giovedì, febbraio 20, 2025

 

Via Gialeto e le carte false


Nel mio paese d’origine, come in altri comuni della Sardegna, c’è una via intitolata a Gialeto. In tanti anni non mi sono mai domandato chi o cosa fosse Gialeto: se uomo illustre o località meritevole d’essere ricordata nella toponomastica. Mai avrei immaginato, però, che una strada potesse essere dedicata a un personaggio inventato.

Già, perché Gialeto, condottiero sardo che sul finire del VII secolo d.C avrebbe cacciato i Bizantini dall’Isola diventando il primo Giudice-sovrano di Cagliari nonché l’artefice anche degli altri tre Giudicati della Sardegna medioevale, è esistito solo nella fantasia del frate francescano Cosimo Manca e dei complici che l’aiutarono a fabbricare, a metà Ottocento, il falso storico delle cosiddette Carte di Arborea.

Nascita di una contraffazione

La vicenda ha inizio nel 1845, quando il frate minore pattadese Cosimo Manca fa visita al caglaritano Pietro Martini, autorevole storico, politico e direttore della biblioteca universitaria di Cagliari, porgendogli un documento su pergamena scritto in una grafia antica e scolorita dal tempo al punto di risultare pressoché illeggibile.
Martini sobbalza: quel documento ha tutta l’aria di essere autentico, risalire al XIV secolo e provenire dalla cancelleria del Giudicato di Arborea durante la reggenza della giudicessa Eleonora Bas-Serra, la leggendaria eroina della resistenza all’invasione aragonese della Sardegna.

Martini, tuttavia, prende tempo: vuole che il documento sia studiato in modo scientifico. Cerca perciò il conforto del parere di altri eruditi isolani tra cui spicca Ignazio Pillito, scrivano e specialista in paleografia che lavora presso l’Archivio Comunale di Cagliari. Solo a posteriori si scoprirà che l’archivista era il braccio della macchinazione, ovvero colui che si occupava di realizzare le pergamene.

Nel giro di circa un decennio, al primo documento se ne aggiungono altri, andando a formare un corpus che spazia su vari argomenti: cronache, atti giuridici, poemi, sonetti e panegirici scritti in latino, volgare italiano e sardo medievale che Pillito, ovviamente, non ha problemi a decifrare e trascrivere.

Un miraggio troppo bello per essere vero

Nel clima romantico e nazionalista di metà Ottocento la scoperta di quell'incredibile tesoro è un’autentica bomba per vari motivi:

Le Carte di Arborea trovano il sostegno di personaggi di spicco nel regno sabaudo come Carlo Baudi di Vesme e Alberto La Marmora, che provvedono a farne pervenire copia all’Accademia delle Scienze di Torino.
Baudi di Vesme fa di più: riesce a strappare a Theodor Mommsen, storico e massima autorità mondiale in materia di filologia ed epigrafia, la promessa di analizzare le pergamene. Il responso del luminare tedesco arriva ai primi del 1870 ed è lapidario: le Carte di Arborea sono un falso.

Conseguenze

Il verdetto gela il mondo accademico isolano e piemontese che, tuttavia, accetta la sentenza senza protestare, consapevole di essere cascato con tutte le scarpe in una figuraccia di dimensioni colossali.
Mommsen mantiene il riserbo sui falsi di Arborea fino all’ottobre 1877 quando, ospite di un convegno a Cagliari, semina l’imbarazzo tra i presenti rievocando la vicenda. In più, lo storico conclude il suo intervento sostenendo in modo assai poco prudente che anche la giudicessa Eleonora d’Arborea non era altro che una leggenda.
Mal gliene incorse: un gruppo di sconosciuti lo affrontò mentre si dirigeva all’imbarco del piroscafo per fare ritorno in Germania e gli sottrasse taccuini e carteggi, facendoli a pezzi in quanto “non era degno di maneggiare argomenti che non conosceva”.

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martedì, agosto 30, 2022

 

Chi di GALSI ferisce...



Era inevitabile che, con le quotazioni del metano sul libero mercato schizzate alle stelle e il timore di un futuro prossimo di ristrettezze con i rubinetti dei metanodotti russi chiusi da Mosca, si riesumasse con rimpianto il ricordo del progetto - abortito - del gasdotto Algeria-Italia, noto come GALSI.
Nei giorni scorsi, infatti, eurodeputato eletto con la Lega ha presentato un’interrogazione per chiedere alla Commissione Europea chiarimenti in merito al GALSI, ricevendo in risposta il rabbuffo della Commissaria all’Energia, l’estone Kadri Simson, che ha avuto vita facile nel puntare il dito sull’incapacità dei governi italiani di utilizzare i 120 milioni di euro stanziati dall’Europa, non spesi e perciò tornati nel bilancio UE.

Cosa era, sulla carta, il GALSI?

Il progetto, sviluppato in partnership da Sonatrach, Edison, ENEL, Wintershall, Hera Trading, Sfirs (finanziaria della Regione Sardegna) e Snam Progetti, prevedeva la realizzazione di un gasdotto dai giacimenti nell’entroterra algerino sino a Piombino, dove il metano sarebbe stato immesso nella rete energetica nazionale.
Il percorso si sarebbe snodato per quasi 600 km attraverso condutture sottomarine e per circa 270 km in una dorsale a terra in Sardegna, con il territorio tagliato quasi in diagonale da SW (Porto Botte) a NE (Olbia).
Per il completamento dell’opera erano previsti 20 anni di lavori per un costo complessivo che stimato intorno ai 4 miliardi di €.
A pieno regime per il GALSI sarebbero fluiti 8 miliardi di metri cubi di gas metano l’anno: un contributo al fabbisogno energetico nazionale sostanzioso anche se non risolutivo, stante che i consumi annui di gas naturale in Italia sono nell’ordine di oltre 76 miliardi di mc, e in ogni caso una mossa intelligente in un’ottica di diversificazione dei fornitori.

Perché il GALSI non è decollato?

Questa è la parte più complicata del racconto. Spulciando gli articoli d’archivio risalenti a una dozzina e passa di anni fa è difficile destreggiarsi tra polemiche nimby, interrogativi legittimi, strategie idi mercato e decisioni prettamente politiche.

In discussione c’era la reale convenienza dell’opera. Le analisi di mercato, infatti, portavano a dubitare che anche nel lungo periodo le quotazioni del metano avrebbero avuto rialzi tali a rendere profittevole l’investimento; Edison, uno dei principali partner, fu la prima a mettere le mani avanti in questo senso.

Diverso è il discorso sulla vita operativa del gasdotto, legata allo stato delle riserve di idrocarburi nei giacimenti algerini. Se la stima di 25 anni prima dell’esaurimento era corretta, anche qualora fossero stati rispettati i tempi di consegna gli 8 miliardi di mc di gas sarebbero stati garantiti per un lasso di tempo di 5 anni o poco più.
Ne sarebbe valsa comunque la pena?
Sì, se si pensa alla nostra dipendenza energetica che rende attrattivi i giacimenti off-shore non ancora coltivati nell’Adriatico benché le stime sulle loro riserve di idrocarburi siano piuttosto modeste. Secondo alcuni esperti, se si sfruttassero tutti i giacimenti presenti sul territorio italiano si arriverebbe a coprire per alcuni anni circa il 10% del fabbisogno energetico in luogo dell’attuale 6% (3,3 miliardi di mc).

