e si manda l'esercito italiano a ripulire da banditi e trafficanti un pezzo di Libia, creando di fatto un nuovo stato.
In questa fetta di Libia "liberata" si inizieranno a costruire case, strade, ponti e acquedotti, in modo che vi si possano trasferire, a mezzo di un grande ponte aereo e navale, gli immigrati allettati da una reale opportunità di lavoro e di costruirsi un futuro.
Inutile dire che per l'alto esponente di CasaPound il realismo è un optional e concetti come diritto internazionale, sovranità, post/neo-colonialismo e deportazione sono quisquilie, fumisterie, cavilli di chi preferisce che la Libia rimanga nell'anarchia e alla mercé del racket degli scafisti.
Solo personaggi della levatura di Di Stefano possono immaginare che un'avventura militare in Libia possa essere una sorta di tranquilla scampagnata o un'operazione chirurgica rapida e indolore e che i libici accetteranno di buon grado la creazione di una nuova colonia italiana sul loro territorio.
Solo dei laureati in economia del quartierino possono pensare che un piano colossale di lavori pubblici sia finanziabile con i soldi del Monopoly.
Solo dei fini umoristi come i casapoundiani possono restare seri mentre confermano ciò che sosteneva Ennio Flaiano, e cioè che nel nostro paese la linea più breve tra due punti è l'arabesco, ma tant'è: questo è ciò che passa il convento dell'estrema destra italiana.
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martedì, agosto 01, 2017
La continuità dell’inadeguatezza
A un anno e passa dell’insediamento trionfale al Campidoglio, novella Bastiglia espugnata, c’è poco gusto a infierire sulla giunta pentastellata di Roma guidata (?) dal sindaco Virginia Raggi come ha fatto, buon ultimo, il quotidiano francese Le Figaro.
Le macerie e le voragini ereditate dalle passate giunte hanno steso per mesi una comoda ombra protettiva sugli impacci, i ripensamenti e le faide interne che hanno reso un ginepraio il completamento della giunta.
La discontinuità con il malaffare sbandierata come un mantra dai Cinquestelle è stata, a sua volta, un comodo parafulmine per deviare gli strali sulla ritrosia ai limiti dell’immobilismo con cui la giunta Raggi ha approcciato gli enormi, endemici problemi della capitale.
Tuttavia la stagione di grazia non può durare in eterno. Il suo predecessore, il “marziano” Ignazio Marino, al giro di boa dell’anno già friggeva a fuoco lento con l’accusa di aver sprecato tempo in interminabili riunioni producendo scarsi risultati concreti.
Nessuno ha la bacchetta magica per trasformare una metropoli complicata, disfunzionale, anarchica e da troppo tempo abbandonata a se stessa in una città modello. L’impressione dominante, però, è che la truppa pentastellata galleggi sul pantano dell’Urbe indecisa a tutto. Sembrano evidenti le resistenze, le giravolte e le afonie di un movimento che a livello locale (e non solo) ha paura di steccare, ma soprattutto non vuole o non sa trasformarsi da opposizione in realtà che si sporca le mani muovendo le leve del governo della città, che ha una visione chiara, prospettica, realistica di programma.
Il basso profilo, il silenzio e la circospezione con cui sta lavorando la giunta capitolina è difficile da distinguere dal tirare a campare e dallo schivare le rogne in attesa di istruzioni dai sacri vertici nazionali o della botta di culo che provvidenzialmente tolga le castagne dal fuoco e spiani la strada.
Resta inevasa una domanda: può la "diversità etica" dei Cinquestelle - genuina o di facciata che sia - compensare la disarmante continuità dell’inadeguatezza?
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sabato, agosto 08, 2015
A35: quando il rischio è calcolato
C'era una volta in Lombardia, nemmeno tanti anni fa, il progetto di una nuova autostrada tra Milano e Brescia che avrebbe dovuto alleggerire il traffico sull'analogo tronco dell'autostrada A4 Milano-Venezia.
Per indorare la pillola dell'ennesimo consumo di territorio e dare dimostrazione di efficienza e modernità, la Regione Lombardia guidata dall'ineffabile Celeste (Roberto Formigoni) aveva garantito che la realizzazione della nuova A35 - nota con l'acronimo di Bre.Be.Mi - sarebbe stata interamente finanziata dal consorzio di imprese Brebemi SpA, il quale sarebbe rientrato dagli investimenti attraverso l’incasso dei pedaggi.
Alla fine, però, i conti non tornano: l’opera finisce per costare il doppio del preventivo (2,4 miliardi di euro contro 1,42) e il traffico sui 62 km della A35 resta circa 1/3 di quello previsto anche a causa di un pedaggio di 15 cent/km contro i 7 cent/km della A4 che corre poco più a nord.
A rigor di logica, un’opera costruita in regime di project financing che si rivela sottoutilizzata ed economicamente non sostenibile è un grosso problema per chi l'ha finanziata. Nella migliore delle ipotesi, infatti, la società di gestione dovrebbe rassegnarsi a posticipare di parecchi anni il punto di breakeven senza battere cassa all'erario.
Ma siamo in Italia, per cui i soldi dei contribuenti italiani e lombardi andranno a mettere una toppa da 360 milioni di euro sui calcoli sbagliati di regione Lombardia e delle imprese: alla faccia del project financing e del capitale di rischio.
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lunedì, novembre 17, 2014
Zona interdetta
Agli entusiasti della base sembrava cosa fatta: questione di giorni se non di ore. Invece, la spallata finale per entrare trionfalmente nelle sconfinate praterie della Zona Franca Integrale prevista entro l'estate scorsa è stata congelata sine die.
Come un elastico teso al massimo, la spinta del movimento guidato dalla dottoressa Randaccio e dall’avvocato Scifo si è arrestata nel momento stesso in cui, per un’illusione ottica elettorale alimentata dall'appoggio del governatore uscente Cappellacci, la meta è sembrata a un passo dall'essere raggiunta.
Ritraendosi, l’elastico ha brutalmente rispedito i supporter della Zona Franca Integrale al punto di partenza non prima, però, di aver depositato alcuni candidati sui banchi dell’opposizione in consiglio regionale.
Forse è ancora presto per parlare di riflusso: certo è che la rivendicazione di una Zona Franca Integrale per la Sardegna ha seguito un percorso simile a quello del Movimento dei Forconi: bolle cresciute impetuosamente e di colpo implose in un nulla di fatto.
La “chiamata alle armi” della primavera scorsa nel nome di una fiscalità di vantaggio estesa a tutti i residenti in Sardegna oggi appare un ricordo immalinconito di cui si parla malvolentieri. D’altra parte, vedere quella che sembrava la madre di tutte le battaglie sovraniste ridotta a nave corsara sigillata in una bottiglia e chiusa in qualche cassetto della politica regionale è uno spettacolo poco edificante anche per chi, come me, era dichiaratamente scettico.
