giovedì, febbraio 20, 2025
Via Gialeto e le carte false
Nel mio paese d’origine, come in altri comuni della Sardegna, c’è una via intitolata a Gialeto. In tanti anni non mi sono mai domandato chi o cosa fosse Gialeto: se uomo illustre o località meritevole d’essere ricordata nella toponomastica. Mai avrei immaginato, però, che una strada potesse essere dedicata a un personaggio inventato.
Già, perché Gialeto, condottiero sardo che sul finire del VII secolo d.C avrebbe cacciato i Bizantini dall’Isola diventando il primo Giudice-sovrano di Cagliari nonché l’artefice anche degli altri tre Giudicati della Sardegna medioevale, è esistito solo nella fantasia del frate francescano Cosimo Manca e dei complici che l’aiutarono a fabbricare, a metà Ottocento, il falso storico delle cosiddette Carte di Arborea.
Nascita di una contraffazione
La vicenda ha inizio nel 1845, quando il frate minore pattadese Cosimo Manca fa visita al caglaritano Pietro Martini, autorevole storico, politico e direttore della biblioteca universitaria di Cagliari, porgendogli un documento su pergamena scritto in una grafia antica e scolorita dal tempo al punto di risultare pressoché illeggibile.
Martini sobbalza: quel documento ha tutta l’aria di essere autentico, risalire al XIV secolo e provenire dalla cancelleria del Giudicato di Arborea durante la reggenza della giudicessa Eleonora Bas-Serra, la leggendaria eroina della resistenza all’invasione aragonese della Sardegna.
Martini, tuttavia, prende tempo: vuole che il documento sia studiato in modo scientifico. Cerca perciò il conforto del parere di altri eruditi isolani tra cui spicca Ignazio Pillito, scrivano e specialista in paleografia che lavora presso l’Archivio Comunale di Cagliari. Solo a posteriori si scoprirà che l’archivista era il braccio della macchinazione, ovvero colui che si occupava di realizzare le pergamene.
Nel giro di circa un decennio, al primo documento se ne aggiungono altri, andando a formare un corpus che spazia su vari argomenti: cronache, atti giuridici, poemi, sonetti e panegirici scritti in latino, volgare italiano e sardo medievale che Pillito, ovviamente, non ha problemi a decifrare e trascrivere.
Un miraggio troppo bello per essere vero
Nel clima romantico e nazionalista di metà Ottocento la scoperta di quell'incredibile tesoro è un’autentica bomba per vari motivi:
- va a colmare il vuoto di documentazione storiografica sulle origini e i primi secoli dei Giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura;
- presenta le corti giudicali - in particolare quella arborense di Oristano - come centri d’irradiazione di una vivace cultura romanza autoctona, aperta al dialogo con quelle che si vanno affermando in Provenza e in Italia, addirittura in anticipo sulla Sicilia normanna e sveva nella produzione di letteratura e poesia in volgare;
- rafforza il mito di una costante, ostinata resistenza culturale dei sardi alla egemonia dei dominatori.
Le Carte di Arborea trovano il sostegno di personaggi di spicco nel regno sabaudo come Carlo Baudi di Vesme e Alberto La Marmora, che provvedono a farne pervenire copia all’Accademia delle Scienze di Torino.
Baudi di Vesme fa di più: riesce a strappare a Theodor Mommsen, storico e massima autorità mondiale in materia di filologia ed epigrafia, la promessa di analizzare le pergamene. Il responso del luminare tedesco arriva ai primi del 1870 ed è lapidario: le Carte di Arborea sono un falso.
Conseguenze
Il verdetto gela il mondo accademico isolano e piemontese che, tuttavia, accetta la sentenza senza protestare, consapevole di essere cascato con tutte le scarpe in una figuraccia di dimensioni colossali.
Mommsen mantiene il riserbo sui falsi di Arborea fino all’ottobre 1877 quando, ospite di un convegno a Cagliari, semina l’imbarazzo tra i presenti rievocando la vicenda. In più, lo storico conclude il suo intervento sostenendo in modo assai poco prudente che anche la giudicessa Eleonora d’Arborea non era altro che una leggenda.
Mal gliene incorse: un gruppo di sconosciuti lo affrontò mentre si dirigeva all’imbarco del piroscafo per fare ritorno in Germania e gli sottrasse taccuini e carteggi, facendoli a pezzi in quanto “non era degno di maneggiare argomenti che non conosceva”.
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martedì, luglio 09, 2024
Raccontare archeostorie
Il bello di seguire le news di paleoantropologia è che quando penso a di aver capito qualcosa poi scopro quasi sempre di aver preso una cantonata. D’altra parte nuove scoperte rivelano informazioni che arricchiscono il puzzle aggiungendo tessere mancanti, ma apportano anche nuovi spazi vuoti da colmare e interrogativi da risolvere.
Questo lungo post è un "recap" personale sulle ultime notizie fatto unicamente per il piacere di scrivere di un argomento che mi appassiona e diverte.
Fuori dall’Africa a più riprese
Oggi sappiamo che l’Homo Sapiens, comparso in Africa Orientale intorno a 300.000 anni fa, ha tentato varie volte di espandersi fuori dall’Africa prima dell’evento migratorio principale che sarebbe avvenuto intorno a 60.000 anni fa.
Tra 210.000 e 100.000 anni fa, infatti, piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori Sapiens avrebbero raggiunto l'attuale Israele e risalito la costa del Mediterraneo Orientale fino al Peloponneso, entrando in contatto e incrociandosi con i Neandertal.
Per qualche ragione, tuttavia, questi precoci tentativi di insediamento fallirono, nel senso che il patrimonio genetico di queste avanguardie Sapiens a un certo punto si è estinto, lasciando unicamente tracce in alcuni siti e nel DNA dei Neandertal.
Tutti insieme sull’altopiano?
Un recente studio scientifico, basato su un complesso lavoro di screening sul DNA antico e moderno di varie popolazioni e su dati paleobotanici, sostiene che ci sarebbero stati un momento e un luogo in cui gli antenati diretti di tutta la popolazione mondiale (eccettuati gli africani) si ritrovarono insieme prima di sciamare verso Europa, Asia, Estremo Oriente, Oceania e le Americhe.
Secondo questa teoria, dopo essere uscito dall’Africa un gruppo di circa 5.000 individui composto dai nostri progenitori si sarebbe fermato più o meno per 10/15.000 anni nell’altopiano iranico, una vasta area oggi in larga misura semi-arida che, oltre all’attuale Iran, comprende parte dell’Azerbaigian fino alle sponde del Caspio, il Belucistan (Pakistan) e il nord del subcontinente indiano. Durante questo periodo stanziale gli avi Sapiens si moltiplicarono e mescolarono con i Neandertal.
Sulle ragioni di questa sosta prolungata si possono fare solo congetture. Forse l’area permetteva il sostentamento del gruppo ed era sia scarsamente popolata dai Neandertal sia lontana dagli insediamenti dei Denisova. Questo avrebbe dato ai nuovi arrivati il tempo di attrezzarsi per competere per le risorse o per trovare accomodamenti pacifici con le due specie "cugine", avvantaggiate in partenza dalla maggiore forza fisica e dalla perfetta conoscenza dei luoghi.
Rimessisi in marcia in tempi e direzioni diverse a partire da 45.000 anni fa, i Sapiens di questo particolare gruppo sarebbero andati gradualmente differenziandosi fino ad arrivare alle attuali popolazioni non africane.
Come è noto, quanti si inoltrarono nell’Asia e nel Sud-Est Asiatico si incrociarono con i Denisova, probabilmente in Indocina (Laos).
Inoltre, non va dimenticato che nel nostro corredo genetico esistono frammenti che testimoniano una remota "fraternizzazione" con una non identificata specie di ominini dalle caratteristiche arcaiche (i genetisti parlano in proposito di introgressione superarcaica). I possibili candidati, solo in Africa, vanno dalle australopitecine all'Homo Erectus, dall'Homo Rhodesiensis all'Homo Naledi: tutte specie di cui abbiamo reperti fossili ma non il DNA.
Le pitture rupestri in Borneo e a Sulawesi
Tutto a posto? Non proprio. Se si accetta la tesi del lungo stanziamento sull’altopiano iranico diventa improbabile che i nostri progenitori siano gli stessi Sapiens che in Australia hanno lasciato tracce risalenti a circa 60.000 anni fa o gli autori delle pitture rupestri più antiche al mondo, scoperte in alcune grotte del Borneo e sull’isola indonesiana di Sulawesi, che nuovi e più accurati sistemi di misurazione del decadimento dell’Uranio hanno datato rispettivamente a 40.000 e 51.000 anni fa.