Ci sarebbero, poi, i controversi capitoli dell’impatto ambientale e del rapporto sacrifici/benefici per la Sardegna, non a caso gli argomenti su cui maggiormente infuriarono le polemiche.
L’attraversamento del territorio isolano avrebbe inevitabilmente comportato sacrifici notevoli in termini ambientali, di espropri e di limitazioni alle attività.
Anche prestando fede alle rassicurazioni sul ripristino ambientale presenti nel progetto, quali sarebbero state le contropartite per l’isola? Sulla carta NIENTE.
Nessuna royalty, dato che il gas sarebbe stato estratto all’estero, e non un solo mc del metano trasportato, di cui si prevedeva solamente il transito.
La metanizzazione della Sardegna, con le reti gas che tuttora coprono solo un numero irrisorio di comuni, non era un problema di competenza del GALSI. I costi - improponibili - di realizzazione degli allacci e delle diramazioni sarebbero stati, perciò, totalmente a carico delle casse comunali, consortili o regionali. Ancora di recente i vertici dell’ENEL hanno ribadito che nel futuro energetico della Sardegna non c'è posto per il metano (en passant, una manna per il GPL distribuito in bombole e bomboloni).
Era da scartare anche la possibilità di ottenere come partita di giro sconti sulle forniture alle imprese isolane energivore perché si dava per scontato che ciò avrebbe fatto scattare la mannaia dell’Unione Europea sugli "aiuti di Stato".

A torto o a ragione, pertanto, il GALSI si presentava come un progetto per molti versi solido e sensato, sfidante dal punto di vista ingegneristico ma mai del tutto convincente sotto il profilo della sostenibilità ambientale, economica e sociale. In altre parole, una mega infrastruttura difesa poco e male dagli stessi proponenti e - vista dalla Sardegna - l’ennesima servitù imposta all’isola.

Dal punto di vista politico, infine, è quanto mai probabile che il GALSI sia stato sacrificato dai governi succedutisi dal 2011 in poi un po’ per il mutato quadro economico mondiale e nazionale, con l’onda della recessione arrivata dagli USA e il debito pubblico italiano messo sotto stretta sorveglianza dall'Europa, un po’ perché, per una convergenza di interessi tra imprese e partiti, si scelse di andare al risparmio affidandosi al metano russo, conveniente e disponibile pronta cassa.

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domenica, agosto 22, 2021

 

Terapia domiciliare Covid: l’inferno e le buone intenzioni



Da qualche giorno seguo, sconcertato, il caso delle mail inviate ai medici di medicina generale sardi dal Cor.Sa, la centrale operativa regionale per il coordinamento delle attività sanitarie e sociosanitarie territoriali, “su indicazione della direzione regionale dell’assessorato alla sanità” avente per oggetto: “attivazione protocolli per terapia domiciliare Covid”.

La mail in questione suggerisce ai medici di famiglia un protocollo alternativo alle indicazioni ministeriali in caso di sospetta positività dei loro assistiti associata a sintomi lievi, tali da non rendere necessaria l’immediata ospedalizzazione.
Laddove il Ministero della Salute a fronte di un tampone positivo si limita a consigliare una terapia domiciliare a base di paracetamolo (tachipirina) al bisogno e “vigile attesa” (leggi termometro e saturimetro), il nuovo protocollo suggerisce ai medici di base di attivare un'aggressione precoce dei sintomi infiammatori mediante “presidi di provata efficacia e antibiotici associati, senza attendere l’esito del tampone”.

In buona sostanza, i suggerimenti che arrivano con l’imprimatur dell’assessorato regionale alla sanità recepiscono le istanze del “Comitato Terapia Domiciliare Covid 19”, in apparenza una rete nata spontaneamente sui social al nobile fine di mettere a disposizione consigli e prescrizioni di medici specializzati, medici di base e paramedici per il trattamento a domicilio delle forme lievi/non acute di infezione da SARS-CoV2, riducendo in questo modo la pressione sui presidi ospedalieri.

Dove sta il problema?

C’è che lo schema proposto dal Comitato Terapia Domiciliare Covid 19 contempla un arsenale di integratori vitaminici, flavonoidi (quercetina), mucolitici, antipiretici/antinfiammatori (ibuprofene), antibiotici (azitromicina), antimalarici (idrossiclorichina) e antielmintici (ivermectina) sulla cui “provata efficacia” contro il virus c’è la parola dei medici che aderiscono al Comitato contro le indicazioni del Ministero della Salute e le linee guida dell’AIFA.

C’è poi l’ambiguità di fondo nei confronti dei vaccini, formalmente non osteggiati ma verso cui si consiglia una incongrua profilassi pre-vaccinale che dovrebbe scongiurare i rischi di effetti collaterali avversi, specie in vista della inoculazione di richiamo.
C’è, infine, che completare un ciclo di terapia domiciliare comporta una spesa non indifferente a carico dell’assistito, considerato che il costo stellare di alcuni farmaci-chiave non è coperto dal SSN.

Per quanto non mi competano giudizi di tipo medico-scientifico, mi pare evidente che il Comitato Terapia Domiciliare Covid 19 si sia ritagliato uno spazio ben preciso nella contrapposizione tra scienza medica e virologia “ufficiali” e medici "dissidenti", fautori di approcci terapeutici alternativi, che trovano consensi principalmente nel variegato universo complottista e novax.

Tirando le somme c'è quanto basta per ritenere quanto meno discutibile l’apertura di credito da parte dell’assessorato regionale alla sanità.
L'assessore si difende sostenendo che con il protocollo si è solo inteso dare ai medici di famiglia uno strumento in più per fornire una terapia domiciliare adeguata ai loro assistiti, evitando di intasare gli ospedali, e che ciascun medico sarà libero di utilizzare tale risorsa “in scienza e conoscenza”.
Sarà, ma è notorio che l’inferno è lastricato di buone intenzioni.

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lunedì, luglio 23, 2018

 

La sepoltura del nobile



A volte ci si imbatte casualmente in microstorie intriganti, ma che ci lasciano presi all'amo della curiosità perché manca il seguito.
Per esempio, quella della cosiddetta "Sepoltura del nobile".

Siamo negli anni '30 del secolo scorso in una zona in aperta campagna nel territorio di Oliena (NU). Tutto intorno null’altro che oliveti, foraggere, vigneti e pascoli. L'unica presenza "storica" di rilievo è data dai ruderi del vicino villaggio nuragico di Vruncu 'e s'arvure.


Durante lavori di aratura, il vomere incontra una resistenza inattesa. Il proprietario ferma il giogo e controlla: l’aratro ha scalzato di lato e portato alla luce quella che sembra la copertura di una tomba sconosciuta, sino ad allora occultata dallo strato superficiale del terreno.

Fattosi istintivamente il segno della croce, il contadino scruta all’interno della sepoltura. Non ha intenzione di mancare di rispetto al defunto, chiunque sia, ma è curioso e magari spera nella presenza di qualche oggetto di valore che possa portare un po' di soldi in casa.
Ciò che vede lo lascia senza parole: uno scheletro che ancora indossa quelli che hanno l'aria di essere i resti di fastosi abiti nobiliari.
La visione, però, dura poco: l’esposizione all’aria e alla luce del sole distrugge e polverizza i tessuti del vestiario, lasciando in vista solo le ossa calcinate dal tempo.

La storiella gotica finisce qui: le domande sull’identità dello scheletro e sul perché una persona in apparenza altolocata sia stata sepolta in aperta campagna, dimenticata da tutti, invece che in terra consacrata non hanno risposta.
O forse le risposte ci sono, ma bisogna interpellare le persone giuste per arrivarci.

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sabato, maggio 12, 2018

 

Quando in chiesa si pregava Sant'Aronne


Della chiesa citata nel titolo non resta che un po’ di pietrame delle fondamenta a malapena distinguibile nel sottobosco. Apparteneva a un piccolo villaggio medievale, Olevani (od Olàfani), situato in una remota vallata dell’Alta Ogliastra apprezzata dai trekker perché gli impervi sentieri montani conducono a Codula di Luna e a quel paradiso marino chiamato Cala Luna.
Dell’esistenza del villaggio, estintosi tra il XII e XIII secolo per ragioni imprecisate (siccità, carestia, malattie, contrasti con altre comunità) è rimasto appena qualche brandello di notizia tramandato nella memoria orale dei paesi confinanti (Urzulei). Si narra ad esempio che Giorgio, primo vescovo di Suelli canonizzato come santo, abbia sostato a Olevani nella sua avventurosa visita pastorale (XI secolo). Si tramanda anche il nome del santo patrono cui era dedicata la chiesa del villaggio: Santu Aronau.