Tanto per completare l’opera, nei giorni scorsi sono comparse le prime serie crepe ai vertici del movimento Zona Franca che lasciano pensare a scialuppe calate in mare.
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giovedì, novembre 13, 2014
snowy mountain
[ Chiedo scusa per la qualità (assente) della simil vignetta: manovrare il mouse per disegnare non è il mio forte ]
Scusate, ma da quando è che il narcotraffico e lo spaccio di stupefacenti hanno smesso di essere un problema serio?
Giusto stasera ho sentito una cifra spaventosa: +17%. Di tanto sono cresciute in un solo anno le coltivazioni di papavero da oppio in Afghanistan.
Come dire una montagna di prodotto in più per chi controlla i traffici internazionali e la conferma che sono costoro gli autentici vincitori di un conflitto volutamente trascurato e nascosto sotto lo zerbino.
Credete che questa notizia avrà risalto sui media mainstream? Direi al massimo per qualche ora nella sezione esteri. Poi inevitabilmente finirà nel dimenticatoio. Più o meno c’importa quanto quello che succede da tempo in Messico, dove i cartelli della droga sono stato nello stato e amministrano le esecuzioni capitali con la stessa facilità e sicurezza con cui gestiscono il transito dei carichi di coca diretti al mercato USA.
Oggi il livello di attenzione per la droga sembra minimo. C’è, circola abbondantemente, ma è quasi un fatto “normale” e trascurabile per chi non lavori nel sociale. Cercare di discuterne riscuote più o meno lo stesso interesse del fare ingresso in un bar mentre fuori diluvia ed esclamare a voce alta: “Oggi piove, eh?”
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mercoledì, febbraio 12, 2014
Il lato frustrante del low cost
Un'avvertenza quasi scontata: quando prenotate un volo online non trascurate alcun dettaglio prima di concludere la transazione. Questo monito vale per tutti i vettori, ma in particolar modo per la compagnia low cost per eccellenza: Ryanair.
Va dato atto al vettore irlandese di aver migliorato e semplificato il suo sito rispetto al percorso ad ostacoli di qualche anno fa. Tuttavia auguratevi di non aver fatto un errore grossolano, per esempio nella data di partenza o di ritorno, perché le possibilità a vostra disposizione per modificare a posteriori la data pagando una penale potrebbero mettere a dura prova i vostri nervi.
Ryanair offre due alternative:
- contattare il call center
- modificare la prenotazione all'interno del sito
Da mobile, invece, non ci sono blocchi da rimuovere e la tariffa viene puntualmente snocciolata da una voce registrata appena si prende la linea (0,20 centesimi allo scatto, circa 0,90 centesimi+IVA al minuto fino a un importo massimo di 15 euro, dopodiché la linea viene automaticamente disconnessa).
Mettiamo che siate fortunati perché l'operatore del call center risponde entro un minuto. Dovrete spiegare rapidamente di cosa avete bisogno, fare lo spelling del codice di prenotazione, scandire la nuova data di partenza, comunicare correttamente la vostra email, snocciolare con cura le cifre della carta di credito, del termine di validità della carta e del CVV2.
In teoria, ve la dovreste cavare pagando la penale più una decina di euro di traffico telefonico.
Se invece vi va male perché restate in attesa dell'operatore per diversi minuti, allora avrete solo sprecato tempo e denaro perché non arriverete a metà della procedura prima che scatti la tagliola del tetto dei 15 euro.
Modificare la data di prenotazione dal sito Ryanair è, sulla carta, la soluzione più semplice ed economica, penale a parte.
Peccato, però, che la procedura possa bloccarsi senza alcuna spiegazione dopo aver impostato la nuova data e premuto il bottone "cerca voli".
Alcune volte arriverete in una pagina in cui dovreste dare una conferma di qualche tipo in una dialog box di cui, però, vedrete solo il bordo inferiore, mentre i resto è irrimediabilmente oltre lo spazio visualizzabile dal browser. Altre volte, invece, girerete in tondo provocando solo il refresh della pagina.
Ryanair ha introdotto anche un help center che funziona tramite chat testuale. Tuttavia gli operatori - pur amichevoli e cortesi - non sembrano abilitati ad altro se non a ripetere le istruzioni e i suggerimenti presenti nel sito.
Detto con simpatia, Ryanair, proprio non ci siamo.
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sabato, ottobre 12, 2013
Un francobollo allunga la vita
“La situazione di Alitalia è sotto controllo”
Se fossimo sul set di L’Aereo più pazzo del mondo c’è da scommettere che scatterebbero in sequenza i segnali luminosi “okay panic” “bullshit” e “unbeliavable bullshit”.
Eh sì, ci risiamo e non è un bello spettacolo il governo che si agita e passa con il cappello della questua in mano pur di garantire un’altra boccata di ossigeno finanziario alla ex compagnia aerea pubblica dopo appena cinque anni dal “salvataggio” sponsorizzato dall’ex premier Silvio Berlusconi e guidato in cabina di regia dall’ex Ministro del Lavoro Corrado Passera, ai tempi Amministratore Delegato di Banca Intesa.
In cinque anni la CAI-Nuova Alitalia, affidata alla cordata dei “patrioti” già graziosamente ripulita della montagna di debiti pregressi della "vecchia" Alitalia - circa 3 miliardi di Euro - scaricati sui contribuenti, non solo non si è nemmeno avvicinata al break-even, ma ha accumulato perdite tali da bruciare capitale e liquidità ben oltre il livello di guardia.
A quanto sembra, il nuovo cavaliere bianco individuato dal governo è Poste Italiane SpA che, con qualche scusa inverosimile, dovrebbe mettere sul piatto i 75 milioni di Euro necessari a chiudere l’accordo per la ricapitalizzazione di CAI-Alitalia, convincendo una riluttante Air France-KLM, alle prese con una pesante ristrutturazione interna, e i maldisposti soci della cordata italiana guidata da Roberto Colaninno.
Perché non è un bello spettacolo? I motivi sono diversi, ma mi limito a citarne due:
- perché si travasa liquidità da una società di cui lo Stato è azionista di riferimento a un'impresa privata unicamente allo scopo di prolungare la stentata esistenza di un vettore inadatto a reggere la concorrenza delle low cost sulle rotte nazionali
- perché c'è da constatare, ancora una volta, che quando gli interessi da tutelare sono quelli degli istituti di credito più esposti e dei sindacati (7000 posti di lavoro non sono una bazzecola) improvvisamente la materia diventa interesse strategico nazionale, con buona pace dei contribuenti e degli altri mille tavoli di crisi aperti che devono pazientare all'infinito o affidarsi alla benevolenza divina.