L’ipotesi più semplice è che si tratti di “altri Sapiens” partiti in anticipo o che non effettuarono soste intermedie prima di raggiungere e superare la cosiddetta Linea di Wallace, ossia i bracci di mare che separano le masse continentali dell'estremo oriente asiatico dalle isole di Filippine, Indonesia, Borneo e dall’Australia e che anche durante i picchi glaciali non sono mai arretrati fino a consentire il guado a piedi.
In poche parole, sarebbero stati dei Sapiens dotati delle nostre stesse doti di ingegnosità, adattabilità e talento artistico, ma non nostri diretti progenitori. Quando questi ultimi sopraggiunsero, infatti, in qualche modo ebbero il sopravvento, sovrascrivendo e cancellando l’eredità genetica di chi li aveva preceduti.
domenica, febbraio 25, 2024
Il comunista che scappò con la cassa
Sono incappato casualmente in un episodio oscuro e in apparenza “minore” del Dopoguerra di cui non ero a conoscenza.
Il 25 luglio 1954 l’ex partigiano cremonese Giulio Seniga, braccio destro dell’allora n.2 del PCI e responsabile dell’organizzazione Pietro Secchia, scompare da Roma portandosi dietro un pacco di documenti riservati e una parte consistente dei fondi occulti del partito, secondo ricostruzioni giornalistiche posteriori circa 420.000 Dollari.
Nella sede centrale del PCI a Roma scatta l’allarme. Si cerca in ogni modo di rintracciare Seniga che, in virtù del suo ruolo di vice di Secchia, ha piena conoscenza della struttura paramilitare pronta a guidare l’insurrezione operaia o a intervenire in caso di golpe sostenuto dagli USA, della mappa dei rifugi destinati ai vertici del partito in caso di emergenza e gestisce la cassa dei fondi segreti in larga misura provenienti da Mosca depositati in vari nascondigli.
Il perché di questo coup de théâtre non è stato del tutto chiarito. Si può ipotizzare che Seniga, disgustato dalla burocratizzazione e dall'opportunismo di dirigenti e funzionari del PCI, intendesse costringere Secchia e l’ala più internazionalista del partito a sfidare apertamente Palmiro Togliatti mettendo a nudo ipocrisia e contraddizioni della linea politica del segretario, ufficialmente ligia all’ortodossia stalinista ma di fatto revisionista perché diretta a fare del PCI un partito con il più ampio consenso elettorale possibile così da arrivare al potere per via parlamentare.
Rifugiatosi a Milano in casa del giornalista sportivo Gianni Brera, Seniga avrebbe preso contatti con il questore Federico Umberto D'Amato, controverso dirigente dell’ufficio politico della Polizia di Stato e futuro capo dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni.
I documenti scottanti sottratti da Seniga, tuttavia, non vennero sfruttati dalla DC e dal governo Scelba, forse per timore che lo scandalo degenerasse e che, per ritorsione, fosse rivelata l’esistenza dei fondi neri anglo-americani e della struttura clandestina Stay Behind (Gladio), ma soprattutto perché il PCI scelse di tacere e di non sporgere denuncia contro Seniga.
In ogni caso, l’iniziativa di Seniga segnò la rovina politica di Pietro Secchia e dei dirigenti schierati al suo fianco contro il Migliore. Secchia, infatti, fu estromesso dagli incarichi nella segreteria nazionale del PCI e spedito a dirigere la segreteria regionale in Lombardia.
Anche “il comunista che scappò con la cassa” conobbe l’oblio pur continuando a fare politica attiva nel PSI, pubblicare articoli e saggi e fondare una casa editrice.
Etichette: Secchia, Seniga, Storia, Togliatti
giovedì, agosto 25, 2022
La schiavitù raccontata in prima persona
Se avete una certa età probabilmente ricorderete “Radici”, successo televisivo tratto dal bestseller dello scrittore afroamericano Alex Haley.
Rispetto alla saga familiare ricostruita nel romanzo di Haley, “The Life of Omar ibn Said” si colloca a monte. Questa autobiografia scritta in arabo, infatti, recuperata dopo oltre un secolo da un baule conservato in Virginia e acquisita dalla Biblioteca del Congresso, rappresenta una rara testimonianza in prima persona della tratta degli schiavi e della schiavitù.
1807: il venticinquenne Omar Ibn Said, membro di un’agiata famiglia senegalese, ben istruito e avviato a una carriera da Ālim (esperto in teologia, esegesi coranica e diritto) viene catturato da una banda di negrieri che fa strage lungo il percorso verso la costa, dove viene imbarcato nella stiva di una nave pronta a salpare per gli Stati Uniti.
Dopo oltre due mesi di navigazione in condizioni disumane, Omar viene sbarcato e venduto come schiavo al mercato di Charleston (Carolina del Sud). Per sua sfortuna, finisce nelle grinfie di uno schiavista locale crudele e incline alla violenza che Omar, in seguito, descriverà come senza un briciolo di umanità e totalmente privo di rispetto sia per la religione che per il Dio dei cristiani.
Omar riesce a scappare, ma la sua fuga termina a Fayetteville (Carolina del Nord), dove viene sorpreso intento in preghiera all’interno di una chiesa.
Imprigionato, Omar suscita scalpore mettendosi a scrivere in arabo sui muri della cella, smentendo il luogo comune che voleva gli schiavi africani selvaggi, carenti sul piano intellettivo e del tutto illetterati. Questo attira l’attenzione del facoltoso generale James Owen, che acquista Omar.
Consapevole di aver acquisito uno schiavo colto e musulmano, secondo lo spirito pio e "illuminato" dell’epoca Owen dona a Omar una copia della Bibbia tradotta in arabo.
Dal canto suo, Omar è abile nel compiacere il nuovo padrone mostrando di volersi integrare nella famiglia e nella comunità. Nel 1821 si fa battezzare, divenendo così un rispettato membro della locale chiesa presbiteriana.
Dal diario, però, appare chiaro che Omar applicò la Taqiyya, ossia la facoltà di simulare la conversione a un'altra religione e di adottare i costumi degli infedeli in presenza di un pericolo grave o di una persecuzione. Nella sua copia della Bibbia, infatti, annotò shure e passi del Corano o invocazioni rituali ad Allah, ovviamente incomprensibili per i membri della congregazione.
La scrittura del diario in arabo viene intrapresa da Omar quando ha superato la sessantina. L’autobiografia, infatti, è introdotta da queste righe: “Mi hai chiesto di scrivere la mia vita... Molto ho dimenticato del mio passato, così come della lingua araba. Non so più scrivere nella grammatica corretta o secondo i canoni del vero idioma. Perciò ti prego, fratello mio, in nome di Dio non biasimarmi perché sono un uomo dagli occhi deboli e dal corpo fiaccato”.
Omar ibn Said muore all’età di 94 anni.
Sebbene non esista una stima precisa sul numero di musulmani condotti come schiavi negli USA, è presumibile che lo fossero oltre il 40% degli africani catturati nelle nazioni equatoriali affacciate sul Golfo di Guinea.
In larghissima parte, la religione professata in Africa prima della riduzione in schiavitù è stata tra gli elementi identitari più velocemente cancellati sin dalla prima generazione; ciò a causa della convergenza tra le pressioni esercitate dai proprietari bianchi e un fenomeno di auto-censura e rimozione di un ricordo insieme doloroso e pericoloso.
Etichette: schiavitù. Radici, Storia
venerdì, febbraio 18, 2022
La Corona Ferrea: la storia complicata, leggendaria e oscura della corona più ambita d'Italia
Le pretese recentemente avanzate dagli eredi dell’ultimo sovrano d’Italia sui gioielli della Corona d’Italia sembrano, al momento, escludere quella che nel nostro Paese è la corona con la C maiuscola: la cosiddetta “Corona Ferrea” custodita come reliquia in una cappella del Duomo di Monza.
È singolare ma anche affascinante come sulle origini e la storia movimentata di un diadema con cui sono stati incoronati personaggi che hanno scritto la storia si sappia quasi nulla di certo mentre abbondano le leggende più o meno plausibili.
Il manufatto
Materialmente, la Corona Ferrea è composta da 6 piastre di oro puro incernierate tra loro, con zaffiri, granati e ametiste più alcuni vetri colorati - forse inseriti nell’alto medioevo in luogo di pietre andate perdute o rovinate - incastonati tra rosette d’oro e smalti.
A giustificare il suo nome e lo status di reliquia è la presenza nella parte interna di una sottile lamina che a lungo si è creduto fosse stata ottenuta fondendo il ferro di uno dei quattro chiodi rinvenuti sul Golgotha insieme alla vera Croce da Flavia Giulia Elena, madre dell’imperatore Costantino. Le analisi svolte nel 1993, tuttavia, hanno smentito questa devota vox populi: la lamina è argento al 100%.