Come in un’indagine, un nome diventa un indizio che porta ad altro. Aronau, infatti, altri non sarebbe che l’Aronne (Aaron) dell’Antico Testamento, fratello di Mosè e Gran Sacerdote degli israeliti durante l’Esodo.

Santa Romana Chiesa annovera Aronne tra i santi e beati del calendario (festa il 1 luglio), ma anticamente il suo culto in pubblico era una sorta di concessione speciale ristretta alle famiglie ebree che si erano convertite al cristianesimo.
Per deduzione, l’elevazione a santo patrono implicherebbe una consistente presenza israelita a Olevani.

Da dove venivano questi ebrei e perché avevano scelto di vivere in un luogo tanto defilato?

L’unica fonte storica che abbia una qualche attinenza riguarda i 5.000 ebrei di Roma che l’imperatore Tiberio avrebbe fatto deportare sulla costa orientale sarda a seguito di tumulti scoppiati nella capitale.
Gli storici romani tagliano corto sulla sorte di questi infelici, spediti a fare da “cuscinetto” tra le pacifiche popolazioni latinizzate della costa e i “barbari” (barbaricini) dell’interno: sarebbero morti di stenti e di malattia a causa dell’insalubrità dei luoghi.

Per amore di ipotesi, se si volesse credere a una discendenza ebraica tanto prolifica e tenace da perpetuarsi per un millennio, ciò significherebbe che i deportati non erano solo di sesso maschile o che la deportazione abbia coinvolto interi nuclei familiari, dato che l’appartenenza al popolo ebraico si trasmette solo per via matrilineare. Si dovrebbe ipotizzare, inoltre, che la conversione al cristianesimo, avvenuta in epoca imprecisata, non avesse cancellato la consapevolezza delle radici ebraiche.

La presenza di piccole, ma influenti comunità ebraiche nei poverissimi villaggi dell’Ogliastra almeno fino alla messa al bando imposta dai cristianissimi re di Spagna è sempre stata un argomento a metà tra la speculazione di antropologia culturale e la leggenda a causa della totale assenza di documentazione.
La scoperta del culto tributato a Sant’Aronau non sposta gli equilibri, ma d’altra parte il mistero e le domande insolute sono parte integrante del fascino del Medioevo.

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domenica, aprile 22, 2018

 

Missing a bro'





È difficile scrivere di persone che conosci, ancora di più se si tratta di persone cui hai voluto un gran bene e non sono più di questo mondo. Eppure ho bisogno di scriverne per far scivolare la pena, l’oscuro senso di rimorso e per elaborare il senso di perdita.

Ho perso il migliore amico di una vita.

Potrei dire che l’ho perso diversi anni fa perdendolo di vista, come succede non solo per via della lontananza ma anche per quella sorta di pudore che porta a rispettare gli spazi e la riservatezza altrui. Non lo si sarebbe detto, con quella corporatura massiccia, l’espressione severa e la battuta arguta sempre in canna, ma Pierluigi era una persona sensibile, orgogliosa e riservata.

Ricordo ancora la prima volta che lo incrociai per strada. Era una calda mattinata d’inizio settembre, il giorno seguente sarebbe iniziata ufficialmente l’avventura del Ginnasio ed ero di ritorno in paese da una passeggiata verso il Bivio Carmine.
In direzione opposta vidi salire due coetanei mai visti prima che parlottavano tra loro: uno mingherlino con la faccia scaltra e l’altro che sembrava un assiduo frequentatore di palestre.
La prima impressione non fu molto positiva. Quei due potevano essere degli attaccabrighe - pensai - con il piccolo nei panni della mente e quello grosso in quelli del forzuto dall'intelligenza limitata. Finì che ci ritrovammo nella stessa classe e che Pierluigi si dimostrò un ragazzo calmo, educato, con un gran senso dell'ironia e dell'autoironia e con interessi non proprio comuni per i quattordicenni dell'epoca come il body building, i rapaci e le specie in via di estinzione.

Il passaggio da meri compagni di classe, superficialmente in buoni rapporti, ad amici avvenne al liceo e nell’anno della maturità.
All’interno della classe, un gruppetto aveva iniziato a passare insieme il tempo anche fuori dell’orario scolastico per studiare, ma non solo. Ci univa la sensazione di essere alle porte della nostra vita di adulti; ci spalleggiavamo, ci scambiavamo sogni, speranze e timori un po’ come nella canzone di Venditti “Notte prima degli esami”.
Pierluigi si mise con Annamaria, una compagna di classe che viveva in un appartamentino in affitto in paese e che sarebbe stata la sua compagna di vita da allora in poi.

All’università, Pierluigi e Annamaria si iscrissero alla facoltà di medicina e chirurgia e io a quella di giurisprudenza. Sembravamo destinati a perderci di vista: giri diversi, impegni diversi, la loro intimità di coppia che imponeva rispetto e discrezione.
Invece fu proprio allora che la generosità e la disponibilità di Pierluigi vennero fuori e l’amicizia tra noi divenne un punto fermo.
Specialmente dopo che mi staccai da Comunione e Liberazione e intorno a me crollò la rete sociale su cui avevo fatto affidamento, andare a trovare di tanto in tanto Pierluigi e Annamaria nel dopocena divenne un rito estremamente piacevole e rasserenante. Poteva capitare che mi trattenessi a parlare con Pierluigi sino a notte fonda perché lui sapeva come prendermi, o forse sarebbe più corretto dire sopportarmi. Tra noi c’era estrema facilità di discorso, complicità, scambio arricchente di esperienze, interessi, curiosità e cortesie.

C’era un unico argomento implicitamente tabù: gli esami universitari. Sapevo che sia Pierluigi sia Annamaria si erano impantanati ai primi esami e che questo pesava loro molto anche per le scontate ripercussioni nei rapporti con le rispettive famiglie.
Con il senno di poi, posso solo immaginare che quell’esperienza fallimentare sia stata un tarlo che ha scavato in profondità nell’autostima di Pierluigi. Aver “sprecato” quell’opportunità di studio non solo l’aveva costretto a rivedere al ribasso le sue ambizioni, ma era anche il peso umiliante di dover ancora dipendere economicamente dai suoi e di essersi dimostrato non all’altezza della fiducia riposta in lui.
Si dava da fare in ogni modo; era sempre disponibile a dare una mano nei lavori in campagna dai suoi e dai genitori di Annamaria, ma tutto questo, evidentemente, era solo un ripiego temporaneo e insoddisfacente.

Continuammo a frequentarci anche dopo la mia laurea. Quando poi, trasferitomi a Milano, decisi di sposarmi fu per me del tutto naturale scegliere Pierluigi come “best man”.
Gradualmente, però, i nostri rapporti divennero sempre più rarefatti e saltuari, le reticenze sul suo presente più ampie. Di internet e dei social neanche a parlarne. Tuttavia quando ci si trovava, in Sardegna, era come se non ci fossimo mai persi di vista e, dentro di me, lui continuava a essere una presenza certa.

E si arriva al presente, inaspettato e doloroso.

Un messaggio da parte di mio fratello m’informa di aver avuto la conferma di una voce giunta casualmente da una fonte poco attendibile: Pierluigi era morto a metà marzo.
Incredulità, sconcerto, dolore lancinante. Com’era stato possibile che una cosa così enorme fosse passata sotto silenzio? Perché? Cos'era successo?

La ragione è venuta a galla con pudore: Pierluigi si è suicidato, a quanto pare al culmine di un periodo depressivo, e ora riposa nel cimitero del suo paese. La famiglia ha gestito il lutto nel massimo riserbo.