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domenica, settembre 15, 2013
Zona Francamente Inconsistente
Non ho alcun interesse specifico a schierarmi nella disputa sulla cosiddetta Zona Franca Integrale per la Sardegna. Anzi, a conti fatti schierarsi - soprattutto sul Web - significa cercare guai, data la crescente inclinazione di chi popola i social network a passare direttamente all’insulto, alla minaccia e al rogo in effige senza prendersi il disturbo di argomentare il dissenso verso le opinioni sgradite.
Tuttavia mi dispiace, e lo dico sinceramente, che molti si spendano con entusiasmo e generosità per una battaglia spacciata per l’accesso alla Terra Promessa e la panacea di tutti i problemi della Sardegna, mentre le basi giuridiche ed economiche appaiono fragili e fumose al punto di sembrare una fuga nell’immaginario.
Se le cose andranno come penso, non ci sarà nessuno abbastanza onesto da rivolgersi pubblicamente a questa base di attivisti ammettendo: “Scusate, abbiamo sbagliato”. Temo invece che la Zona Franca Integrale andrà a fare compagnia ai protocolli di cura rigettati, alle scie chimiche e ai chip sottocutanei di controllo nel repertorio della “informazione alternativa” come esempio di grande opportunità sfumata per il complotto demo-pluto-giudaico-massonico dei soliti poteri forti assecondati da politici sardi prezzolati.
Cerco ora di spiegare di cosa sto parlando. I fautori della Zona Franca Integrale vogliono l’estensione all’intero territorio regionale della Sardegna del regime di extradoganalità previsto per i porti e i punti franchi, ovverosia zone che fanno parte del territorio di uno Stato, ma sono considerate fuori dei suoi confini doganali e, perciò, esentate dall’applicazione di dazi doganali, IVA e accise su prodotti e servizi.
Che io sappia, in Italia esistono due località in cui si applica da tempo la Zona Franca: Livigno e l’exclave di Campione d’Italia. Altre due zone potrebbero beneficiarne, ma hanno preferito ottenere dallo Stato forme di fiscalità di vantaggio di altro genere: la Val d’Aosta (per Statuto Regionale) e il territorio di Gorizia.
A livello europeo, invece, gli esempi di Zona Franca applicata sono gli arcipelaghi delle Canarie e delle Azzorre e i territori francesi d’oltremare.
L’evidente ragion d’essere delle Zone Franche è compensare, attraverso un regime fiscale speciale, la penalizzazione dovuta a una collocazione geografica ultra-periferica e disagiata, promuovendo l’allineamento delle economie locali a quelle degli Stati di appartenenza e prevenendo lo spopolamento.
Senza questi oggettivi e riconosciuti presupposti di svantaggio, l’Unione Europea non è propensa a dare semaforo verde all’istituzione di nuove Zone Franche, classificandole come inammissibili “Aiuti di Stato”. Non a caso, l’istruttoria di Bruxelles sulla Zona Franca di Livigno è stata chiusa perché il regime extradoganale è applicato su un ambito territoriale talmente ristretto e isolato da non creare apprezzabili fenomeni di distorsione del mercato.
Problema numero 1: la Sardegna rientra nei parametri comunitari per ottenere lo status di Zona Franca integrale?
In linea di principio, l’insularità della Sardegna è indiscutibile, così come è oggettivo lo svantaggio competitivo delle merci prodotte sull’isola. Inoltre, sin dai trattati istitutivi della CEE uno degli obiettivi di fondo che l’Europa si è data è quello di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni e il ritardo di quelle più svantaggiate e insulari.
Sta di fatto, però, che anche in sede di revisione del regolamento attuativo del codice dogale comunitario, avvenuta pochi mesi fa, la Sardegna non è nominata tra i territori esenti dai dazi doganali.
Dimenticanza? Tradimento? Complotto?
Forse sarebbe più giusto parlare di ignavia - antica e recente - a livello regionale, dato che l’istituzione di punti franchi è prevista dall’articolo 12, comma secondo, dello Statuto regionale approvato con Legge Costituzionale nel lontano 1948. Per inciso, il primo comma stabilisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di regime doganale.
Inoltre, in attuazione dell’articolo 12 dello Statuto, il Decreto Legislativo 10 marzo 1998 n.75 dispone l’istituzione in Sardegna ”di zone franche nei porti di Cagliari, Olbia, Oristano, Porto Torres, Portovesme e Arbatax, nonché in altri porti e aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili. La delimitazione territoriale delle zone franche e la determinazione di ogni altra disposizione necessaria per la loro operatività viene effettuata, su proposta della regione, con separati decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”.
E qui viene il bello.
Sebbene io abbia abbandonato da oltre un ventennio gli studi giuridici, trovo fumosa e difficile da difendere l’interpretazione estensiva degli articoli citati fatta dai sostenitori della Zona Franca Integrale, secondo cui la Sardegna vanterebbe dal 1948, e tanto più dal 1998, un diritto all’extradoganalità per il 100% del suo territorio.
Si vorrebbe che la perimetrazione dei porti franchi e delle aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili sia il grimaldello logico-giuridico per quest’operazione di copertura integrale. Per quanto mi riguarda, in punta di diritto la trasformazione implicita dei porti franchi in isola franca mi sa tanto di “credevo fosse amore, invece era un calesse”.
Inoltre, anche seguendo lo schema previsto dal decreto legislativo del ’98 è poco plausibile che il governo nazionale appoggi l’istituzione di una Zona Franca su scala regionale non fosse altro perché sarebbe come gettare un cerino acceso nella polveriera dei rapporti Stato-Regioni e sulla più che precaria stabilità dei conti pubblici.
In ogni caso le chiacchiere in libertà sono state tante, gli annunci roboanti pure, ma i fatti dicono che l’Europa tra pochissimo chiuderà a chiave il fascicolo delle zone franche e la Sardegna resterà al palo.
Quesito numero due: ammettiamo per ipotesi che la Regione abbia proposto, il governo nazionale acconsenta e l’Europa sia disponibile a fare buon viso a cattivo gioco. La Zona Franca Integrale è davvero la cura miracolosa contro il declino e la desertificazione della Sardegna?
La visione suggestiva propagandata dai promotori della Zona Franca Integrale è il cartello dei prezzi alle pompe di benzina, gli scaffali che traboccano di merci a prezzi da sballo, i casinò in stile Las Vegas e le imprese che bussano alla porta per investire e dare occupazione.
Si tratta, però, di una “cartolina” ampiamente ipotetica, perché ciò che funziona a Livigno o a Campione non è detto che sia replicabile su scala molto più vasta.