Le origini
La storia (nota) della Corona Ferrea inizia ufficialmente nel VII sec. d.C , quando viene donata insieme ad altri oggetti preziosi dalla regina longobarda Teodolinda alla cappella palatina che rappresenta il nucleo originario del futuro Duomo di Monza.
Alcuni studiosi ritengono che il diadema in origine fosse montato sull’elmo di tipo “intercisa” o “Berkasovo” (tipici dell’esercito romano nel tardo impero) con cui Costantino è raffigurato in tre diversi multipli d’argento oggi conservati a San Pietroburgo, Monaco e Vienna. Se questa tesi è esatta si può solo ipotizzare che il diadema sia stato successivamente sganciato dall’elmo per essere usato come corona e conservato nel tesoro imperiale, forse a Costantinopoli ma senza escludere Ravenna o Roma.
Viaggi ipotetici
Restando nel campo delle congetture, la corona potrebbe essere stata inviata a Costantinopoli con le altre insegne imperiali da Odoacre dopo la deposizione di Romolo Augustolo (476 d.C.) in cambio del riconoscimento imperiale del suo status di re/patrizio d’Italia. Sarebbe tornata in Italia dopo il 493 d.C., inviata dall’imperatore romano d’oriente Anastasio I “Dicoro” in dono a Teodorico il Grande, re degli Ostrogoti e re d’Italia.
Proprio a quest’ultimo viaggio risalirebbe una particolarità della Corona Ferrea: le dimensioni troppo piccole per essere cinta sul capo di un adulto. Pare, infatti, fosse abitudine della corte di Bisanzio mandare in dono ai re barbari federati corone di dimensioni ridotte per sottolineare il loro rango formale di subordinati al Basileus. In sintesi, la corona sarebbe stata “mutilata” passando da 8 a 6 piastre.
Un’ipotesi alternativa è che la corona sia stata fatta modificare da Carlo Magno per adattarla al figlio Carlomanno (passato alla storia come Pipino d'Italia), incoronato re dei Longobardi in tenera età (781 d.C). In subordine, la riduzione potrebbe essere stata opera dei Longobardi per sancire definitivamente la destinazione votiva della corona, in un parallelismo con le coeve corone del cosiddetto.Tesoro di Guarrazar (V.di fotina a SX), donate alla Chiesa da due sovrani visigoti.
L’importanza simbolica
Non si sa esattamente come e quando la Corona Ferrea sia finita nelle mani dei Longobardi e della regina Teodolinda. Secondo fonti posteriori sarebbe stata inviata alla regina da Papa Gregorio Magno quale segno di apprezzamento per aver promosso la conversione dei Longobardi, superficialmente cristianizzati e seguaci dell’eresia Ariana, alla fede cattolica: non ci sono, però, riscontri in proposito.
In ogni caso i Longobardi, pur attratti dalla spettacolarizzazione e sacralizzazione del potere tipica dei complessi cerimoniali di corte romano-bizantini, avevano tradizioni proprie per l’investitura dei loro capi e non assegnavano alle corone un valore che non fosse estetico e accessorio alla dignità nobiliare o regale. Perciò è solo con Carlo Magno e il suo ambizioso disegno di restaurazione imperiale che l’incoronazione con la Corona Ferrea inizia a essere ambita come elemento simbolico di legittimazione divina e umana del potere regale sui territori della Penisola controllati dai Franchi, dal Sacro Romano Impero e, successivamente, dal Sacro Romano Impero Germanico. Da Ottone III di Sassonia a Napoleone Bonaparte e Ferdinando I d’Asburgo saranno nove le teste coronate a essere intronizzate con la Corona Ferrea.
Il prestigio acquisito non eviterà, tuttavia, alla veneranda corona l’umiliazione di essere data in pegno nel 1273 con il resto del Tesoro del Duomo di Monza dal Comune di Milano a garanzia di un ingente prestito contratto con l’ordine monastico degli Umiliati, venendo riscattata solo 40 anni dopo da Matteo I Visconti.
Con Napoleone Bonaparte la Corona Ferrea rischierà seriamente d’essere trafugata e trasferita a Parigi. All’ultimo momento il Grande Corso rinunciò al colpo gobbo sacrilego, forse perché il rischio di uno scandalo fu considerato eccessivo e inopportuno, e ripiegò sul resto - tutt'altro che disprezzabile - del Tesoro del Duomo di Monza.
Nella stampa celebrativa, Napoleone è rappresentato con la corona calzata sulla fronte. In realtà nella cerimonia Bonaparte tenne sospesa la corona sopra il capo non potendo fare altrimenti per le ragioni esposte in precedenza.
La Corona Ferrea e i Savoia
Il capitolo finale di questo excursus storico è dedicato al rapporto tra la Corona Ferrea e la monarchia sabauda.
Per diversi motivi nessuno dei quattro re d’Italia espressi dalla Casa di Savoia è stato incoronato con la Corona Ferrea.
Vittorio Emanuele II non aveva materialmente a disposizione il diadema, custodito a Vienna sino alla fine della Terza Guerra d’Indipendenza. Umberto I rinunciò a usare la Corona Ferrea per non esacerbare le tensioni con il Vaticano e i cattolici, rimaste a livello critico dopo l’annessione manu militari di Roma. Vittorio Emanuele III e Umberto II, semplicemente, salirono al trono senza cerimonie d’incoronazione.
Va detto, tuttavia, che la Corona Ferrea era presente, poggiata su un cuscino, tanto nella camera ardente di Vittorio Emanuele II quanto in quella di Umberto I.
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lunedì, gennaio 24, 2022
Quirinale: ricordando la “lepre marzolina"
Francesco Cossiga miglior presidente della Repubblica? La memoria gioca scherzi agli italiani che, a distanza di oltre un decennio dalla morte dell’ex inquilino del Quirinale, ancora continuano a esprimere i giudizi più disparati su un politico e uomo di stato d’incontestabile levatura ma anche singolare e controverso come pochi nella storia repubblicana.
Se mai Cossiga potesse far udire la sua voce dalla tomba non è difficile immaginare che il primo suono sarebbe una risata tenebrosa e gorgogliante, allo stesso tempo divertita e sarcastica all’indirizzo di quanti lo evocano nel ciarpame social e in polemiche d’infimo cabotaggio, seguita da un: “con tutto il rispetto, si vede che di me non avete capito un c…!”
Chi era veramente Francesco Cossiga? Sono andato a rileggere un buon numero di articoli d’archivio e se da una parte mi è servito per richiamare alla mente situazioni, nomi e fatti dimenticati, dall’altra l’interrogativo è rimasto irrisolto.
Di lui si è scritto tanto e molto ci ha messo di suo nel creare il personaggio pubblico Cossiga mescolando verità, omissioni e invenzioni, silenzi pesanti e spettacolari tempeste verbali. Si è scritto, tra l’altro, che era un depresso, una persona indelebilmente segnata nella psiche e nel corpo dallo stress provocato dal sequestro e l’assassinio di Aldo Moro; che a causa di quell’esperienza traumatica avesse sviluppato un disturbo bipolare della personalità. Non prendo posizione in merito, ma se anche fosse vero in tutto o in parte le contraddizioni sembrano essere molto più vaste e antecedenti il caso Moro.
Cossiga, come altri notabili democristiani, era un cattolico devoto ma sui generis. Mitezza e misericordia non erano esattamente il suo forte e come operatore di pace aveva imparato precocemente l’utilità dello sporcarsi le mani ricorrendo a metodi poco ortodossi pur di raggiungere il risultato.
Non possedeva il fascino luciferino di Andreotti, la stretta da pitone dietro il sorriso serafico di Forlani o la personalità esplosiva di Fanfani. In compenso era tenace, affidabile nella gestione di incarichi delicati o ingrati e lucido stratega nello scegliere il momento per guadagnare spazio nello scacchiere democristiano senza pestare troppi calli ed essere inquadrato come un rivale ingombrante.
Scaltro e ambizioso? ovviamente sì come ogni politico di razza, e anche irresistibilmente attratto dal Lato Oscuro della Forza: quello delle logge coperte, di organizzazioni paramilitari occulte come Gladio-Stay Behind e del mondo parallelo dei servizi segreti.
Con quest’ultimo condivideva il gusto per le trame contorte, per la dissimulazione ma soprattutto l’importanza assegnata al possesso e alla custodia di informazioni riservate. Divenne proverbiale il linguaggio allusivo di Cossiga su diversi argomenti scottanti. Le sue rivelazioni facevano rumore pur essendo minime e omeopaticamente diluite con divagazioni e depistaggi deliberatamente plateali; sufficienti, tuttavia, a suonare chiarissime alle orecchie dei reali destinatari.