Avrei potuto fare qualcosa per evitare questo epilogo? Avrei potuto essergli vicino invece di limitarmi a pensare come sarebbe stato bello incontrarlo nuovamente e parlare come ai vecchi tempi?
E Annamaria? Prima o poi riuscirò a parlare con lei, anche se onestamente non so cosa mai potrò dirle che non sia dannatamente inutile.

Pierluigi era una bella persona, quasi un fratello per me, e il mondo mi sembra più vuoto e solitario senza la nostra amicizia.

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sabato, aprile 29, 2017

 

Il lato non affilato della memoria





Ieri notte ho avuto notizie di una persona persa di vista quasi 40 anni fa: una bella persona conosciuta per poco tempo, ma di cui serbavo un bel ricordo.
Mi ero sempre ripromesso di informarmi ma, data la lontananza, il lunghissimo silenzio e la complicazione di non essere compaesani, non sapevo come farlo con la dovuta discrezione, senza infastidire o generare inutili incomprensioni.

Per me la fregatura sta nel fatto che, nella memoria, le amicizie con cui non ho più contatti restano esattamente come le ho lasciate: gli anni, le rughe e i capelli grigi, i matrimoni riusciti o deragliati, i figli e i problemi di salute sono tutte esperienze con cui non devono fare i conti, anche se sono perfettamente consapevole che si tratta di un artificio, una costruzione mentale, qualcosa di totalmente irreale.

Tornando a bomba, per farla breve ho saputo che questa persona così solare, simpatica e alla mano è morta circa 8 anni fa.
Il diabete, che già condizionava la sua vita quando la conobbi, se l'è portata via scavandola lentamente e silenziosamente, goccia a goccia, saccheggiando i suoi talenti un pezzo per volta.
Non so come spiegare cosa ho provato venendo a sapere che era morta da tempo: è stato come riaffacciarsi in una stanza della casa in cui si è cresciuti e trovarla vuota, in rovina, polverosa e silenziosa.

Non me la sono sentita di chiedere maggiori ragguagli sulla sua vita: sarebbe stato fuori luogo mettere in imbarazzo il mio interlocutore con domande indiscrete e personali, in ogni caso irrilevanti. Preferisco tenermi il calore del ricordo di un'amicizia adolescenziale e immaginare che la persona che conobbi abbia avuto la vita piena, negli affetti, nel lavoro e nel sociale, che meritava.

La memoria è un'arma a doppio taglio, ma qualche volta si ha la possibilità di scegliere la parte non affilata.

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lunedì, settembre 14, 2015

 

Messaggi nella bottiglia messi in piazza



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È piovuto così, corredato di foto in giacca e cravatta molto anni '70, lo stupefacente annuncio a scopo matrimoniale ancora fresco di pubblicazione sulla timeline di un gruppo Facebook che seguo.

Nel suo essere allo stesso tempo inaspettato, anacronistico e inappropriato, quest'annuncio francamente mi spiazza. Infierire sarebbe sin troppo facile, ma anche ingeneroso e irrispettoso nei confronti di uno sconosciuto, di un ospite che si è reso vulnerabile al pubblico dileggio.

Ci sarebbe altro da dire sull'uso quanto meno approssimativo dei social media e da eccepire sullo stereotipo della donna sarda come angelo del focolare, ma al momento provo soprattutto tristezza e irritazione, quasi fossi stato io a mettere in piazza la mia solitudine.

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giovedì, luglio 02, 2015

 

Condizionamenti



waterFlegetonte sta picchiando duro: traspirazione a 1000 malgrado il ventilatore acceso non-stop e, ovviamente, grande consumo d'acqua per reidratarsi.

Ed è proprio il ricorso più frequente al rubinetto che mi ha fatto pensare a quanto siano profondi e duraturi i condizionamenti acquisiti: nello specifico, quello del razionamento idrico.

Ancora oggi, dopo oltre 20 anni di permanenza in Lombardia, quando apro il rubinetto del lavello o del lavandino una parte di me teme che il getto si riduca rapidamente a un gocciolio e che dalle tubature arrivi il risucchio gorgogliante delle bolle d'aria.
È stato decisamente più facile liberarsi dell'abitudine di acquistare i fardelli di acqua minerale al supermercato che togliersi l'incubo dell'acqua di rete erogata solo poche ore al giorno.

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giovedì, febbraio 26, 2015

 

Random bombing




Mercoledì 17 febbraio 1943 due stormi di bombardieri medi statunitensi B-25 “Mitchell” decollati dall’Algeria fecero rotta verso l’aeroporto militare di Villacidro, dove erano di stanza caccia e bombardieri italiani e tedeschi, per “neutralizzarlo”.

I bombardieri al 17º Bomb Wing arrivarono sul bersaglio, ma rinunciarono a sganciare a causa delle pessime condizioni di visibilità.
I bombardieri del 310º Bomb Group, invece, mancarono l’obiettivo finendo per errore una dozzina di km a nord, nella zona collinare su cui sorge il paese di Gonnosfanadiga.
Forse mal interpretando le coordinate e la loro posizione, lo stormo attaccò il paese indifeso sganciando il carico di bombe a frammentazione ed effettuando mitragliamenti a bassa quota.
bombing Gonnosfanadiga WWII
L’incursione avvenne nel primo pomeriggio (intorno alle 15.00) cogliendo totalmente alla sprovvista la popolazione di Gonnosfanadiga.
Le bombe caddero nel centro nel paese e nelle strade principali. L’effetto delle schegge metalliche liberate dagli ordigni fu devastante: 83 persone morirono e altre 98, in gran parte donne e bambini, subirono ferite e mutilazioni.
Trattandosi di un paesone agricolo, privo di qualsivoglia installazione di interesse bellico o strategico, l’errore di valutazione di chi comandava lo stormo fu marchiano e difficilmente scusabile.

Questa pagina ingloriosa è stata rimossa dalla memoria dei comandi Alleati e dalla storia del 310º Bomb Group, più volte decorato per le azioni portate a termine con successo in Nord Africa e in Italia durante la WWII.

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Wednesday, February 17th, 1943 two formations of USAF B-25 "Mitchell" medium bombers took off from Algeria flying en route to the military airport of Villacidro (Southern Sardinia) to "neutralize it”.

The bombers of the 17th Bomb Wing arrived on target, but gave up to drop bombs due to poor visibility conditions.
The bombers of 310th Bomb Group, instead, missed the target ending by error about a dozen miles north, on the hills on which stands the town of Gonnosfanadiga.
Perhaps misinterpreting the coordinates and their position, the group attacked the defenseless town dropping the load of cluster bombs and carrying out strafing.

The raid took place in the early afternoon (around 3:00 PM) seizing totally off guard the population of Gonnosfanadiga.
The bombs fell downtown and in some of the broader streets. The effect of metal splinters was devastating: 83 people died and 98 others, mostly women and children, were badly injured.
Gonnosfanadiga was - and still is - a rural town, without any installation of military or strategic interest, then the error of assessment of who commanded the bomb group was ignominious and hardly excusable.

This inglorious page has been removed without any excuse by the Allies and from the history of 310th Bomb Group, repeatedly decorated for many successfully completed actions in North Africa and Italy during WWII

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lunedì, febbraio 02, 2015

 

La storia è anche questione di prospettive, da rivedere




Sardinia and history

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lunedì, novembre 17, 2014

 

Zona interdetta



Zona Franca Integrale: game over?

Agli entusiasti della base sembrava cosa fatta: questione di giorni se non di ore. Invece, la spallata finale per entrare trionfalmente nelle sconfinate praterie della Zona Franca Integrale prevista entro l'estate scorsa è stata congelata sine die.
Come un elastico teso al massimo, la spinta del movimento guidato dalla dottoressa Randaccio e dall’avvocato Scifo si è arrestata nel momento stesso in cui, per un’illusione ottica elettorale alimentata dall'appoggio del governatore uscente Cappellacci, la meta è sembrata a un passo dall'essere raggiunta.
Ritraendosi, l’elastico ha brutalmente rispedito i supporter della Zona Franca Integrale al punto di partenza non prima, però, di aver depositato alcuni candidati sui banchi dell’opposizione in consiglio regionale.