La ragione sta nel fatto che la Zona Franca Integrale non è sinonimo di paradiso fiscale alla San Marino o isole Cayman e, da sola, non basta ad attirare investimenti internazionali e creare nuovi posti di lavoro. I maggiori benefici del regime extradoganale consentito dalla UE, infatti, ricadono sulle imprese che fanno export su export come quelle che movimentano container nel Porto Canale di Cagliari.
Per vincere la concorrenza di Paesi come Turchia, Serbia, Montenegro, Croazia e Slovenia, che possono mettere sul piatto sgravi fiscali importanti e un costo del lavoro quasi irrisorio, occorre affiancare la Zona Franca con robusti incentivi da parte della Regione e dello Stato.
Ergo, ogni posto di lavoro creato dalla Zona Franca avrà un costo aggiuntivo semi-occulto a carico dei contribuenti, con tutto ciò che ne consegue in termini di stabilità e di sostenibilità economica.
Non dimentichiamo un altro dettaglio: con l’eventuale avvento della Zona Franca Integrale, la Regione Sardegna dovrebbe raddoppiare l’attenzione sulla tenuta del proprio bilancio perché i 9/10 del gettito IVA generato sul territorio regionale che oggi lo Stato deve ritrasferire ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto regionale si ridurrebbero a un magro rivoletto.
A tutti questi inconvenienti, tuttavia, si potrebbe ovviare qualora la ZFI fosse realmente in grado di fare da volano a una robusta crescita dell’economia sarda.
Ok, fin qui le mie obiezioni di principio. Tralascio quelle legate al goffo intervento di un noto personaggio pubblico in cerca di maquillage all’immagine perché trattasi di soggetto notoriamente capace di provocare danni anche quando non prende iniziative.
Resta però il fatto che no ci si può limitare a dire NO schizzinosi, a difendere l’indifendibile classe dirigente sarda che in 60 anni si è baloccata in chiacchiere e nella spartizione di feudi, prebende e fondi pubblici, ad assistere inerti all’impoverimento e alla disgregazione di un’isola lasciata senza futuro, da cui chi può emigra.
Il merito dei promotori di Zona Franca Integrale è aver rimesso al centro dell’attenzione le questioni dell’isola che si sta spopolando e dell’insufficiente attuazione di misure di fiscalità di vantaggio e dei porti franchi.
Su questi argomenti chiunque reggerà le sorti della Regione Autonoma della Sardegna dopo le prossime elezioni amministrative dovrà misurarsi e dare risposte, possibilmente con i fatti.
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venerdì, settembre 06, 2013
Niente panico
Nell'immagine sopra, il volitivo governo italiano presieduto dall'On. Enrico Letta attende, con ammirevole sobrietà e compostezza di modi, la messa in onda del videomessaggio con cui il condannato per frode fiscale con sentenza definitiva più famoso d'Italia gli darà il benservito "per il bene del Paese" (ovviamente)
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sabato, luglio 20, 2013
Extraordinary poor figure
domenica, maggio 26, 2013
Il conto della crisi
"En Ginebra descubren el Bosón de Higgs
y nosotros aquí pendientes de ver como nos limpiamos el culo"
"A Ginevra scoprono il Bosone di Higgs
e noi qui siamo in attesa di vedere come pulirci il culo"
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sabato, aprile 20, 2013
la buia notte del Piddì
«Compagni, amici, prendiamo atto che stavolta è andata davvero in vacca.
Però possiam mica andare avanti a far la figura dell’asso di basto…»
PLONK!
«Chi è che ha spento la luce?!?
Oh, ragassi, facciam mica gli schersi da prete che non è aria, porca boia! Chi è stato?»
«Rocco Siffredi!»
«Oh, Franceschini, fai mica lo spiritoso che se non usciamo di qui con una candidatura
a prova di bomba, domani te e io facciamo i lampadari appesi per le palle, appesi...
Insomma chi è stato ora, da bravo, riaccenda la luce...»
«La supercazzola!»
«Ma come sei spiritoso, Scalfarotto. Vuol dire che te domani fai le valige
e vai dritto in uaiomin’ a montare sospensori ai bisonti di Yellowstone:
vedrai che lì te le giochi bene le tue battute...»
«È stato Franco Marini!»
«Ooooooh, ragassi! Siam mica qui a fare i fanali con le emorroidi!
Accendete quel canchero di luce e vediamo di procedere, che qui abbiamo poco tempo e ci sono troppi Giuda con il pane in mano pronti a pucciare nella mia mostarda, porca boia!!
Sapete che c'è? Siccome siam tutti in vena di schersi, io ora mi dimetto e ve la grattate voi la carogna!»
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domenica, novembre 25, 2012
La storia NON insegna
Parassitosi finanziaria
Non c’è peggior custode di colui che deve un favore al ladro.
Quello che sta succedendo è che il fenomeno dello Shadow Banking (SBS), il circuito di intermediazione finanziaria non bancaria che racchiude la crema (si fa per dire, of course) degli hedge fund e dei veicoli strutturati d’investimento, sta nuovamente gonfiandosi a dismisura negli USA, nell’Eurozona e nel Regno Unito.
Tanto per dare un’ordine di cifre, nel 2010 muoveva 46.000 miliardi di euro e ora ci avviamo a quota 67.000 miliardi di Euro.
La regolamentazione di questo sistema finanziario ombra ad alto rischio, con l’estensione dei controlli - già abbastanza all’acqua di rose - cui sono sottoposte le banche d’investimento convenzionali, era stata promessa all’indomani dello scoppio della bolla immobiliare negli USA, alla base dell’attuale interminabile crisi.
Però, giusto per tornare alla frase iniziale, le relative disposizioni attuative sono finite regolarmente nelle paludi di interminabili lavori parlamentari da cui, nella migliore delle ipotesi, usciranno “ammorbidite” al punto di essere pressoché inservibili.
Nel frattempo, come un avido parassita, lo shadow baking sta già esercitando il suo potere distorsivo e distruttivo sull’economia reale.
Un esempio? Un hedge fund ha rilevato il controllo azionario di una società USA cui fanno capo diversi ospedali e case di cura con una situazione finanziaria e patrimoniale in attivo. La prima mossa dei nuovi proprietari qual è? Decidere un generoso dividendo straordinario per gli azionisti, ovvero per se medesimi, finanziato con l’emissione di obbligazioni garantite con il patrimonio immobiliare dell’azienda.
In altre parole, i simpaticoni hanno acquisito una società sana per mezzo di soldi in parte messi da loro, ma soprattutto rastrellati sul mercato finanziario parallelo, hanno rimpinguato il patrimonio personale facendosi un maxi regalo che ha indebitato l’azienda e quest’ultima, per rimborsare i creditori, dovrà tagliare spese e investimenti destinati alle strutture ospedaliere.
Tutto perfettamente entro i limiti della legge, tutto senza un filo di logica industriale o economica, perché a questa finanza non importa affatto l’economia reale.