Francesco Cossiga è stato di volta in volta l’inflessibile Kossiga Ministro degli Interni, lo ieratico Presidente del Senato, il felpato notaio della Repubblica dei primi cinque anni al Quirinale e il battitore libero dell’ultima pirotecnica fase da picconatore e “lepre marzolina”.
Solo un personaggio non comune poteva cambiare di punto in bianco abitudini, maschera e registri linguistici con la disinvoltura mostrata da Cossiga.
Il politico conservatore, il costituzionalista uso a poche e misurate parole, l’uomo di raffinate letture si trasforma da officiante e garante della continuità del sistema a elemento perturbatore, imprevedibile, apparentemente incontrollato e incontrollabile che dal Colle bacchetta con feroce sarcasmo i leader di partito inclusa la Democrazia Cristiana, ingaggia un conflitto senza precedenti con il CSM, rilascia dichiarazioni durissime e intimidenti nei confronti di magistrati come Casson e Mancuso, rei di ficcare il naso su su stragi e servizi deviati.
Anche il linguaggio presidenziale si adegua alla nuova stagione di "effetti speciali" diventando più abrasivo, dissacrante e volutamente popolaresco. Qualcuno a posteriori ha scritto che questa metamorfosi era dettata non dalla ciclotimia o dalla volontà di emulare il biblico Sansone ma dalla frustrazione nel vedere l’inerzia della politica, sorda ai segnali di disgregazione e prossimo collasso della Prima Repubblica.
Il miglior presidente della Repubblica? direi di no. Una persona enigmatica, affascinante e per certi versi straordinaria sì, certamente.
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sabato, marzo 09, 2019
Vittime collaterali
Tutto ciò che conosciamo della guerra, dai filmati passati nei telegiornali ai film più drammatici e realistici, è nulla rispetto all’impatto del video girato dalla cabina di un elicottero d’attacco AH-64 Apache che documenta una “operazione militare di routine” condotta nel 2007 a Sadr City - sobborgo di Baghdad, circa 1 milione di abitanti - in cui morirono due reporter dell’agenzia Reuters macellati per strada, insieme a una dozzina di civili adulti e due bambini, dai proiettili del cannone automatico da 30 mm dell’elicottero.
Il video fa parte dei materiali classificati che Wikileaks ha ottenuto da whistleblower come Bradley (oggi Chelsea) Manning. Per lo stato maggiore e l'Amministrazione USA, l’equipaggio dell’Apache rispettò le procedure di sicurezza e le regole d’ingaggio su un gruppo di civili che fu bollato sbrigativamente come “insurgents” (rivoltosi). Dall’alto, l’attrezzatura dei reporter venne scambiata per armamenti.Il sonoro del video testimonia lo scambio radio tra l’elicottero e il comando, ma anche l’accanimento nel fare fuoco su un furgone sopraggiunto per soccorrere i feriti, in particolare uno dei reporter che si vede trascinarsi a terra ed essere colpito nuovamente mentre sta per essere adagiato sul pianale dell’automezzo.
All’interno del van semidistrutto le truppe di fanteria USA arrivate sul posto trovano due bambini feriti gravemente. Nel video si vede un soldato trasportare a braccia uno dei bambini verso un veicolo corazzato d’appoggio Bradley. Tuttavia la richiesta di trasportarli d’urgenza all’ospedale di campo americano riceve dal comando l’ordine di lasciare che se ne occupino gli iracheni.
Nell’asettica terminologia tecnica, tutto ciò rientra sotto l’etichetta “vittime collaterali”.
Per chi avesse il fegato di confrontarsi con la crudezza delle immagini e dimestichezza con l’inglese parlato e scritto lascio il link YouTube alla drammatica testimonianza del soldato che cercò di soccorrere i bambini: https://youtu.be/kelmEZe8whI
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venerdì, ottobre 05, 2018
La lunga coda della propaganda
Se il duce avesse saputo
Siccome ho una certa età, ricordo certe considerazioni piuttosto comuni tra persone cresciute durante il ventennio fascista.
Per inciso, queste tesi "giustificazioniste" non erano monopolio dei simpatizzanti dell’allora Movimento Sociale Italiano. Semmai erano l’eredità comune di un ventennio di propaganda; la lunga coda dell’indottrinamento al consenso e alla rappresentazione di Benito Mussolini come demiurgo che si mescolava alla nostalgia di una generazione per gli anni della sua (terribile) giovinezza.
Di quella generazione rimangono solo pochi superstiti. Ho motivo di credere, tuttavia, che le loro convinzioni non sarebbero state scalfite neanche qualora fossero venuti a conoscenza dei risultati della ricerca storica che di recente, carte alla mano, ha dimostrato come Mussolini fosse perfettamente al corrente della situazione nel paese e dentro il regime e ne fosse connivente.
Ai fini del consenso popolare e per non intaccare gli equilibri di potere all’interno del fascismo, Mussolini scelse di scaricare la colpa delle inefficienze, della corruzione e delle crescenti ristrettezze imposte agli italiani sui “nemici dell’impero e della rivoluzione fascista”: traditori della patria e sabotatori nascosti negli apparati dello stato e nelle fabbriche, accaparratori, ebrei italiani e il famoso complotto delle nazioni demo-pluto-giudaico-massoniche.
Ciarlatani, cigni neri e piani B
Questa lunga introduzione ci riporta all’oggi. Non ho poteri di chiaroveggenza, ragion per cui non posso prevedere quale sarà tra 10, 20 o 30 anni il giudizio sulla fase politico-istituzionale che il nostro paese sta attraversando in questo momento e sul governo nato dal “rapporto contrattuale” tra Lega Nord e Movimento 5Stelle.
Se le prime impressioni contano qualcosa, allora ci troviamo appena all’inizio di un mare di guai, perché al capezzale dell’Italia malata e in piena decadenza sono stati chiamati a furor di popolo i ciarlatani.
Dove hanno parzialmente fallito la terapia lacrime e sangue del professor Monti e le riforme in stile convention motivazionale della forza vendita di Matteo Renzi, dovrebbero riuscire Il Gatto & la Volpe con la loro miracolosa pozione populista fatta di promesse mirabolanti e ossa di drago piumato.
Siamo ancora alle battute iniziali, ma già si scorge la fabbricazione in parallelo di narrazioni da dare in pasto all’opinione pubblica per sviare l’attenzione e, soprattutto, la responsabilità di sacrifici e scelte che dovranno apparire obbligate, prese per causa di forza maggiore o per l'ostilità dei poteri forti che ha precluso ogni alternativa.
Qualora il quadro economico-finanziario del Paese dovesse deteriorarsi e le terapie non convenzionali sperimentate dal governo si rivelassero peggiori della malattia, gli obiettivi di sviluppo irrealizzabili saranno via via sostituiti da surrogati spacciati come vittoria di una nazione libera e orgogliosa, che ha recuperato la sovranità e non si piega a minacce o ricatti.
Dite che ho copiato questo scenario apocalittico da Grecia, Argentina e Venezuela e la propaganda dall’Ungheria di Orban?
Basta ripensare alla tragica esperienza del fascismo e, soprattutto, di quella sua escrescenza che fu la Repubblica Sociale Italiana per constatare che non c’è nulla di veramente originale nelle operazioni di mistificazione.
Ovviamente mi auguro di poter arrivare a scrivere in futuro che quanto sopra è stato solo un parto di fantasia; non ricaverei alcuna soddisfazione dall'essere stato profeta di sciagure.
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lunedì, luglio 23, 2018
La sepoltura del nobile
A volte ci si imbatte casualmente in microstorie intriganti, ma che ci lasciano presi all'amo della curiosità perché manca il seguito.
Per esempio, quella della cosiddetta "Sepoltura del nobile".
Siamo negli anni '30 del secolo scorso in una zona in aperta campagna nel territorio di Oliena (NU). Tutto intorno null’altro che oliveti, foraggere, vigneti e pascoli. L'unica presenza "storica" di rilievo è data dai ruderi del vicino villaggio nuragico di Vruncu 'e s'arvure.
Durante lavori di aratura, il vomere incontra una resistenza inattesa. Il proprietario ferma il giogo e controlla: l’aratro ha scalzato di lato e portato alla luce quella che sembra la copertura di una tomba sconosciuta, sino ad allora occultata dallo strato superficiale del terreno.
Fattosi istintivamente il segno della croce, il contadino scruta all’interno della sepoltura. Non ha intenzione di mancare di rispetto al defunto, chiunque sia, ma è curioso e magari spera nella presenza di qualche oggetto di valore che possa portare un po' di soldi in casa.
Ciò che vede lo lascia senza parole: uno scheletro che ancora indossa quelli che hanno l'aria di essere i resti di fastosi abiti nobiliari.