Forse è ancora presto per parlare di riflusso: certo è che la rivendicazione di una Zona Franca Integrale per la Sardegna ha seguito un percorso simile a quello del Movimento dei Forconi: bolle cresciute impetuosamente e di colpo implose in un nulla di fatto.
La “chiamata alle armi” della primavera scorsa nel nome di una fiscalità di vantaggio estesa a tutti i residenti in Sardegna oggi appare un ricordo immalinconito di cui si parla malvolentieri. D’altra parte, vedere quella che sembrava la madre di tutte le battaglie sovraniste ridotta a nave corsara sigillata in una bottiglia e chiusa in qualche cassetto della politica regionale è uno spettacolo poco edificante anche per chi, come me, era dichiaratamente scettico.
Tanto per completare l’opera, nei giorni scorsi sono comparse le prime serie crepe ai vertici del movimento Zona Franca che lasciano pensare a scialuppe calate in mare.

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giovedì, marzo 27, 2014

 

Il prezzo del sangue


St micheleA distanza di quasi un mese eccomi nuovamente a scrivere del mio paese di origine, balzato suo malgrado agli onori della cronaca per le circostanze in cui è morto Roberto Aresu, noto Birullo, ex rivenditore di automobili non ancora cinquantenne ucciso martedì mattina dalla deflagrazione di una carica di esplosivo collegata all’accensione della sua autovettura.

Un’esecuzione in piena regola, dunque, pianificata ed eseguita con freddezza nello stile tipico della criminalità organizzata.
La vittima aveva sì pendenze giudiziarie legate a un’inchiesta su un giro di truffe, ma niente che lo candidasse a bersaglio di una "punizione" tanto eclatante e feroce.
Proprio le modalità inusuali del delitto, insieme alla consapevolezza che solo circostanze fortuite hanno fatto sì che l’esplosione non avesse un bilancio finale ancora peggiore, hanno gettato il paese nello sgomento.

Ancora una volta, esattamente come nel maledetto ferragosto di sangue del 1972, è stata squarciata e messa a nudo la fragilità di un’irragionevole sicurezza: quella di Lanusei oasi (quasi) inviolabile di tranquillità dove, al massimo, si può morire di noia perché “tanto non succede mai niente”.

Senza voler essere irriverente, purtroppo non c’è alcun Arcangelo Michele che veglia alle porte di Lanusei per sbarrare il passo alle fiammate di violenza e al malessere che serpeggia da anni in Ogliastra, estrema periferia al collasso di una Sardegna economicamente in disarmo.
Da una parte, il boato assordante del tritolo non ha fatto precipitare Lanusei dal purgatorio di una decadenza dignitosa e ancora a misura d'uomo all’inferno dell’invivibilità, del sospetto e della paura.
Dall'altra, la morte di Roberto Aresu ha spezzato l'incantesimo, l'illusione che il male restasse a distanza di sicurezza e che la triste contabilità degli omicidi commessi nelle campagne, dei bossoli recapitati nei plichi, delle auto incendiate, delle vigne e degli uliveti devastati, delle rapine agli uffici postali e ai furgoni portavalori potesse solo sfiorare il paese.

La ferita, il lutto e il timore saranno metabolizzati e la quotidianità, con tutti i suoi problemi, tornerà ad avere il sopravvento non per un surplus di cinismo, ma perché così è la vita.
Per tornare a una normalità con i piedi per terra, però, servirà tempo e lo sforzo dei miei compaesani nel risaldare le fila, recuperando una coesione di comunità che forse è stata data per scontata mentre si era sfilacciata, svuotandosi come le strade del centro.
Al momento questa mi sembra la sola risposta perché i Lanuseini non si ritrovino a sospirare sfogliando album di fotografie ingiallite.

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venerdì, febbraio 28, 2014

 

Obituary calls



Ci sono piccole cose che ti segnano il tempo. Disseminate con apparente casualità, stanno lì a dimostrarti che sì, stai invecchiando, e senza neanche passare per l’anticamera della saggezza.
C’è, ad esempio, quell’accentuarsi del pessimismo che ti fa storcere il naso dinanzi a un governo nazionale appena nato in cui scorgi il perpetuarsi, al di là delle sigle di partito, del marketing politico autoreferenziale degli ultimi 20 anni nonché l’apoteosi di quella comunicazione che privilegia la forma sulla sostanza, il contenitore sul contenuto e la narrazione sull’ideazione.

Ma ancor di più ti accorgi del tempo che passa, inesorabile, da certe telefonate in teleselezione che prendono una piega, per così dire, “obituaria”.
angry phonecall
«Pronto? »
«Ueeeeee! Marce’!!»
«Oooh, ciao! come state?»
«Non c’è male, insomma. Zoppico da tre giorni, Xxxxxx è a letto con la bronchite, Yyyyyy dovrebbe fare una visita oculistica...»
«Andiamo bene!!!»
«Eeeh... sai com’è. Piuttosto, hai presente Tizio
«Mmm... Aspe’... Sì!»
«È morto. Hanno fatto il funerale l’altro ieri»
«Taddannu! E non era neanche così anziano»
«Scherzi?!? La buonanima aveva 87 anni. Stava male già da un po’»
«Ah! Poveretto»
«E di tzia Caia ti ricordi?»>
«Non mi dire che pure lei...»
«No no... è ricoverata in ospedale: femore rotto»
«Merda, ma come è successo?»
«Pare un capogiro mentre scendeva dalle scale. Sai chi altro è morto da poco?»
«...»


Il mio mondo perde pezzi e somiglia sempre più alla pagina dei necrologi: ca@@o.

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sabato, febbraio 08, 2014

 

Radici



Che perda cravada intr ‘e su coru
s'ammentu ‘e tie est dolu ki non sanat

panorama lanusei scomposto

Del posto in cui si nasce non si riesce quasi mai a dire qualcosa di nuovo, di sapido e di profondo che vada oltre la banalità del risaputo o della parafrasi di qualche fonte abusata.
Nel mio caso, poi, si aggiunge l’amarognola consapevolezza di una membrana di estraneità mai venuta meno, come se io e il mio paese di origine - Lanusei - ci fossimo studiati per anni mantenendo le distanze.

A un’analisi razionale, persino la mozione degli affetti e l’orgoglio nel proclamarmi, in ordine decrescente di importanza “Lanuseino, Ogliastrino, Sardo, Italiano, cittadino del mondo” si rivelano per ciò che sono: il bisogno di ancorare a una narrazione più grande la definizione del sé e la volontà ostinata di appartenere a una storia che non m'appartiene più.

Lanusei è l’ambivalenza della memoria che ricama sui ricordi piacevoli, alterandoli affinché siano più dolci e struggenti, mentre sigilla quelli scomodi nella luna nera dell’inconscio con il loro carico di schegge taglienti d'incomunicabilità, disprezzo, derisione, senso di alienazione e lutto.

Lanusei è una ferita che non rimargina. Lanusei è una spina nel fianco che non smette di dolere; è il battito del cuore che viene a mancare ogni volta che penso alla resa al fatalismo della mia famiglia d’origine e a quel poco che resta del mio passato già destinato all’oblio.

Quando sono partito per andare a lavorare non pensavo che sarei rimasto lontano tanto a lungo. Senza alcuna vergogna ammetto, però, che mi sentivo sollevato dall’angoscia di non trovare spazio per realizzarmi e dare un senso a quell’accozzaglia di interessi enciclopedici che, messi insieme, non facevano una professione spendibile in paese.

