giovedì, agosto 25, 2022

 

La schiavitù raccontata in prima persona



Se avete una certa età probabilmente ricorderete “Radici”, successo televisivo tratto dal bestseller dello scrittore afroamericano Alex Haley.
Rispetto alla saga familiare ricostruita nel romanzo di Haley, “The Life of Omar ibn Said” si colloca a monte. Questa autobiografia scritta in arabo, infatti, recuperata dopo oltre un secolo da un baule conservato in Virginia e acquisita dalla Biblioteca del Congresso, rappresenta una rara testimonianza in prima persona della tratta degli schiavi e della schiavitù.

1807: il venticinquenne Omar Ibn Said, membro di un’agiata famiglia senegalese, ben istruito e avviato a una carriera da Ālim (esperto in teologia, esegesi coranica e diritto) viene catturato da una banda di negrieri che fa strage lungo il percorso verso la costa, dove viene imbarcato nella stiva di una nave pronta a salpare per gli Stati Uniti.

Dopo oltre due mesi di navigazione in condizioni disumane, Omar viene sbarcato e venduto come schiavo al mercato di Charleston (Carolina del Sud). Per sua sfortuna, finisce nelle grinfie di uno schiavista locale crudele e incline alla violenza che Omar, in seguito, descriverà come senza un briciolo di umanità e totalmente privo di rispetto sia per la religione che per il Dio dei cristiani.

Omar riesce a scappare, ma la sua fuga termina a Fayetteville (Carolina del Nord), dove viene sorpreso intento in preghiera all’interno di una chiesa.
Imprigionato, Omar suscita scalpore mettendosi a scrivere in arabo sui muri della cella, smentendo il luogo comune che voleva gli schiavi africani selvaggi, carenti sul piano intellettivo e del tutto illetterati. Questo attira l’attenzione del facoltoso generale James Owen, che acquista Omar.

Consapevole di aver acquisito uno schiavo colto e musulmano, secondo lo spirito pio e "illuminato" dell’epoca Owen dona a Omar una copia della Bibbia tradotta in arabo.
Dal canto suo, Omar è abile nel compiacere il nuovo padrone mostrando di volersi integrare nella famiglia e nella comunità. Nel 1821 si fa battezzare, divenendo così un rispettato membro della locale chiesa presbiteriana.
Dal diario, però, appare chiaro che Omar applicò la Taqiyya, ossia la facoltà di simulare la conversione a un'altra religione e di adottare i costumi degli infedeli in presenza di un pericolo grave o di una persecuzione. Nella sua copia della Bibbia, infatti, annotò shure e passi del Corano o invocazioni rituali ad Allah, ovviamente incomprensibili per i membri della congregazione.

La scrittura del diario in arabo viene intrapresa da Omar quando ha superato la sessantina. L’autobiografia, infatti, è introdotta da queste righe: “Mi hai chiesto di scrivere la mia vita... Molto ho dimenticato del mio passato, così come della lingua araba. Non so più scrivere nella grammatica corretta o secondo i canoni del vero idioma. Perciò ti prego, fratello mio, in nome di Dio non biasimarmi perché sono un uomo dagli occhi deboli e dal corpo fiaccato”.
Omar ibn Said muore all’età di 94 anni.

Sebbene non esista una stima precisa sul numero di musulmani condotti come schiavi negli USA, è presumibile che lo fossero oltre il 40% degli africani catturati nelle nazioni equatoriali affacciate sul Golfo di Guinea.
In larghissima parte, la religione professata in Africa prima della riduzione in schiavitù è stata tra gli elementi identitari più velocemente cancellati sin dalla prima generazione; ciò a causa della convergenza tra le pressioni esercitate dai proprietari bianchi e un fenomeno di auto-censura e rimozione di un ricordo insieme doloroso e pericoloso.

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