La visione, però, dura poco: l’esposizione all’aria e alla luce del sole distrugge e polverizza i tessuti del vestiario, lasciando in vista solo le ossa calcinate dal tempo.
La storiella gotica finisce qui: le domande sull’identità dello scheletro e sul perché una persona in apparenza altolocata sia stata sepolta in aperta campagna, dimenticata da tutti, invece che in terra consacrata non hanno risposta.
O forse le risposte ci sono, ma bisogna interpellare le persone giuste per arrivarci.
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sabato, maggio 12, 2018
Quando in chiesa si pregava Sant'Aronne
Della chiesa citata nel titolo non resta che un po’ di pietrame delle fondamenta a malapena distinguibile nel sottobosco. Apparteneva a un piccolo villaggio medievale, Olevani (od Olàfani), situato in una remota vallata dell’Alta Ogliastra apprezzata dai trekker perché gli impervi sentieri montani conducono a Codula di Luna e a quel paradiso marino chiamato Cala Luna.
Dell’esistenza del villaggio, estintosi tra il XII e XIII secolo per ragioni imprecisate (siccità, carestia, malattie, contrasti con altre comunità) è rimasto appena qualche brandello di notizia tramandato nella memoria orale dei paesi confinanti (Urzulei). Si narra ad esempio che Giorgio, primo vescovo di Suelli canonizzato come santo, abbia sostato a Olevani nella sua avventurosa visita pastorale (XI secolo). Si tramanda anche il nome del santo patrono cui era dedicata la chiesa del villaggio: Santu Aronau.
Santa Romana Chiesa annovera Aronne tra i santi e beati del calendario (festa il 1 luglio), ma anticamente il suo culto in pubblico era una sorta di concessione speciale ristretta alle famiglie ebree che si erano convertite al cristianesimo.
Per deduzione, l’elevazione a santo patrono implicherebbe una consistente presenza israelita a Olevani.
Da dove venivano questi ebrei e perché avevano scelto di vivere in un luogo tanto defilato?
L’unica fonte storica che abbia una qualche attinenza riguarda i 5.000 ebrei di Roma che l’imperatore Tiberio avrebbe fatto deportare sulla costa orientale sarda a seguito di tumulti scoppiati nella capitale.
Gli storici romani tagliano corto sulla sorte di questi infelici, spediti a fare da “cuscinetto” tra le pacifiche popolazioni latinizzate della costa e i “barbari” (barbaricini) dell’interno: sarebbero morti di stenti e di malattia a causa dell’insalubrità dei luoghi.
Per amore di ipotesi, se si volesse credere a una discendenza ebraica tanto prolifica e tenace da perpetuarsi per un millennio, ciò significherebbe che i deportati non erano solo di sesso maschile o che la deportazione abbia coinvolto interi nuclei familiari, dato che l’appartenenza al popolo ebraico si trasmette solo per via matrilineare. Si dovrebbe ipotizzare, inoltre, che la conversione al cristianesimo, avvenuta in epoca imprecisata, non avesse cancellato la consapevolezza delle radici ebraiche.
La presenza di piccole, ma influenti comunità ebraiche nei poverissimi villaggi dell’Ogliastra almeno fino alla messa al bando imposta dai cristianissimi re di Spagna è sempre stata un argomento a metà tra la speculazione di antropologia culturale e la leggenda a causa della totale assenza di documentazione.
La scoperta del culto tributato a Sant’Aronau non sposta gli equilibri, ma d’altra parte il mistero e le domande insolute sono parte integrante del fascino del Medioevo.
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lunedì, aprile 02, 2018
L'inferno, con le migliori intenzioni
“Se si vuole combattere efficacemente il nomadismoCosì, nella civile e democratica Svizzera, scriveva il Dr. Alfred Siegfried (nella foto sotto), dal 1926 al 1958 “regista” di una grande operazione di igiene sociale ed eugenista contro gli Jenische, i gitani svizzeri, finalizzata a convertirli forzatamente in popolazione sedentaria, integrata e “utile”.
è necessario dissolvere i legami tra le persone nomadi.
È necessario, anche se può sembrare crudele,
distruggere i nuclei familiari: non c'è alternativa”.
Il metodo utilizzato fino al 1972 dall’opera assistenziale “Les enfants de la grande route” partiva dal dogma che il nomadismo andasse sradicato definitivamente in quanto produttore di marginalità, parassitismo sociale e delinquenza.
Per questo nobile fine, la macchina dell’Operazione agiva sottraendo i bambini zingari alle loro famiglie per collocarli in orfanotrofi, famiglie affidatarie e, nei casi più “difficili”, ospedali psichiatrici. I clan nomadi venivano seguiti e messi nel mirino nei loro spostamenti grazie alla collaborazione delle autorità cantonali, specialmente nei Grigioni, Canton Ticino, San Gallo e Svitto.
Allo scopo di sradicare la perniciosa ereditarietà del nomadismo, i metodi educativi consigliati e applicati sconfinavano spesso in vessazioni e umiliazioni sia fisiche che psicologiche. Anche dal punto di vista dell’istruzione, era raccomandato di fare i conti con le limitate capacità di apprendimento dei nomadi, instradandoli verso lavori di bassa manovalanza. Sulle ragazze, inoltre, poteva essere praticata la sterilizzazione a fine eugenetico.
Lo scandalo del programma di sedentarizzazione coatta degli zingari scoppiò solo nel 1972, provocando la chiusura di Les enfants de la grande route e, successivamente, le pubbliche scuse da parte della massima autorità della Confederazione Elvetica.
Dagli archivi è emerso che poco meno di 600 bambini gitani sono stati sottratti ai genitori e “rieducati”. Alcuni, faticosamente, hanno riallacciato rapporti con le loro famiglie naturali; altri hanno preferito restare nell’ombra e non consultare la documentazione per non scoperchiare un capitolo oltremodo doloroso e umiliante del loro passato.
Perché rievocare tutto questo? Non per scorno della Svizzera, ma perché mai come in questi casi l’inferno si nasconde sotto il manto di intenzioni in apparenza nobili e sociali.
Per un’ulteriore trattazione approfondita, il link da seguire è questo
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venerdì, settembre 15, 2017
NOLI (me tangere)
Un’iniziativa locale spacciata per pacificatrice, ma che di pacifico o di riparatorio ha pressoché nulla sta diventando un rumoroso caso nazionale. Il casus belli è costituito dalla decisione della giunta comunale di Noli (Savona) di erigere una targa in memoria di Giuseppina Ghersi, un’adolescente che nel 1945, a ostilità appena cessate, fu sequestrata, seviziata e infine liquidata con un colpo alla nuca da tre membri della cosiddetta polizia partigiana comunista.
Il contesto non è un dettaglio
All’alba della Liberazione, la stagione delle esecuzioni sommarie di repubblichini e presunti collaboratori dei nazifascisti si abbatté come una piaga supplementare su un Paese uscito a pezzi dalla guerra.
Un appunto del 4 novembre 1946 inviato dai vertici della Polizia ad Alcide De Gasperi documenta le segnalazioni pervenute dalle questure di tutta Italia, fissando in 8.197 il numero delle persone uccise perché “politicamente compromesse” e in 1.167 i casi di persone prelevate e presumibilmente soppresse.
L’asettica, burocratica contabilità dei morti è impressionante. Ai casi sporadici a Matera, Terni, Napoli e Roma si contrappongono le cifre delle province del centro-nord che erano state sotto il controllo della Repubblica Sociale Italiana:
- Bologna 349+191
- Udine 391+91
- Savona 411+59
- Cuneo 426
- Genova 569
- Milano 610+22
- Treviso 630+105
- Torino 1138
I giorni dell’ira
La giovanissima Giuseppina Ghersi fu una delle vittime della spirale d’odio che avvolse il savonese subito dopo la Liberazione. A distanza di oltre 70 anni la ricostruzione dei fatti non è del tutto limpida, essendo affidata unicamente all’esposto presentato anni dopo dal padre della vittima per chiedere l’apertura di indagini.
Sembrerebbe che i partigiani del savonese vollero vendicarsi dei Ghersi, su cui pendeva il sospetto di aver contribuito con le loro delazioni alla cattura e alla fucilazione di alcuni combattenti. Penetrati nell’abitazione dei Ghersi, tre membri della polizia partigiana avrebbero prelevato Giuseppina, su cui poi avrebbero infierito per ore.
Senza entrare in dettagli, sembra che prima di essere uccisa l’adolescente abbia subito il trattamento umiliante riservato alle donne accusate di aver intrattenuto relazioni con i militi repubblichini. Questo particolare potrebbe non significare nulla ed essere solo il riflesso di una sadica bestialità oppure, all’opposto, indicare che gli aggressori consideravano Giuseppina direttamente coinvolta nelle spiate dei genitori.