A Milano mi lega unicamente il lavoro, anche se troverei difficile rinunciare ai suoi ritmi, alle sue risorse e a certe sue comodità. Non si tratta d'ingratitudine: nemmeno quando ho messo su famiglia ho smesso del tutto di sognare un ritorno a casa che non fosse forzato, a capo chino o con i piedi in avanti.
Forse c’è un po’ di spirito di rivalsa in questo sogno tenuto nel cassetto, ma preferisco pensare che sia voglia di serenità, di ritrovare quella parte di me rimasta ad ammirare il panorama in cima a pissicuccu.

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sabato, novembre 30, 2013

 

Infima astuzia o grossolana ignoranza?


blog di Vittorio ZaniniNon meriterebbe attenzione alcuna il blogger residente nell’Appennino bolognese che, prendendo spunto dalle vittime dell’alluvione in Sardegna, ha pensato bene di rimestare nei peggiori luoghi comuni e nei più biechi insulti a sfondo razzista per confezionare una tonante e livorosa invettiva contro i sardi.

La collezione di accuse generalizzate e di affermazioni infamanti del tutto gratuite induce a pensare che il blogger abbia cognizioni appena superficiali, approssimative e per stereotipi della realtà sarda, ma soprattutto che consideri i sardi alla stregua di una fastidiosa colonia di parassiti che, oltre a infettare e devastare l’isola, succhia risorse preziose all’economia italiana.
Pertanto, la Sardegna sarebbe un paradiso se solo i sardi non fossero mai esistiti, ma poiché - purtroppo - esistono, sarebbe una liberazione se decidessero di tagliare i ponti con l’Italia e andassero alla deriva nel Mediterraneo per i fatti loro.

La requisitoria del blogger si commenta da sola. Il punto è capire il perché di una simile colata di disprezzo.

Forse è proprio vero che sotto la patina di ipocrisia, buoni sentimenti ed educazione noi italiani siamo ancora irriducibilmente e ottusamente tribali, campanilisti, tendenzialmente ostili verso qualsiasi "forestiero" come ai tempi in cui, al Nord, qualcuno esponeva in vetrina il cartello "vietato l'ingresso ai cani e ai meridionali/ai sardi". Oggi l'attenzione si è spostata verso gli immigrati, come dimostra ampiamente il tasso di intolleranza e di ferocia verbale dei commenti sui social network ogni qual volta si sfiori l’argomento, ma in memoria restano sempre le vecchie etichette spregiative da applicare a calabresi, siciliani, napoletani/campani, romani e sardi.
Questo non spiega, tuttavia, le ragioni di un attacco frontale ai sardi giunto a distanza di giorni dall’alluvione e, per giunta, anomalo rispetto alle tematiche dominanti del blog.
Resta aperto, perciò, il dubbio se sia stata un’inconsulta esplosione di astiosità e di ignoranza o, quel che sarebbe peggio, una squallida provocazione in puro stile troll studiata a tavolino per conquistare un quarto d’ora di visibilità.

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domenica, settembre 15, 2013

 

Zona Francamente Inconsistente



Zona Franca Integrale

Non ho alcun interesse specifico a schierarmi nella disputa sulla cosiddetta Zona Franca Integrale per la Sardegna. Anzi, a conti fatti schierarsi - soprattutto sul Web - significa cercare guai, data la crescente inclinazione di chi popola i social network a passare direttamente all’insulto, alla minaccia e al rogo in effige senza prendersi il disturbo di argomentare il dissenso verso le opinioni sgradite.
Tuttavia mi dispiace, e lo dico sinceramente, che molti si spendano con entusiasmo e generosità per una battaglia spacciata per l’accesso alla Terra Promessa e la panacea di tutti i problemi della Sardegna, mentre le basi giuridiche ed economiche appaiono fragili e fumose al punto di sembrare una fuga nell’immaginario.

Se le cose andranno come penso, non ci sarà nessuno abbastanza onesto da rivolgersi pubblicamente a questa base di attivisti ammettendo: “Scusate, abbiamo sbagliato”. Temo invece che la Zona Franca Integrale andrà a fare compagnia ai protocolli di cura rigettati, alle scie chimiche e ai chip sottocutanei di controllo nel repertorio della “informazione alternativa” come esempio di grande opportunità sfumata per il complotto demo-pluto-giudaico-massonico dei soliti poteri forti assecondati da politici sardi prezzolati.

Cerco ora di spiegare di cosa sto parlando. I fautori della Zona Franca Integrale vogliono l’estensione all’intero territorio regionale della Sardegna del regime di extradoganalità previsto per i porti e i punti franchi, ovverosia zone che fanno parte del territorio di uno Stato, ma sono considerate fuori dei suoi confini doganali e, perciò, esentate dall’applicazione di dazi doganali, IVA e accise su prodotti e servizi.

Che io sappia, in Italia esistono due località in cui si applica da tempo la Zona Franca: Livigno e l’exclave di Campione d’Italia. Altre due zone potrebbero beneficiarne, ma hanno preferito ottenere dallo Stato forme di fiscalità di vantaggio di altro genere: la Val d’Aosta (per Statuto Regionale) e il territorio di Gorizia.
A livello europeo, invece, gli esempi di Zona Franca applicata sono gli arcipelaghi delle Canarie e delle Azzorre e i territori francesi d’oltremare.
L’evidente ragion d’essere delle Zone Franche è compensare, attraverso un regime fiscale speciale, la penalizzazione dovuta a una collocazione geografica ultra-periferica e disagiata, promuovendo l’allineamento delle economie locali a quelle degli Stati di appartenenza e prevenendo lo spopolamento.
Senza questi oggettivi e riconosciuti presupposti di svantaggio, l’Unione Europea non è propensa a dare semaforo verde all’istituzione di nuove Zone Franche, classificandole come inammissibili “Aiuti di Stato”. Non a caso, l’istruttoria di Bruxelles sulla Zona Franca di Livigno è stata chiusa perché il regime extradoganale è applicato su un ambito territoriale talmente ristretto e isolato da non creare apprezzabili fenomeni di distorsione del mercato.

Problema numero 1: la Sardegna rientra nei parametri comunitari per ottenere lo status di Zona Franca integrale?
In linea di principio, l’insularità della Sardegna è indiscutibile, così come è oggettivo lo svantaggio competitivo delle merci prodotte sull’isola. Inoltre, sin dai trattati istitutivi della CEE uno degli obiettivi di fondo che l’Europa si è data è quello di ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni e il ritardo di quelle più svantaggiate e insulari.

Sta di fatto, però, che anche in sede di revisione del regolamento attuativo del codice dogale comunitario, avvenuta pochi mesi fa, la Sardegna non è nominata tra i territori esenti dai dazi doganali.
Dimenticanza? Tradimento? Complotto?
Forse sarebbe più giusto parlare di ignavia - antica e recente - a livello regionale, dato che l’istituzione di punti franchi è prevista dall’articolo 12, comma secondo, dello Statuto regionale approvato con Legge Costituzionale nel lontano 1948. Per inciso, il primo comma stabilisce la competenza esclusiva dello Stato in materia di regime doganale.
Inoltre, in attuazione dell’articolo 12 dello Statuto, il Decreto Legislativo 10 marzo 1998 n.75 dispone l’istituzione in Sardegna ”di zone franche nei porti di Cagliari, Olbia, Oristano, Porto Torres, Portovesme e Arbatax, nonché in altri porti e aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili. La delimitazione territoriale delle zone franche e la determinazione di ogni altra disposizione necessaria per la loro operatività viene effettuata, su proposta della regione, con separati decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”.

