lunedì, giugno 13, 2022

 

Teach the adults well



Nell'epoca dei Social la memoria rischia di essere labile come quella della pesciolina co-protagonista di un noto film di animazione. Per questo mi sono permesso di fare, a futura memoria, il copia e incolla di un lungo "rocchetto di filo" (thread composto da più tweet concatenati) sull'insegnamento a un corso di formazione per adulti di Lari (@La_Ri71) che mi ha colpito.
Buona lettura.



Questo pomeriggio ho consegnato il diploma alla mia classe: la A19. Quella che ha iniziato con me e finito con me. 280 ore di formazione serali, con la neve, la pioggia, l’afa. Questo pomeriggio ho detto loro: “Ciao” ma avrei voluto dire altro. Ad esempio: “Mi mancherete tanto”.

Insegnare ad un adulto è complicato. Non per la didattica, per le metodologie, per gli orari. Formare un adulto è complesso perché bisogna tenere in considerazione un bagaglio spesso trascurato; le loro emozioni.

Così, il 15 febbraio 2020, quando siamo partiti, io in aula mi sono ritrovata 18 uomini per lo più scontenti, quasi incattiviti. Perché loro, lì, non ci volevano venire. Perché a un certo punto il mercato del lavoro a loro dice: “È necessario almeno il diploma di base”. E loro, che sanno lavorare bene, sanno farlo davvero bene, a scuola invece non sanno starci. Quella sera, quella dell’accoglienza del “ecco i libri” del “istituiamo le regole?”, loro avrebbero voluto essere da qualsiasi altra parte, ma non lì.

E allora bisogna lavorare sulle emozioni che queste persone provano, bisogna capire cosa li blocca, quali sono le resistenze. E non è né semplice né veloce; da fare. Perché non si può mica chiedere, a M., ad esempio, “Ehi, che c’è che non va?” perché M. non avrebbe risposto, nella migliore delle ipotesi. E allora si scoprono le resistenze strada facendo. Lezione dopo lezione, ora dopo ora. Guardandoli. Soprattutto guardandoli.

Guardandoli ho visto che M., sempre lui, non sapeva scrivere molto bene il suo nome, il suo indirizzo. Che quando leggeva segnava con il dito la riga e muoveva contemporaneamente le labbra scuotendo la testa. Che quando dicevo: “Scrivete questo” lui non scriveva mai.

Guardandoli ho visto che C. e G. non si sopportavano. Troppo diversi, troppo distanti.
C. così possente così muscoloso arriva da Santo Domingo e la lingua italiana la parla ancora un po’ approssimativamente. G. viene da Caserta e soffre immensamente la lontananza da casa. C. quando si arrabbia parla in spagnolo, G. quando si arrabbia tira fuori certe espressioni che io ogni volta gli chiedevo: “Ma che hai detto?”.

C. e G., sempre strada facendo, sono diventati inseparabili.
C. quando abbraccia G. rischia di incrinargli qualche costola, perché G. è piccino e magro magro. Guardandoli ho capito che non era fattibile parlare solo di matematica. Che questi uomini così male assortiti così perfettamente professionali così immensamente vivi avevano bisogno anche di altro.

Un altro fatto di: “Prof ho ricevuto questa lettera, non so come devo rispondere”, “Prof puoi correggere i compiti di mia figlia? Io non ci capisco niente e lei ha l’interrogazione”, “Prof siamo stati sulla piattaforma tanto, possiamo fare altro?”, “Prof questa sera ce la fai ascoltare la trasmissione del calcio in radio?”.

Guardandoli ho capito che la didattica è anche questo, che insegnare a un adulto a volte significa mettere da parte il programma e considerare le loro emozioni. Che insegnare a un adulto significa, anche, dover fare i conti con la vergogna. Un’emozione forte ed invalidante. E io, la vergogna, la loro, l’ho sentita: viva e veemente. L’ho sentita quando li guardavo scrivere, utilizzare la calcolatrice, girare le pagine dei libri. E nessuno dovrebbe mai provare vergogna, perché la vergogna è un’emozione feroce. Perché chi si siede dietro a un banco dovrebbe sentirsi in qualunque modo; mai in difetto.

Questo pomeriggio io li ho salutati. Li ho chiamati uno per uno, sul piccolo palco, a ritirare quel pezzetto di carta che sono certa, oggi hanno apprezzato. Che sono certa oggi sono riusciti a capire quanto valore ha. Che non è quello del mercato del lavoro, no. È il valore del sacrificio, della fatica, dell’investimento, della costanza e della vergogna che ingiustamente hanno provato.

Oggi, per la prima volta, li ho visti arrivare accompagnati dalle loro mogli, dai figli. Li ho guardati; vestiti non da lavoro ma con la giacca la camicia le scarpe eleganti.
G. e C. si sono stretti forte. Per un attimo ho temuto per l’incolumità di G. C., però, ha imparato le frazioni ma anche ad abbracciare “moderatamente”. M. che fatica a scrivere ma io l’ho visto salire su una piattaforma con l’eleganza di una ballerina della Scala. Oggi indossava una camicia bianca elegantissima, si è avvicinato e mi ha detto: “Prof, questa è mia moglie. È bella vero?”.

Lei si è un po’ vergognata, si vedeva che era a disagio. Lui le ha preso la mano e le ha detto: “Non ti vergognare. La Prof lo dice sempre, che non ci si deve vergognare. Che la vergogna nasce dalla nostra sensazione di sentirci un po’ spaesati, fuori contesto, inadeguati. Ma tu sei bella davvero, guardati attorno, sei la più bella!”.

Perché loro, in questi due anni, non hanno solo imparato a calcolare, a ragionare “matematicamente”. In questi due anni hanno imparato, loro e io con loro, a guardare. Spesso oltre. Ed esiste qualcosa di più bello di più intenso che imparare, di nuovo, a guardare? A guardare oltre? Guardarsi e riscoprirsi. Vestiti con abiti nuovi. Quelli della indulgenza.

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