Quando i morti sono agitati come clave
Letto con gli occhi di oggi quanto accadde a Giuseppina Ghersi suscita sdegno e orrore senza se e senza ma. Opporsi alla volontà della giunta di Noli, perciò, è un po’ come cercare di difendere l’indifendibile - il pestaggio, la violenza carnale, l’assassinio - solo perché gli autori del crimine militavano nelle file partigiane. Ne sa qualcosa l’ANPI di Savona, che ha provato a protestare e ha incassato fulmini a destra e sinistra.
Il guaio è che in questo come in altri casi si usano i morti come una clava decontestualizzando, omettendo, annullando la differenza di valori in campo e distorcendo la memoria storica sino a costruire la narrazione più funzionale agli interessi di bottega. È stato così nell’immediato dopoguerra, quando si preferì il silenzio omertoso sugli eccessi e le vendette "per non turbare gli animi" e non disturbare quella mitopoiesi che ha imbalsamato e sistemato in una teca museale la Resistenza. Oggi nell'ostensione di una povera vittima trasformata in icona c'inzuppano il pane la feccia dell'estrema destra e i gazzettieri della solita destra cinica e sguaiata.
Nel polverone, una parola di saggezza è arrivata dal primo cittadino di Savona, Ilaria Caprioglio, cui sento di potermi associare.
“Non si deve rischiare di strumentalizzare un fatto accaduto settant’anni fa e dai contorni ancora oscuri. Quello che sappiamo è che si è trattato di una violenza terribile e di un abuso nei confronti di una bambina. Al netto dell’era fascista e di quello che significò allora, c’è stata una vita innocente spezzata, davanti alla quale credo si debba provare rispetto e silenzio. Basta urlarsi addosso l’uno con l’altro e giocare a chi si infanga di più. Non voglio parlare né di destra né di sinistra, invito a guardare alle nostre coscienze.”
giovedì, agosto 25, 2016
"Cold Case" archeologico
Qualcuno forse ricorderà l’attore Morgan Freeman nei panni del moro Azeem nel film Robin Hood, principe dei ladri (1991), ambientato nell’Inghilterra del XII secolo.
La presenza di un musulmano di colore - uomo d’arme e di raffinata cultura - dava un tocco di esotico alla trama e faceva da contraltare all'irruenza di Robin di Locksley, rampollo della piccola nobiltà educato più all'uso delle armi che ad altri saperi.
Fuori dagli artifici scenici, però, imbattersi nelle spoglie di una persona nata e cresciuta nel Nordafrica sepolte in un cimitero medievale inglese è un po' come trovare un iPhone in una tomba etrusca. Ed è esattamente quanto è successo alcuni anni fa a Ipswich, antica cittadina portuale dell'Inghilterra sud-orientale, creando i presupposti per un particolarissimo "cold case" archeologico.
Andiamo per gradiDurante i lavori di scavo per la costruzione di un complesso residenziale vengono alla luce una quindicina di sepolture di epoca medievale.
Un’equipe di archeologi, storici e medici forensi viene chiamata a esaminare i resti esumati per valutare la scoperta e inquadrarla dal punto di vista storico.
La composizione interdisciplinare del team consente di chiarire subito alcuni punti.
Innanzitutto, data la collocazione del sito si risale al camposanto attiguo al convento dei Frati Minori Francescani di cui è attestata la presenza in loco dalla fine del Duecento, ma di cui da secoli non resta alcuna traccia se non nella toponomastica (Franciscan Road) e nelle antiche mappe della città.
Inoltre, il fatto che le salme fossero state deposte in tombe singole esclude automaticamente che si trattasse di sconosciuti, servi o persone indigenti, cui nel medioevo erano destinate le fosse comuni.
Nell’esaminare i resti, uno in particolare attira l’attenzione degli esperti. Si tratta dello scheletro completo di un uomo che presenta particolarità inusuali, a cominciare dal cranio che palesa tratti somatici marcati, ben diversi da quelli della popolazione anglosassone della Ipswich medievale e più vicini, invece, alle genti del Maghreb o dell'Africa sub-sahariana.
La scoperta scatena una ridda di domande:
- Com’era arrivato e cosa ci faceva un nordafricano tanto lontano dal suo paese d'origine?
- Di cosa era morto e come mai un probabile musulmano aveva ricevuto una sepoltura considerata invidiabile in un cimitero cristiano?
A questo punto scatta un'indagine che mette in campo un arsenale scientifico e tecnico degno di CSI.
La provenienza africana viene confermata dalla composizione chimica delle ossa e dei denti rilevata utilizzando l'analisi degli isotopi stabili.
Ciò che mangiamo abitualmente, infatti, deposita una "firma" riconoscibile sui denti e nello sviluppo delle ossa. Nel caso dello sconosciuto, emerge che la dieta nei suoi primi anni di vita era stata tipica di un ambiente nordafricano dell'epoca: un buon equilibrio di pesce, carne, frutta e verdure.
Ulteriori prove giungono dal DNA, che colloca i natali dello sconosciuto nella fascia nordafricana a ridosso del Mediterraneo orientale. Le informazioni genetiche, inoltre, suggeriscono che l'uomo non avesse la pelle scura, bensì un incarnato simile a quello di molti abitanti del Marocco: più che sufficiente, tuttavia, a spiccare tra i pallidi e al massimo rubizzi anglosassoni.
Lo studio dello scheletro descrive un uomo dalla mascella forte e dalla struttura muscolare ben sviluppata, a testimonianza di un'alimentazione adeguata e di una vita attiva, senza alcun segno di privazioni o di lesioni da stress riscontrabili negli schiavi. Oltretutto, il misterioso nordafricano aveva raggiunto un'età rispettabile, intorno ai 40/45 anni, in un'epoca in cui l'aspettativa di vita in Inghilterra era di soli 33 anni.
Prendendo l'impronta tridimensionale del cranio, viene ricostruito al computer e poi su un modello plastico il volto di quello che ormai viene familiarmente chiamato "l'uomo di Ipswich" (v.di immagine a fianco)
La datazione al Radiocarbonio fissa la morte in un arco temporale che va dal 1190 al 1300. Esaminando lo scheletro, gli studiosi riscontrano che negli ultimi mesi della sua vita l'uomo ha sofferto di un ascesso spinale: un'infezione batterica che, crescendo, ha compresso i nervi e il midollo spinale provocando dolori continui e lancinanti alla schiena e agli arti inferiori.
Progredendo, la patologia avrebbe prodotto effetti invalidanti, con la perdita del controllo su vescica e sfintere, la paralisi e, infine, la morte per setticemia.
Probabilmente l'infezione era partita in modo banale: un graffio, un'abrasione o persino un pelo incarnito nella parte bassa della schiena. Oggi un simile problema verrebbe risolto con una normale terapia farmacologica, ma nell'Inghilterra medievale non erano disponibili che medicamenti a base di erbe, impiastri e unguenti preparati principalmente dai monaci erboristi.
Ed è qui che entra in scena il convento dei Frati Minori. L'uomo, presumibilmente ricco e rispettato in città, ottiene di farsi curare e accudire in convento, trascorrendo nell'infermeria gli ultimi giorni del suo calvario.
La sepoltura nel cimitero del convento potrebbe essere interpretata come un ultimo segno di riguardo o come contropartita a una generosa donazione, ma lascia aperto un dubbio: è possibile che i Francescani abbiano chiuso un occhio sulla religione dell'uomo qualora fosse stato musulmano? Era forse un convertito? Era un cristiano d'oriente?
L'equipe è riuscita a far parlare le ossa, ma molte risposte sono destinate a restare inevase: chi era quell'uomo? che lavoro svolgeva?
Si può solo ipotizzare che fosse giunto in Inghilterra a seguito della crescita dei commerci con il Medio Oriente, l'Africa e l'Asia avvenuta in parallelo alle Crociate. Forse era un mediatore, un commerciante o un incaricato d'affari che aveva aperto un fondaco nel porto di Ipswich, allora importante scalo per gli scambi commerciali tra l'Inghilterra, la Francia, le Fiandre e l'area del Baltico. La muscolatura potente non depone a favore di un tranquillo borghese sedentario e indifeso, ma non ci è dato sapere alcunché della sua vita e di suoi eventuali trascorsi avventurosi.
Chissà, magari era il vero Azeem.
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lunedì, febbraio 02, 2015
La storia è anche questione di prospettive, da rivedere
domenica, settembre 28, 2014
Doctor Henry & Mr. Tudor
Cosa trasformò il giovane, prestante (1.85), gioviale e colto sovrano ammirato nei primi anni in un despota obeso (circa 180 kg), crudele e psicotico, afflitto da svariati disturbi di salute e quasi immobilizzato da ulcere e spasmi agli arti inferiori?