E qui viene il bello.
Sebbene io abbia abbandonato da oltre un ventennio gli studi giuridici, trovo fumosa e difficile da difendere l’interpretazione estensiva degli articoli citati fatta dai sostenitori della Zona Franca Integrale, secondo cui la Sardegna vanterebbe dal 1948, e tanto più dal 1998, un diritto all’extradoganalità per il 100% del suo territorio.
Si vorrebbe che la perimetrazione dei porti franchi e delle aree industriali a essi funzionalmente collegate o collegabili sia il grimaldello logico-giuridico per quest’operazione di copertura integrale. Per quanto mi riguarda, in punta di diritto la trasformazione implicita dei porti franchi in isola franca mi sa tanto di “credevo fosse amore, invece era un calesse”.
Inoltre, anche seguendo lo schema previsto dal decreto legislativo del ’98 è poco plausibile che il governo nazionale appoggi l’istituzione di una Zona Franca su scala regionale non fosse altro perché sarebbe come gettare un cerino acceso nella polveriera dei rapporti Stato-Regioni e sulla più che precaria stabilità dei conti pubblici.

In ogni caso le chiacchiere in libertà sono state tante, gli annunci roboanti pure, ma i fatti dicono che l’Europa tra pochissimo chiuderà a chiave il fascicolo delle zone franche e la Sardegna resterà al palo.

Quesito numero due: ammettiamo per ipotesi che la Regione abbia proposto, il governo nazionale acconsenta e l’Europa sia disponibile a fare buon viso a cattivo gioco. La Zona Franca Integrale è davvero la cura miracolosa contro il declino e la desertificazione della Sardegna?

La visione suggestiva propagandata dai promotori della Zona Franca Integrale è il cartello dei prezzi alle pompe di benzina, gli scaffali che traboccano di merci a prezzi da sballo, i casinò in stile Las Vegas e le imprese che bussano alla porta per investire e dare occupazione.
Si tratta, però, di una “cartolina” ampiamente ipotetica, perché ciò che funziona a Livigno o a Campione non è detto che sia replicabile su scala molto più vasta.
La ragione sta nel fatto che la Zona Franca Integrale non è sinonimo di paradiso fiscale alla San Marino o isole Cayman e, da sola, non basta ad attirare investimenti internazionali e creare nuovi posti di lavoro. I maggiori benefici del regime extradoganale consentito dalla UE, infatti, ricadono sulle imprese che fanno export su export come quelle che movimentano container nel Porto Canale di Cagliari.
Per vincere la concorrenza di Paesi come Turchia, Serbia, Montenegro, Croazia e Slovenia, che possono mettere sul piatto sgravi fiscali importanti e un costo del lavoro quasi irrisorio, occorre affiancare la Zona Franca con robusti incentivi da parte della Regione e dello Stato.
Ergo, ogni posto di lavoro creato dalla Zona Franca avrà un costo aggiuntivo semi-occulto a carico dei contribuenti, con tutto ciò che ne consegue in termini di stabilità e di sostenibilità economica.

Non dimentichiamo un altro dettaglio: con l’eventuale avvento della Zona Franca Integrale, la Regione Sardegna dovrebbe raddoppiare l’attenzione sulla tenuta del proprio bilancio perché i 9/10 del gettito IVA generato sul territorio regionale che oggi lo Stato deve ritrasferire ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto regionale si ridurrebbero a un magro rivoletto.
A tutti questi inconvenienti, tuttavia, si potrebbe ovviare qualora la ZFI fosse realmente in grado di fare da volano a una robusta crescita dell’economia sarda.

Ok, fin qui le mie obiezioni di principio. Tralascio quelle legate al goffo intervento di un noto personaggio pubblico in cerca di maquillage all’immagine perché trattasi di soggetto notoriamente capace di provocare danni anche quando non prende iniziative.

Resta però il fatto che no ci si può limitare a dire NO schizzinosi, a difendere l’indifendibile classe dirigente sarda che in 60 anni si è baloccata in chiacchiere e nella spartizione di feudi, prebende e fondi pubblici, ad assistere inerti all’impoverimento e alla disgregazione di un’isola lasciata senza futuro, da cui chi può emigra.
Il merito dei promotori di Zona Franca Integrale è aver rimesso al centro dell’attenzione le questioni dell’isola che si sta spopolando e dell’insufficiente attuazione di misure di fiscalità di vantaggio e dei porti franchi.
Su questi argomenti chiunque reggerà le sorti della Regione Autonoma della Sardegna dopo le prossime elezioni amministrative dovrà misurarsi e dare risposte, possibilmente con i fatti.

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domenica, luglio 07, 2013

 

Considerazioni frullate


Enrico il Temporeggiatore
Enrico letta

Non che ci si aspettasse chissà quali fuochi d’artificio, ma se il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta doveva segnare in qualche modo la riscossa della politica che fa politica, beh, siamo nel pieno del peggiore mezzogiorno di vuoto che si ricordi dai tempi dei monocolore “balneari” dei primi anni ’70.

Letta & Co. prendono tempo, rimandano, posticipano scadenze mentre sembrano darsi da fare sul motore sempre più ingolfato dell’Italia in crisi, ma l’impressione è che si sia davvero alla pantomima finale prima che il sipario cali su un Paese in bancarotta, clinicamente morto.


Sardegna bella e impossibile

Se la situazione del trasporto pubblico in Italia pare avviata a una progressiva, inarrestabile involuzione, la Sardegna si trova in una condizione di strangolamento che la sta relegando sempre più ai margini del flusso turistico e che penalizza il già depresso scambio di merci da e per la Penisola.

Ferryboat
Il mondo è cambiato davvero parecchio da quando i traghetti erano il mezzo di gran lunga più popolare ed economico per spostarsi tra le due sponde del Tirreno.
Oggi forse la qualità del viaggio via mare è migliorata rispetto alle “carrette” di 30 anni fa, traboccanti di viaggiatori che bivaccavano alla meno peggio sulle poltrone dei bar e sui pavimenti di corridoi e pianerottoli, tra toilette che diventavano impraticabili e irrespirabili poche ore dopo la partenza e sistemazioni di 2a classe su cui è meglio sorvolare.
Però i prezzi per una traversata che varia dalle 11 alle 14 ore, (Genova-Olbia e Genova-Porto Torres), sono diventati roba da crociera.
Anche senza cercare i soliti picchi di alta stagione, i cari armatori che da un annetto a questa parte hanno il monopolio delle rotte sono diventati carissimi con tariffe che, comprensive di cabina e trasporto di una utilitaria, si fumano da poco meno di 500 a oltre 900 euro, peraltro con differenze tra scalo e scalo che non hanno una logica evidente.

Si dirà che si paga il lusso di trasportare la propria autovettura. Chi va in vacanza con coniuge e figli al seguito e conosce la rete viaria sarda, però, sa che sull’isola l’automobile è tutto tranne che un optional, così come lo sanno bene anche le agenzie di noleggio auto che, simpaticamente, sull’isola praticano tariffe maggiorate fino al 50% rispetto ad altre regioni d’Italia.
Tirare il collo alla gallina o spremere il limone fino all’ultima goccia non è mai stata una politica saggia, ma tanto nessuno dice niente.


Un insulto esemplare
John montagu 4th earl of sandwich e1279983162473

Lo scambio al veleno tra Sir John Montagu e l’attore Samuel Foote è una vera chicca che fa impallidire gli insulti dozzinali e le sguaiate dichiarazioni di certe assolute nullità elette al parlamento italiano.

John Montagu (1718-1792), quarto Conte di Sandwich (sì, proprio quello del panino imbottito n.d.r.) e Primo Lord dell'Ammiragliato sotto il re Giorgio III, era noto per la sua corruzione, cattiva gestione e, soprattutto, per l'inclinazione patologica al gioco d'azzardo. Il nobiluomo inglese era così dipendente dalle carte da andare da pub in pub e da club in club, a Londra, in vere e proprie maratone di gioco d'azzardo che proseguivano per giorni interi, senza interruzioni neanche per mangiare poiché il tempo trascorso lontano dal tavolo verde era, a suo parere, tempo sprecato.
Come molti appartenenti a una casta prima e dopo di lui, Montagu era tanto indulgente verso se stesso in privato quanto arci-conservatore e moralista in pubblico.
Montagu: “Mi sono chiesto spesso, Foote, quale catastrofe la spedirà prima all’altro mondo, se la sifilide o la forca
Foote: “Milord, ciò dipenderà da una di queste due circostanze: che io abbracci la vostra amante oppure i vostri principi

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venerdì, dicembre 07, 2012

 

Aromi perduti


Sin da bambino il giardino di zia Lina (madrina di mio padre) era per me un piccolo, ombroso eden botanico, fascinoso e inaccessibile, protetto com'era da un'alta recinzione.
Lemoncinia Nelle aiuole, meticolosamente delimitate da file di vecchi coppi e pianelle sbeccate, c’era un po’ di tutto: dal ciliegio giapponese al frangivento che aveva assunto la forma e le dimensioni di un vero e proprio albero, dalle rose rampicanti a una monumentale vite il cui tronco, rugoso e grosso quanto il braccio di un uomo, svettava fino a creare un pergolato sulla terrazza attigua.