Che un’azienda produca navi da crociera o allevi suini, che abbia 10, 100 o 10.000 dipendenti conta solo ai fini dell’investimento e dei margini di profitto che si possono ricavare entrando e uscendo dall’affare. Quel che succede dopo non è affar loro: ci sarà sempre qualcun altro a pagare per le macerie che seminano strada facendo.
Tango soffocato
Chi ha dato il via alla causa e rivuole indietro tutti i soldi con i relativi interessi sono creditori molto particolari: li chiamano “fondi avvoltoio” perché comprano a prezzi stracciati stock di debito pubblico di nazioni sull’orlo del dissesto, quindi con tassi di interesse adeguati all’altissimo rischio di insolvenza.
La sentenza del giudice Griesa mette in guai serissimi l’Argentina e, di riflesso, inguaia anche l’economia mondiale già depressa e debilitata alla fine del quarto anno di crisi.
Se l’Argentina non ottempera, infatti, il giudice può ordinare il blocco dei trasferimenti ai creditori concordatari, rispedendo l’Argentina nel baratro del default da cui stava faticosamente uscendo. Se invece accetta la sentenza e paga, il Paese latinoamericano si troverà automaticamente contro quel 93% di sottoscrittori che, pur di portare a casa qualcosa, aveva accettato la decurtazione del loro credito al 30% del valore.
Indietro tutta
Nel nome della produttività sarà possibile fare un po’ di tutto: più soldi (forse) in busta paga per gli straordinari, ma anche la non esclusione a priori della sorveglianza video sul posto di lavoro e del demansionamento, cioè mettere il dipendente a fare un lavoro diverso da quello previsto per contratto e pagarlo di conseguenza, solitamente di meno.
La marcia indietro nei diritti dei lavoratori procede spedita, con la benedizione di tutti, o quasi.
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domenica, settembre 16, 2012
Segnali da decifrare
Ben ritrovati, più o meno
No, non sono scomparso. La prolungata stasi del blog è dovuta a un rientro al lavoro tra i più pesanti che ricordi: una concentrazione di scadenze ravvicinate da arrivare a notte stremato e troppo poco lucido per postare. Con questi chiari di luna si è costretti a correre, correre, correre come criceti sulla ruota. Non è ancora finita, e penso che la marea inizierà a defluire (forse) a metà ottobre.
Abbiamo solo scherzato
Dal carteggio privato tra Benito Mussolini e Claretta Petacci è emerso che, ancora a una manciata di giorni dal drammatico epilogo della sua tragica avventura alla guida della RSI, l’ex Duce degli Italiani era persuaso che Hitler avrebbe rovesciato le sorti della guerra scatenando la ventilata “arma totale”.
È evidente che lo sprofondo del mercato dell’auto nel nostro paese ha avuto un peso nella rottamazione di Fabbrica Italia, ma ciò non toglie che tutta la vicenda abbia avuto sin dagli esordi lo spiacevole sentore di un bluff, di uno specchietto con cui si sono fatte adescare, per convenienza o sudditanza intellettuale, tante prestigiose allodole che ora tacciono o fanno vista di cadere dal pero.
Lo scatolone vuoto di Fabbrica Italia non è stato inutile per la FIAT, tutt’altro: è stato solo ritirato quando la sua presenza è divenuta superflua e imbarazzante, non prima, però, di aver consentito alla famiglia Agnelli e al suo top manager di racimolare vantaggi concreti in cambio… di quasi nulla.
Agitando lo scatolone e minacciando di metterlo via, infatti, il carismatico Marchionne ha dettato le sue condizioni “prendere o lasciare” in tema di relazioni industriali e di modifica dei contratti negli stabilimenti italiani del gruppo FIAT.
Questa stessa tattica, inoltre, ha consentito a FIAT di godere di una relativa intoccabilità e della massima libertà di azione. Non che fosse particolarmente difficile in un paese dove i governi si guardano bene dall’abbozzare uno straccio di politica industriale o si limitano, pateticamente, ad auspicare che un amministratore delegato trovi il tempo di fissare un incontro chiarificatore.
Ma la consegna del silenzio o, al massimo, del rabbuffo all’acqua di rose è stata osservata anche dalla “libera stampa” italiana, dai partiti e da sindacati più realisti del re.
Era già tutto previsto, come nella malinconica canzone di Riccardo Cocciante.
Il poliziotto buono
Il titolo lasciava poco spazio a equivoci “The Shock Doctrine - The rise of disaster capitalism”.
Sintetizzando, la dottrina dello shock economico è di una semplicità agghiacciante: è necessario creare nella popolazione un senso continuo d’insicurezza e di stress psicologico tale da far diventare accettabile qualsiasi decisione politica ed economica.
Più le ragioni della minaccia appaiono incomprensibili e fuori del controllo dei bersagli, più questi ultimi saranno disponibili a concessioni dolorose nella direzione desiderata da chi tira le fila del gioco.
Nulla di strano che un economista di stampo Liberal come Mario Monti conosca bene le teorie di Friedman e che le abbia in parte mutuate in una dichiarazione di alcuni anni fa - reperibile su YouTube - in cui esaltava il ruolo benefico della crisi come momento maieutico che accelera i tempi del cambiamento e dell'innovazione, vincendo le resistenze delle forze conservatrici.
La domanda è: l'esecutivo tecnico guidato da Mario Monti ha qualche idea sul come passare dalla gestione della fase acuta dello shock economico a quella della ripresa e dell'espansione, oppure è solo il "poliziotto buono" che lavora in tandem con quello cattivo (i mercati) e ora, non sapendo bene che pesci pigliare, si limita a prendere tempo in attesa di ulteriori ordini dall'alto?!?
Non vorrei che la luce che Monti e Passera hanno sostenuto di intravedere alla fine del tunnel sia, come ha ribattuto Marchionne, quella dei fanali del treno che sta sopraggiungendo.
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sabato, maggio 05, 2012
New Rules
Mettiamo che da anni siate clienti del negozio di frutta e verdura sotto casa, forse un po' caro, ma che non vi hai deluso rifilandovi merce scadente.
Un brutto giorno, però, il titolare decide di alzare sensibilmente i prezzi e, allo stesso tempo, la qualità del prodotto inizia a lasciare a desiderare. Non importa quale sia la ragione del comportamento del negoziante: non ha senso continuare a servirvi da lui, no?
Mettiamo che abitiate in un condominio. Da un po' di tempo c'è maretta nei confronti dell'amministratore perché le pulizie e la manutenzione delle parti comuni lascia parecchio a desiderare a fronte di spese condominiali sempre più salate. L'amministratore del condominio si difende addebitando la situazione alla presenza di alcuni inquilini morosi.