In merito sono state formulate parecchie ipotesi. Si va, infatti, dalla sifilide (oggi scartata) al diabete tipo 2 non trattato, dal mixedema da ipotiroidismo al danno neurologico a seguito di una brutta caduta da cavallo, dalla sindrome di Cushing fino a malattie genetiche rare come la porfiria o la sindrome di McLeod, combinate all’ossessione per l’erede maschio e sano che non arrivava.
Anche su quest'ultimo aspetto è circolata la teoria secondo cui gli aborti spontanei e le gravidanze portate a termine con nati morti o dalla esistenza effimera che costellarono la tempestosa vita matrimoniale di Enrico VIII erano dovuti al gruppo sanguigno raro (antigene Kell Positivo - KK) ereditato dalla nonna paterna.
Di sicuro Enrico VIII d'Inghilterra visse fino a 56 anni, età assai avanzata per l’epoca, dopo poco meno di 40 anni di regno nei quali il monarca non si era negato alcun eccesso, specie a tavola.
Di contro, tutti i referti medici stilati a posteriori sono destinati a restare nel campo delle ipotesi, almeno sino a quando non sarà autorizzato un prelievo di campioni per analizzare il DNA regale.
Etichette: salute, Storia, vita e oltre la vita
domenica, luglio 07, 2013
Considerazioni frullate
Enrico il Temporeggiatore
Non che ci si aspettasse chissà quali fuochi d’artificio, ma se il governo delle larghe intese presieduto da Enrico Letta doveva segnare in qualche modo la riscossa della politica che fa politica, beh, siamo nel pieno del peggiore mezzogiorno di vuoto che si ricordi dai tempi dei monocolore “balneari” dei primi anni ’70.
Letta & Co. prendono tempo, rimandano, posticipano scadenze mentre sembrano darsi da fare sul motore sempre più ingolfato dell’Italia in crisi, ma l’impressione è che si sia davvero alla pantomima finale prima che il sipario cali su un Paese in bancarotta, clinicamente morto.
Sardegna bella e impossibile
Se la situazione del trasporto pubblico in Italia pare avviata a una progressiva, inarrestabile involuzione, la Sardegna si trova in una condizione di strangolamento che la sta relegando sempre più ai margini del flusso turistico e che penalizza il già depresso scambio di merci da e per la Penisola.
Il mondo è cambiato davvero parecchio da quando i traghetti erano il mezzo di gran lunga più popolare ed economico per spostarsi tra le due sponde del Tirreno.
Oggi forse la qualità del viaggio via mare è migliorata rispetto alle “carrette” di 30 anni fa, traboccanti di viaggiatori che bivaccavano alla meno peggio sulle poltrone dei bar e sui pavimenti di corridoi e pianerottoli, tra toilette che diventavano impraticabili e irrespirabili poche ore dopo la partenza e sistemazioni di 2a classe su cui è meglio sorvolare.
Però i prezzi per una traversata che varia dalle 11 alle 14 ore, (Genova-Olbia e Genova-Porto Torres), sono diventati roba da crociera.
Anche senza cercare i soliti picchi di alta stagione, i cari armatori che da un annetto a questa parte hanno il monopolio delle rotte sono diventati carissimi con tariffe che, comprensive di cabina e trasporto di una utilitaria, si fumano da poco meno di 500 a oltre 900 euro, peraltro con differenze tra scalo e scalo che non hanno una logica evidente.
Si dirà che si paga il lusso di trasportare la propria autovettura. Chi va in vacanza con coniuge e figli al seguito e conosce la rete viaria sarda, però, sa che sull’isola l’automobile è tutto tranne che un optional, così come lo sanno bene anche le agenzie di noleggio auto che, simpaticamente, sull’isola praticano tariffe maggiorate fino al 50% rispetto ad altre regioni d’Italia.
Tirare il collo alla gallina o spremere il limone fino all’ultima goccia non è mai stata una politica saggia, ma tanto nessuno dice niente.
Un insulto esemplare
Lo scambio al veleno tra Sir John Montagu e l’attore Samuel Foote è una vera chicca che fa impallidire gli insulti dozzinali e le sguaiate dichiarazioni di certe assolute nullità elette al parlamento italiano.
John Montagu (1718-1792), quarto Conte di Sandwich (sì, proprio quello del panino imbottito n.d.r.) e Primo Lord dell'Ammiragliato sotto il re Giorgio III, era noto per la sua corruzione, cattiva gestione e, soprattutto, per l'inclinazione patologica al gioco d'azzardo. Il nobiluomo inglese era così dipendente dalle carte da andare da pub in pub e da club in club, a Londra, in vere e proprie maratone di gioco d'azzardo che proseguivano per giorni interi, senza interruzioni neanche per mangiare poiché il tempo trascorso lontano dal tavolo verde era, a suo parere, tempo sprecato.
Come molti appartenenti a una casta prima e dopo di lui, Montagu era tanto indulgente verso se stesso in privato quanto arci-conservatore e moralista in pubblico.
Montagu: “Mi sono chiesto spesso, Foote, quale catastrofe la spedirà prima all’altro mondo, se la sifilide o la forca”
Foote: “Milord, ciò dipenderà da una di queste due circostanze: che io abbracci la vostra amante oppure i vostri principi”
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domenica, aprile 15, 2012
L'istrionica Santanchè
Daniela Santanchè è il classico personaggio pubblico discutibile, intelligente e scaltro, che sguazza nei meccanismi della comunicazione di massa come un pesce in un acquario.
Si è cucita addosso un’immagine vistosa da amazzone chic pronta a gettarsi a corpo morto nelle risse verbali ricorrendo a pose e ad artifici polemici eccessivi, consapevole che ciò le assicura una rendita di visibilità perché è esattamente quello che ci si aspetta da lei per fare rumore e alzare l’audience.
In altre parole, l’istrionica Danielona “buca il video” recitando a soggetto per la sua e l’altrui convenienza.

Superficialmente, il punto di contatto sarebbe rappresentato dal fatto che Nilde Iotti, molto prima di diventare il primo presidente donna della Camera dei Deputati, è stata l’amante del leader del PCI Palmiro Togliatti, sposato e con figli, in un rapporto more uxorio per nulla clandestino, ma che nell’Italia pudica e bacchettona del Dopoguerra era considerato un argomento tabù.
La tesi - se così si può dire - di Daniela Santanchè è che Nicole Minetti abbia ricalcato le orme di Nilde Iotti sfruttando sagacemente la sua chiacchierata “vicinanza” a Silvio Berlusconi come scorciatoia per entrare in politica.
Due storie al femminile tanto diverse per contesto storico, sociale e umano non meritano di essere accostate, anche perché il confronto va a tutto sfavore di Nicole Minetti, che senza dubbio ha beneficiato della benevolenza del tycoon di Arcore, ma che dal punto di vista politico è poco più di una ben pagata comparsa, per di più braccata da curiosità morbose e da una situazione processuale alquanto scomoda.
Di fatto, l’ingombrante iperbole partorita dalla fertile mente di Daniela Santanchè carica di ulteriore zavorra le spalle di una donna che deve ancora dimostrare di non essere solo una pallida meteora.
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martedì, marzo 20, 2012
Archeologia: un altro "cugino" per l'uomo?
I resti di almeno 5 individui appartenenti a una specie di ominidi finora non catalogata, vissuti tra 11.500 e 14.500 anni fa, sono oggetto di studi da parte di paleoantropologi e scienziati.
Al momento di loro si parla informalmente come "la gente della caverna del cervo rosso", dal nome di uno dei siti dove sono state rinvenute le ossa, mentre è prematura qualsiasi loro collocazione nell'albero genealogico della specie umana.
Dagli esami finora effettuati appare evidente che il "nuovo arrivato" si distingue per una singolare commistione di caratteristiche moderne e tratti arcaici.
In generale, gli individui avevano crani di forma rotondeggiante e dalla struttura ossea spessa.
Come appare nell'illustrazione, i volti risultavano piuttosto corti e piatti, con arcate sopraccigliari sporgenti, nasi ampi e una mascella prominente, ma priva di un mento simile al nostro.
L'esame della dentatura, inoltre, ha rivelato la presenza di molari ampi e robusti.
La scansione della cavità celebrale effettuata a mezzo di Tomografia Computerizzata indica che questi ominidi avevano lobi frontali di aspetto moderno, ma anche lobi parietali di tipo alquanto arcaico.