Morta zia Lina, per qualche anno mi sono dedicato a recuperare il giardino in stato di abbandono rastrellando, potando, zappando, innaffiando e rimpiazzando con piante nuove quelle morte di vecchiaia o di incuria. Era il mio hobby ogni volta che tornavo in paese da Cagliari e andavo piuttosto fiero dei risultati ottenuti.
Una volta trasferitomi a Milano per lavoro, per qualche tempo ho sperato che i miei fratelli continuassero a prendersi cura del giardinetto. Loro, invece, scelsero di monetizzare quel fazzoletto di terra di circa 60 mq, ma questa è un’altra (triste) storia.

Una delle “mie” essenze preferite era sistemata vicino al cancello. Gracile e slanciata, non dava troppo nell’occhio e non aveva neanche una fioritura degna di nota, però se strofinavi le sue foglie ti lasciava sulle dita un intenso, delizioso profumo agrumato. Si trattava di un esemplare di Cedrina o Lemoncina, una verbenacea che predilige i climi miti e l’esposizione soleggiata, ma che si era ben adattata a una collocazione esposta ai venti impetuosi e agli inverni alquanto crudi del mio paese.

È improbabile che quella Cedrina sia ancora viva e vegeta, un po’ per l’età - avrebbe più o meno 60 anni - un po’ perché da un ventennio il giardino è abbandonato a se stesso. Stamattina per caso, affettando un limone, ho ripensato a quella pianta con un po’ di nostalgia
Mi piacerebbe acquistarne una da tenere in appartamento: non sarebbe la stessa cosa, ma non c’è nulla di male nel soddisfare questo desiderio di radici.

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sabato, settembre 22, 2012

 

Di piccole e grandi cose



Bigini d’autore

BiginiBignami, Ciranna e Simone, ovvero tre esempi di case editrici che hanno fatto business senza aver mai messo sotto contratto autori celebri e tenendo un bassissimo profilo.

D’altronde, la specializzazione che li ha resi benemeriti agli occhi di migliaia di (ex) studenti era - ed è - il pulp educational, ovverosia i riassunti iper-concentrati e semplificati per sveltire la preparazione di esami e concorsi: materiali da maneggiare con discrezione, quindi, e dei cui servigi nessun cliente, per quanto soddisfatto, si è poi vantato pubblicamente.

Mi viene da sorridere ripensando ai Bignamini, i “bigini” per eccellenza, smilzi e con le loro tristissime copertine in cartoncino da piccola tipografia di paese, esposti in vetrina nella storica “Libreria dello Studente” che aveva sede in Piazzetta Savoia, a Cagliari.

Questo genere di manualistica usa e getta non sempre è di qualità accettabile, ma in molti casi la concisione e la chiarezza espositiva risultano sorprendenti, persino ammirevoli, specie se confrontate con la disperante dispersività e macchinosità di certi libri di testo “ufficiali”.
Condensare bene la complessità di una materia o di un libro in poche pagine è, né più né meno, un’arte. Sfrondare con l’accetta è il meno: bisogna padroneggiare l’argomento e possedere in uguale misura capacità di sintesi e chiarezza di linguaggio. Ragion per cui, faccio tanto di cappello alle case editrici e, soprattutto, ai misconosciuti autori degli umili “bigini”.


Pastafarian

Tutta la storia del trailer del film che descriverebbe Maometto come una figura equivoca e delle reazioni violente che ha suscitato nei paesi arabi a me puzza di gioco di sponda tra fazioni che puntano a lucrare vantaggi da un clima di muro contro muro tra Occidente e Islam.

L’operazione che ha portato alla realizzazione della pellicola di serie Z è avvolta da misteri e nebbie in cui fanno capolino personaggi borderline in qualche modo riconducibili alla lobby islamofoba americana.
Fare scoppiare la “bomba” durante la campagna per la presidenza USA appare, pertanto, una scelta tattica diretta a ottenere la massima risonanza e a recapitare a certi ambienti della destra radicale repubblicana il messaggio: “Hey, non dimenticate che ci siamo anche noi”.
Allo stesso tempo, la pubblicazione on line del trailer è stato un regalo servito su un piatto d’argento al fondamentalismo islamico, che non ha perso l’occasione di far sentire tutto il suo peso mobilitando e manovrando le piazze.

Non fosse una cosa seria, per cui alcune persone hanno perso la vita in Libia e altre sono in pericolo solo perché di nazionalità americana o, genericamente, “occidentali”, la pubblicazione del trailer sarebbe da rubricare come un’azione da perfetti thriller seeker, un po’ come in questo folle spezzone di “Ridere per ridere” di John Landis, interpretato da un quasi irriconoscibile Woody Allen:



A parte tutto questo, che attiene al lato più sudicio della lotta per il potere oscenamente travestita da zelo religioso, la vicenda pone alcuni interrogativi sul senso e sui limiti della libertà di espressione, sulla tolleranza e sul rispetto da dare alle religioni rivelate.

Mi pare che nella parte dell’opinione pubblica occidentale che si ritiene benpensante ci sia poca o nessuna voglia di andare oltre lo stereotipo dell’Islam popolato da individui ignoranti, ottusi e irascibili, spinti al revanscismo e al fanatismo religioso dal bisogno di compensare un ego roso da un irrisolto complesso di inferiorità: in pratica dei poveri di spirito, degli irrecuperabili da compatire e che non è il caso di provocare. Anche nelle versioni più soft e prive di malizia, si tratta di una visione paternalista e falsamente buonista, in cui occhieggia un inconsulto senso di superiorità.

Da altre parti, la virulenza delle reazioni nel mondo arabo è vista solo come l’ennesima conferma che i musulmani - ovunque siano - sono una minaccia; barbari ed eversori della civiltà con cui non è possibile arrivare a una pacifica convivenza, ma solo applicare inflessibilmente la legge del più forte e del “padroni in casa nostra”.

Nell’uno e nell’altro caso si ragiona in termini di masse, si applicano categorie universali senza alcun riguardo e senza alcun rispetto per le persone vere, in carne e ossa.

PastafarianNon è che dall’altra parte della barricata le cose vadano meglio in termini di pensiero massificato, di diffidenza e di intolleranza verso la diversità. Come pare abbia detto un imam algerino durante un sermone “Cosa facciamo noi musulmani per dimostrare di essere migliori di chi ci giudica? Scendiamo in piazza sdegnati, urliamo la nostra rabbia e la scarichiamo nella violenza: non sappiamo fare niente di meglio?”.

Tornando a bomba, fino a che punto la libertà di esprimere una opinione, per quanto urticante sia, deve essere piena e incondizionata?
Dove finisce la libertà e inizia la responsabilità?
Dobbiamo accettare forme di censura preventiva alla circolazione delle opinioni e delle idee in nome del politicamente corretto?
Qual è il confine tra la richiesta di rispetto verso le religioni e il larvato ricatto morale per cui qualsiasi critica o ironia su singoli aspetti della religione altrui diventa ipso facto una provocazione inaccettabile?

Quasi quasi mi dichiaro pastafariano.

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