Però nel palazzo a fianco, "gemello" del vostro, non c'è traccia di vetri rotti, polvere, lampadine fulminate, ascensori fuori uso per settimane. Oltretutto, informandovi venite a sapere che anche lì ci sono inquilini in arretrato, ma che le spese condominiali sono nettamente inferiori. Salvo accordi sottobanco, perciò, è prevedibile che presto o tardi in assemblea sarà reclamata - e ottenuta - la testa dell'amministratore inefficiente.
Tutto logico fin qui?
In teoria, l'esistenza di uno stato si legittima con la sussistenza di un contratto sociale secondo il quale la popolazione demanda a un'entità sovraordinata la regolamentazione, l'organizzazione e lo svolgimento di tutta una serie di attività e servizi di pubblica utilità quali ordine pubblico, difesa, sanità, istruzione, infrastrutture civili ecc,, che viene finanziata attraverso la fiscalità, ovverosia prelevando una quota della ricchezza prodotta direttamente e indirettamente dai cittadini.
Ora la domanda è: come si sta comportando lo Stato italiano verso i cittadini? Sta rispettando i termini del contratto sociale ridistribuendo la ricchezza che preleva sotto forma di servizi?
Quello che è sotto gli occhi di tutti, penso, è che il contratto sociale stia vibrando e scricchiolando paurosamente, mentre le terapie applicate - auspicabilmente - con le migliori intenzioni sembrano consistere unicamente in salassi sempre più imponenti e nell'amputazione dei servizi ai cittadini, di per se già al limite della decenza. E, per tornare, agli esempi iniziali, solo una ristretta élite può decidere di cambiare Stato come si cambia un fornitore. Certo non è alla portata di tutti stabilire la propria residenza in un piccolo cantone della Svizzera tedesca o nel Principato di Monaco.
Alla maggioranza spetta il peso soverchiante di portare la croce e di cantare messa in quelli che sono stati chiamati "sacrifici necessari". Io, però, ho il brutto presentimento che siano solo la scorciatoia per arrivare al punto di rottura del sistema, provocato alimentando una rivolta dal basso degli esasperati o l'instaurazione di un direttorio tecnocratico dall'alto: qualcuno, forse, ha già pronta da tempo la bozza con le nuove regole del gioco.
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sabato, marzo 10, 2012
Come i treni a vapore
Durante gli "anni di piombo" del terrorismo alcuni intellettuali di sinistra vennero aspramente criticati e additati al pubblico disprezzo per aver assunto una posizione sintetizzata nella formula “né con lo Stato né con le BR".
Nel clima di tensione e di emergenza nazionale di quegli anni non c'era spazio per distinguo o sì con riserva: o ci si schierava senza se e senza ma dalla parte dello Stato, chiudendo gli occhi dinanzi a ombre inquietanti e ambiguità mai chiarite, o si veniva bollati come pusillanimi, amorali, fiancheggiatori dei terroristi, cattivi maestri, feccia radical-chic ecc. ecc.
Questa imposizione a schierarsi, a dichiarare da che parte si sta, viene ricreata e alimentata ad arte intorno al durissimo braccio di ferro tra le forze dell'ordine e il composito rassemblement NO-TAV in Val di Susa.
Ora come ora mi verrebbe da dire, in tutta onestà, che non sono né con lo Stato, o meglio con gli interessi che tutela in questo caso, né con l’onanismo antistato delle frange della sinistra che usano il NO TAV come scusa per giocare alla guerriglia e neppure con i NIMBY per partito preso.
Credo di non essere in errore se affermo che la stragrande maggioranza degli italiani ha un’idea assai nebulosa e approssimativa sul motivo del contendere. Già, le grandi opere in questo Paese non vanno spiegate dati alla mano e tanto meno messe in discussione coram populo prima di essere approvate.
Si dirà che la legge prevede tutta una trafila di passaggi, di sedi istituzionali deputate al vaglio, alla discussione e all’approvazione. Si dirà anche che sottoporre a consultazioni popolari opere pubbliche di grande portata significa mettere in dubbio le basi stesse della democrazia rappresentativa, ma soprattutto rischiare la paralisi totale o di arrivare a decisioni influenzate da istanze irrazionali o demagogiche.
Tuttavia la vicenda della TAV Torino-Lione mette a nudo i limiti e le inefficienze di un processo decisionale che ha prestato il fianco alle accuse di manipolazione della realtà, di interessi inconfessabili, di forzature e irregolarità varie nell'iter amministrativo nonché di omissioni e interventi “cosmetici” sui dati relativi all'impatto economico e ambientale dell’opera.
Ma soprattutto emerge l’incapacità, o la mancata volontà, di coinvolgere il territorio cui viene imposto di sopportare pesanti disagi e sacrifici senza ricevere in cambio alcun vantaggio diretto ed effettivo.
Ora il Governo Monti afferma che la TAV transfrontaliera è un progetto utile e meritevole cui ha nociuto una campagna stampa contraria.
Toh, ma davvero???
Sono "solo" 20 anni che sul tronco Torino-Lione della TAV sento raccontare tutto e il contrario di tutto, come sull’importanza strategica del “corridoio” europeo che unirebbe Lisbona a Kiev e sulla saggezza di trasferire su ferro una quota rilevante del trasporto merci affidato alla gomma.
Se l’incertezza e la confusione sono massime sotto il cielo, di sicuro la colpa non può essere addossata solo a chi critica legittimamente il progetto TAV o alla strenua opposizione dei Valsusini NO TAV.
Oltretutto, quando sento pontificare a favore della TAV ho la netta impressione che si favoleggi di qualcosa di mirabile, asettico e gentile che andrà a posarsi con la stessa leggerezza di un petalo di rosa sul suolo di un’Italia immaginaria, incomparabilmente più perfetta e virtuosa di quella reale.
Si magnificano i vantaggi che l’alta velocità e l’alta capacità porteranno al progresso e alla competitività. Si ragiona con la massima disinvoltura di miliardi di Euro di denaro pubblico e si vende la pelle dell’orso (il famoso e futuribile corridoio Lisbona-Kiev) quando tutto quello che si ha in mano è una marmotta vecchia e spelacchiata (il sistema di trasporto merci su rotaia in Italia).
A prescindere da questo, sarei grato che qualcuno mi illuminasse su certi strani e perduranti equivoci di fondo che mi portano a essere scettico sulla reale utilità del progetto:
- Il tronco Torino-Lione servirà al trasporto merci o piuttosto al trasporto passeggeri?
Non è una domanda anodina perché la coesistenza tra i due servizi, che hanno esigenze profondamente diverse, non è né scontata né facile. Tutto lascia pensare a un uso prevalentemente merci. Non si spiegherebbe altrimenti la necessità di deviare il percorso nei pressi di Torino per evitare la commistione - vietata per motivi di sicurezza - tra traffico merci e passeggeri nei passanti ferroviari all’interno della città.