In attesa che gli studi scientifici e l'esame del DNA definiscano meglio il quadro della situazione, sulla gente della caverna del cervo rosso si possono avanzare alcune congetture:
- potrebbero discendere da un gruppo di antenati diretti dell'homo sapiens con caratteristiche ancora primitive che si è mosso in anticipo dalla culla africana e, arrivato nel sud della Cina, si è isolato fino all'estinzione;
- potrebbe essere una variante di homo sapiens che si è evoluta localmente per adattarsi a particolari condizioni ambientali;
- potrebbe trattarsi di una specie di ominidi appartenente a un ramo collaterale e distinto dall'homo sapiens che si è evoluta in Asia parallelamente a quest'ultimo fino a tempi piuttosto recenti (stiamo parlando di un'epoca prossima alle primissime forme di agricoltura);
- infine, potrebbe essere una popolazione frutto di una ibridazione avvenuta localmente tra homo sapiens e ominidi più arcaici stanziati nell'area.
Vedremo, spero presto, quali sorprese ha in serbo per noi questo clandestino della paleoantropologia.
sabato, luglio 23, 2011
storie minute 2
San Bardilio
Le ho dato la caccia per anni ai tempi dell’università scartabellando volumi polverosi e raccolte di dagherrotipi ingialliti senza alcun risultato, al punto di convincermi che non esistesse: invece giusto una settimana fa è saltata fuori in una pagina di Facebook.
Sto parlando di questa foto d’inizio Novecento, scattata da Max Leopold Wagner, che ritrae la facciata dimessa, rosa dall’umidità e dalla salsedine, della chiesa intitolata a San Bardilio martire a Cagliari (immagine ©Ilisso Edizioni/Fondazione Wagner, Nuoro).
Perché mi incuriosiva tanto questa particolare immagine?
Perché la chiesa raffigurata è stata demolita nel 1929 per allargare il cimitero monumentale di Bonaria e, sebbene risalisse all’alto medioevo (se ne hanno notizie dal X secolo), non è stata solo cancellata dal paesaggio, ma anche completamente rimossa dalla memoria.
L’antica Sancta Maria ad Portu Gruttis o Sancta Maria de Portu Salis, edificata ai piedi del colle di Bonaria per essere il fulcro religioso del quartiere portuale romano e alto-medievale di Bagnaria, versava già in precarie condizioni di conservazione quando ne scriveva il Canonico Giovanni Spano, erudito autore della Guida di Cagliari e dei suoi dintorni data alle stampe nel 1856.
Ridotta a un pallido e patetico relitto, sconsacrata, la chiesa di San Bardilio non ha retto al disinteresse dei vivi e alle necessità dell’ultimo riposo dei defunti: è sparita in silenzio, portando con sé nel dimenticatoio un tassello dell’arte e della storia di Cagliari.
Per chi volesse approfondire c’è, neanche a dirlo, questa pagina Wiki.
Clienti infernali
Nel mio lavoro capita di sentire i clienti chiedere e, a volte, pretendere a muso duro cose assurde o irrealizzabili, oppure modifiche ridicole o di pessimo gusto.
Molto spesso il cliente ha un’idea vaga del risultato finale che vuole ottenere: ha bisogno di vedere cosa NON vuole o NON gli piace per dare indicazioni utili al team che lavora sul progetto.
Non potendo, per obblighi di riservatezza, entrare nell’aneddotica dell’agenzia per cui lavoro, ho tradotto qualche passo significativo della raccolta “Clienti venuti dall’inferno”.
Pesi e misure
Cliente: «Il logo distoglie l’attenzione dal testo. Ci piacerebbe che il testo fosse reso più grosso ed evidente»
Il team effettua i cambiamenti e rispedisce il progetto al cliente.
Cliente: «Ci piace come avete reso molto più evidente il testo, però ora il logo non spicca più abbastanza. Potreste evidenziarlo allo stesso modo?»
Più bianco del bianco
Cliente: «Voglio che lo sfondo sia più brillante e più bianco»
Web Designer: «Il colore attuale di sfondo è #FFFFFF: è il massimo del bianco che posso ottenere»
Cliente: «No, ti sto dicendo che può, anzi deve essere più bianco!»
Dopo quasi un ora di discussione al telefono, il cliente invia un file powerpoint con l’immagine di una nuvola e una freccia ad evidenziare l'area con il punto di bianco ritenuto appropriato.
Il web designer misura il colore con lo strumento color picker: è #FFFFFF. Telefona al cliente per avvisarlo che ha inviato il file con le modifiche richieste.
Cliente: «Grazie! Era tanto difficile ammettere che avevi torto?»
Un cliente che sa quello che vuole
Cliente: «Mi piace il design, il logo e le foto, ma lo schema colore non mi fa impazzire…»
Grafico: «Ha in mente qualche colore in particolare?»
Cliente: «No, ma vorrei che somigliasse al bianco e nero, a colori però»
Etichette: copy e dintorni, Sardegna, Storia
domenica, gennaio 16, 2011
Mid-January Resume
La Calunnia del Sangue

Immediatamente additata come mandante morale della strage di Tucson, dove il ventiduenne Jared Lee Loughner ha aperto il fuoco contro un gruppo che ascoltava la deputata democratica Gabrielle Giffords ferendo gravemente quest'ultima, uccidendo 6 persone e ferendone altre 12, Sarah Palin è insorta con un comunicato in cui ha diffidato la stampa dal fabbricare contro di lei una “Calunnia del Sangue”.

Il riferimento, infatti, è a una diceria antisemita diffusa nel medioevo che imputava ai “perfidi giudei” la pratica del rapimento e dell’uccisione rituale di bambini cristiani al fine di bere o di impastare il loro sangue nel pane azzimo in occasione della Pasqua ebraica (un esempio alla voce San Simonino su Wikipedia).
Ironia della storia, i cristiani avevano ritorto contro gli ebrei un’accusa infamante circolata a Roma ai primordi del cristianesimo e riportata da alcuni autori classici, ovverosia che l’eucarestia fosse un rito barbaro e truculento che richiedeva il sacrificio di inermi fanciulli.
È evidente che la scelta di un termine così sofisticato, il cui significato poteva essere colto solo da chi è ferrato in storia medievale e dagli intellettuali ebrei, non è farina del sacco della Palin ed è tutto fuorché casuale.
C'è da pensare che lo spin doctor che lavora nello staff di Sarah Palin volesse mandare un messaggio trasversale ai giornalisti e alle lobby ebraiche affinché moderassero i commenti e le reazioni critiche nei confronti dell’ex governatrice dell’Alaska, rea di aver avallato sul suo sito la lista nera dei bersagli del movimento dei Tea Party nella quale Gabrielle Giffords - ebrea, liberale, sostenitrice della ricerca sulle cellule staminali - figurava ai primi posti.
In ogni caso la citazione colta, messa in bocca alla “supercafona” Sarah Palin, ha avuto il suono sgradevole di un avvertimento rozzo e inappropriato, esattamente come le recenti esternazioni dell’eurodeputato Borghezio sugli abruzzesi “peso morto”.
Noi umani
Trovo ammirevole questo video diffuso dalla NASA: spero condividiate.
Rabbia e ironia su Carta da Musica

Nel nostro Paese, dove tutti segretamente si sentono scrittori, cantanti, musicisti, pittori e scultori, chi ha qualcosa da esprimere è guardato con sufficienza e compatimento, quasi fosse un disadattato, un mitomane, un ciarlatano o un nullafacente in cerca di un mezzo per sbarcare il lunario a sbafo.
Questo vale per chi esce da Accademie e Conservatori e, a maggior ragione, per personalità eclettiche, fuori dei circuiti e dei salotti che contano, come Donatella D’Angelo e Valerio Pisano.
A quest’ultimo, autore di disegni a penna e creazioni cariche di sardonica ironia, appartiene la chimerica “Chitarra da pesca” dell’immagine.
Cattivo gusto o sapido umorismo?

Non è una campagna pubblicitaria recentissima, ma la ripropongo per aprire (se possibile) una piccola finestra di discussione sul buono/cattivo gusto in pubblicità.
Spesso, infatti, ci scandalizziamo - a ragione - degli exploit dei pubblicitari di casa nostra come quello dell’incorreggibile Oliviero Toscani per il Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale (primo piano di peluria pubica femminile), senza avere la percezione di quanto siano frequenti e grevi nell’advertising internazionale gli ammiccamenti al bric à brac erotico maschile.
Questa campagna per BMW, ad esempio, potrebbe essere ribattezzata, in omaggio a un modo di dire prettamente maschile, “Basta che respiri... e abbia una carta di credito Platinum”.
L’ironia starebbe nel rovesciamento dei ruoli rispetto allo stereotipo dell’uomo rattuso (per cui ogni buco è pertuso), capace di copulare meccanicamente con qualsiasi rappresentante del sesso femminile a disposizione nascondendone all'occasione le fattezze non gradite con un cuscino.
Buona settimana
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