Ma se è così, perché si continua a disquisire allegramente su una TAV che abbasserà i tempi di percorrenza sulla tratta Parigi-Torino-Milano, “vendendola” come soluzione per il trasporto passeggeri?? - Trasportare verdure, alimentari, manufatti o macchinari sul filo dei 300 kmh è economicamente sostenibile, ammesso che sia tecnicamente fattibile?
A quanto ho capito, perché il prezzo valga la candela è necessario che il servizio funzioni al massimo delle sue capacità. Però i dati sul trasporto merci da e per la Francia sono in costante calo dal 2000 a questa parte, al punto di essere lontanissimi dal saturare la linea ferroviaria esistente. Quindi?? - Qual è la situazione del trasporto merci su ferro in Italia e quali vantaggi si otterrebbero con la TAV Torino-Lione? Quanto traffico su gomma si riuscirebbe a eliminare?
La realtà, piuttosto malinconica, è che nel nostro Paese il trasporto merci su rotaia viaggia da tempo su un binario triste e solitario: è tenuto in vita quel tanto che basta per tirare avanti senza dare fastidio agli interessi della potente filiera del trasporto su gomma.
Difatti, la quota delle merci trasportate su rotaia in Italia è inchiodata dai primi anni ’80 al 9,7% contro una media del 17% nell’area UE.
Invece di potenziare la rete e migliorarne l’efficienza, negli ultimi 30 anni si è lasciato che la struttura nel suo complesso invecchiasse e perdesse pezzi, preferendo concentrare gli investimenti nella realizzazione di faraoniche aree per lo “scambio modale” gomma-ferro rimaste sottoutilizzate come cattedrali nel deserto, com’era ampiamente prevedibile dati i presupposti.
I sostenitori della TAV dicono che si toglieranno dalla strada migliaia di TIR al giorno e che l’attuale linea ferroviaria è strutturalmente inadatta al trasporto degli autoarticolati. Che sia questo l'intento o meno, se non si renderà davvero competitiva la rete ferroviaria merci e non si disincentiverà seriamente il trasporto su gomma, la nuova opera rischia di avere un impatto strutturale trascurabile, da 1 a 3 punti in percentuale, a fronte di costi di realizzazione che con ogni probabilità saranno sensibilmente superiori al quelli già difficilmente sostenibili mostrati oggi.
A che pro avremo un pezzettino d’Italia in cui le merci, almeno in teoria, viaggeranno come sassi scagliati da una fionda, se poi dopo Torino (o dopo Milano) viaggeranno o su gomma oppure alle solite, compassate velocità sulla vecchia rete ferroviaria (per non intralciare le più remunerative Frecce che corrono sulla TAV)?
Per inciso, nessuno per ora ha parlato del se, del come e del quando verrebbe realizzato il tronco del "Corridoio" da Milano al confine austriaco o sloveno, né qualcuno ha spiegato in che modo un treno merci porterebbe ricchezza alle aree su cui transita.
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giovedì, novembre 03, 2011
Crisis? What crisis??
Dovessi giudicare gli effetti della crisi economica sul potere d’acquisto e sul tenore di vita degli italiani prendendo come indicatore unicamente un campione casuale delle autovetture che transitano sotto la finestra di casa in un sabato pomeriggio qualsiasi, dovrei concludere che:
- la crisi è un’invenzione diabolica, colpisce solo chi non può permettersi di ignorarla;
- oggi il chiagni e fotti è un habitus molto, molto padano;
- gli autosaloni di Milano e della Brianza continuano a fare affari d’oro;
- Milano e Brianza sono state annesse in segreto dal Principato di Monaco o dalla Baviera;
- in alternativa, sta a vedere che abito a Montecarlo o a Monaco di Baviera e non me ne sono accorto.
Età media delle autovetture in circolazione, tutte rigorosamente fiammanti come appena uscite dal concessionario, max 1,5/2 anni. Prezzi di listino: abbondantemente sopra la soglia dei 30.000 €.
Inevitabilmente le utilitarie, nuove o con diverse stagioni impietosamente stampate sulla carrozzeria, recitano la parte delle umili comprimarie in mezzo a tanto profluvio di SUV, maxi fuoristrada e berline di rappresentanza che portano a spasso quella classe indefinita di liberi professionisti, commercianti, manager e imprenditori che pubblicamente "sta alle pezze", ma che in privato apre i portafogli pur di sfoggiare uno status-symbol semovente.
A pensare male si fa peccato, tuttavia...
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domenica, ottobre 09, 2011
Punto e accapo
Manifesto menefregista
Finché non tocca a me, cavoli loro.
Finché potrò mantenere il mio tenore di vita, il SUV, un nuovo smartphone ogni sei mesi, gli aperitivi e le cene fuori casa, la vacanza ai tropici e la settimana bianca, la palestra e la beauty farm per la moglie, finché avrò margini per stare sul mercato e tenere il fisco alla larga da ciò che guadagno per me possono pure scannarsi in piazza: me ne frego.
Fintanto che sono i giovani a fare le valigie per cercare lavoro all’estero, per me è tutto di guadagnato perché è più facile mettersi d’accordo con chi non può partire. Chi ha famiglia non storce il naso, non fiata quando deve tenersi stretto un posto di lavoro, qualsiasi genere lavoro e a qualsiasi condizione.
Ricordatevi che sono IO che faccio girare l’economia; io e gli altri come me teniamo in piedi questo Paese tenendo aperte le nostre aziende e facendo girare i soldi, perciò IO merito rispetto e riconoscenza.
I greci? Che volete che me ne freghi dei greci? Raccolgono quello che hanno seminato. Peggio per loro.
Sforza Italia
Forza Gnocca, ovvero la disgrazia di un Paese governato dalla cintola in giù.
Bankruptacy
Sembra di vivere nel remake di un film già visto e rivisto in questi ultimi anni. Ci si appella agli stati affinché dirottino una quota sostanziosa di quanto ricavano dalla fiscalità generale - ovverosia dalle tasse pagate dai cittadini - per ripianare gli ennesimi errori e peccati d’ingordigia di istituzioni private quali sono le banche.
Da un lato si evita il fallimento degli istituti di credito esposti, salvando il sedere di azionisti, imprese e semplici correntisti, dall’altro si scaricano i costi sulla collettività sotto forma recessione economica, tagli ai servizi, perdita di posti di lavoro ecc..
Per di più, il salvataggio del volto rispettabile della speculazione non è accompagnato da sanzioni nei confronti di amministratori delegati e consigli di amministrazione, da garanzie di trasparenza o dall’attuazione di una riforma strutturale del sistema bancario, esattamente com’è successo tre anni fa.
Nessuno è responsabile, così come nessuno sa più niente dei circa 14.000 miliardi di Euro di denaro pubblico che sono stati pompati nelle casse delle maggiori banche internazionali tra la fine del 2007 e il 2009.
Che non mi si venga a dire che bisogna rassegnarsi alla fatalità e alla percentuale di fallibilità delle azioni umane.
A che gioco stiamo giocando? chi sta manovrando la pedine sulla scacchiera? perché dobbiamo pagare a usura la felicità dei mercati finanziari?
Parole d'artista
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domenica, marzo 27, 2011
Ragionevoli dubbi e confortanti certezze
Nuke Sì, Nuke No, Nuke un caz
Istintivamente sarei portato a stare dalla parte di chi dice “NO grazie”, tuttavia ho seri dubbi sulla sostenibilità economica e ambientale a lungo termine del mix con cui oggi produciamo l’energia che ci occorre: 77,5% da combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) - 22,5% da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico, fotovoltaico, biomasse, geotermico ecc).
Non credo di essere l’unico a essere confuso, perché intorno al nucleare c’è da tempo un balletto diabolico di pareri discordanti. Come se non bastassero le schiere di sedicenti esperti che non perdono occasione di salire in cattedra per pontificare a vanvera, a mio giudizio è in atto una deliberata opera di disinformazione concepita per celare robusti interessi di parte.
Non ho verità in tasca: mi limito a farmi alcune domande elementari e a cercare qualche risposta "a lume di naso".
- tornare al nucleare è utile al Paese?
- il nucleare è una soluzione conveniente?
- che garanzie di sicurezza possiamo aspettarci dalle erigende centrali termonucleari italiane, sempre che si facciano?
Sul primo e il secondo punto, a quel che posso capire, le 8 centrali previste dal piano del governo - di cui la prima entrerebbe a regime nel 2020 - avrebbero un impatto importante, ma non risolutivo rispetto alla nostra dipendenza dai combustibili fossili.
Si colmerebbe il gap che ci porta a comprare energia da Francia e Svizzera nei momenti di picco (di notte siamo noi a vendere energia ai cugini transalpini) e dovremmo ottenere un risparmio di circa il 20% sui costi di generazione dell’energia: una sforbiciata consistente sulla bolletta energetica nazionale, che però non è detto che sia trasferita nelle nostre bollette.
A fronte di ciò dobbiamo mettere i 40 miliardi di euro stimati per la realizzazione delle centrali nucleari a tecnologia francese ERP (nucleare di terza generazione); un buon affare per la Francia, che ci venderebbe non solo la tecnologia, ma con ogni probabilità anche il combustibile “preparato” per alimentare le centrali.
Un ulteriore punto cruciale non mi è chiaro: l’uranite e la carnotite da cui si ricava l’uranio sono minerali e, come tali, fonti non rinnovabili.
Se è vero che le riserve mondiali note sono “ragionevolmente” stimate dalla IAEA (International Atomic Energy Agency) in 4,7 milioni tonnellate e che il consumo annuo dei reattori nucleari in funzione è di circa 67.000 tonnellate, l’uranio resterà disponibile agli attuali prezzi di mercato fino al 2060/2070 a patto che i consumi restino stabili. Dopo di che l’uranio è destinato a diventare sempre più raro e costoso da estrarre (oggi siamo sotto la soglia dei 130 dollari al kg), di conseguenza sempre meno competitivo.
Facendo due conti, abbiamo davanti la prospettiva di investire 40 miliardi di Euro di denaro pubblico per realizzare un parco di 8 centrali atomiche che, se non ci saranno ritardi in corso d’opera, forniranno il loro contributo di 13.000 MWe non prima del 2040, ma che per assurdo rischiano di restare a corto di combustibile o di diventare antieconomiche appena qualche decennio dopo l’inaugurazione.
I nuclearisti parlano di bassa incidenza dell’uranio nel costo di generazione dell’energia e di prezzo stabile del kwh anche a fronte di grandi oscillazioni nelle quotazioni della materia prima: sarà anche vero, ma qualcosa non mi torna.
Sicurezza
Mettiamo pure che l’attuale governo, apertamente favorevole al nucleare, riesca a imporre la localizzazione delle centrali nucleari e dei siti per lo stoccaggio in sicurezza delle scorie, magari militarizzando il tutto a muso duro com’è successo con le discariche in Campania durante l’emergenza rifiuti. Resta, però, scoperta la questione del livello intrinseco di sicurezza delle erigende centrali.
Chi ci garantisce che grandi opere così evidentemente mission critical saranno costruite a prova di criminose truffe sui capitolati e che i collaudi saranno effettuati con la dovuta competenza, severità e trasparenza, possibilmente da parte di autorevoli enti internazionali terzi? A essere sincero, su questo punto non ho motivo di fidarmi “a scatola chiusa” delle promesse e delle rassicurazioni della lobby pro-nucleare.
Ho lasciato per ultimo un ulteriore quesito irrisolto: stante che le fonti fossili costano sia in termini economici sia di impatto ambientale e che la crescita delle fonti rinnovabili difficilmente potrà andare a coprire oltre il 30% della domanda di energia, possiamo permetterci di aspettare che una nuova tecnologia ci metta a disposizione una fonte di energia “pulita” a buon mercato? Possiamo rinunciare definitivamente all’atomo o invece dovremmo accettarlo, pur sapendo che è una scelta rischiosa, costosa e (forse) poco lungimirante?
Buon compleanno mr X
Il 24 marzo di 10 anni fa, Steve Jobs presentava al pubblico la prima versione definitiva di Mac OS X, nome in codice 10.0 ”Cheetah” (ghepardo). In quell’occasione il carismatico guru di Apple invitava tutti a seguirlo e a imparare a “nuotare nell’Aqua”, alludendo al nome dell’interfaccia grafica introdotta con il nuovo sistema operativo dei computer con la Mela Mordicchiata.
In questi 10 anni Mac OS X, giunto recentemente alla versione 10.6.7 “Snow Leopard”, ha cambiato più volte look e si è enormemente arricchito di funzioni. Tuttavia ieri, guardando diverse immagini della schermata dei Mac in puro stile Aqua, con le sue inconfondibil righine grigie, le trasparenze marcate dei menù a tendina e le cornici delle applicazioni che simulavano l’alluminio spazzolato (brushed alloy), ho quasi rimpianto quella grafica dalla leggerezza fresca, quasi giocosa, nel senso che talvolta mi farebbe piacere evadere dal grigio serioso e un po’ “plasticoso” che la fa da padrone nell’attuale interfaccia del sistema operativo e delle applicazioni.
Mi è parso giusto mettere tre immagini che “raccontano” l’evoluzione di Mac OS dal 1997 (System 7.6) al 2011 (Mac OS 10.6.7), passando per il 2001 (Mac OS 10.0).
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