martedì, luglio 01, 2025
La vittoria del bullismo negoziale trumpiano
Il ministro delle finanze Giorgetti ha definito l'accordo raggiunto in sede OCSE sull'esenzione delle big tech statunitensi dalla Global Minimum Tax come “un compromesso onorevole” che protegge le imprese italiane dalle ritorsioni automatiche originariamente contenute dalla Clausola 899 del Big Beautiful Bill, la manovra economica dell'amministrazione Trump in via di approvazione al Senato USA.
Benché la mia opinione conti come il proverbiale due di coppe quando la briscola è bastoni, a mio avviso l’accordo segna una vittoria per il bullismo trumpiano e una cocente capitolazione davanti a una estorsione per gli altri Paesi OCSE.
Bandiera bianca
Da una parte è comprensibile che si sia preferito cedere alle pretese di Trump per non rendere ancora più complicata e incandescente la negoziazione in corso sui dazi che gli USA intendono applicare sulle merci e servizi importati negli Stati Uniti. Dall’altra, tuttavia, si legittima una devianza creando un precedente pericoloso.
Per capirci, la riunione dell’OCSE aveva tra i principali punti in discussione un argomento spinoso: l’approvazione definitiva della Global Minimum Tax, normativa che prevede un livello base di imposizione per le imprese multinazionali o nazionali che abbiano ottenuto ricavi superiori a 750 milioni di Euro in almeno 2 dei 4 esercizi precedenti.
La normativa è concepita per porre un freno all’erosione fiscale e al trasferimento di utili attraverso l’imputazione a soggetto adempiente di una sede legale o di una filiale situata in Paesi con fiscalità di vantaggio.
Minacciando come suo solito ritorsioni immediate e agitando lo spauracchio della Clausola 899 - poi ritirata dal Dipartimento al Tesoro - Trump ha portato a casa l’esenzione delle multinazionali USA, fissando così un privilegio apertamente antitetico alla ratio delle norme in discussione.
L’arma dei dazi ritorsivi
È istruttivo esaminare il meccanismo della Clausola 899 citata da Giorgetti, così come le ragioni che hanno portato al suo ritiro e che, all’inverso, potrebbero favorire la sua riproposizione strumentale in futuro.
La Clausola 899 avrebbe conferito al Dipartimento al Tesoro USA il potere discrezionale, basato su valutazioni politiche più che economico-finanziarie, di far scattare anno per anno dazi ritorsivi contro i governi che che, a suo giudizio, avessero vessato e trattato ingiustamente le aziende statunitensi.
Attenzione però: la clausola non sarebbe andata a colpire i governi “cattivi”, prendendo invece di mira persone e aziende con legami con "Paesi stranieri discriminatori”.
Tra le potenziali vittime delle ritorsioni, infatti, sarebbero rientrate persone fisiche straniere, società la cui maggioranza azionaria non fosse detenuta da cittadini statunitensi, fondazioni e trust privati; in sostanza, qualsiasi società o struttura estera proveniente dalle giurisdizioni messe di volta in volta nel mirino.
L’obiettivo era chiaro: causare danni economici consistenti alle aziende e agli investitori esteri.
Il meccanismo principale era un aumento annuale del 5% delle aliquote fiscali sul reddito statunitense da dividendi e royalties, plusvalenze e vendite immobiliari delle "persone applicabili”. Le eccezioni contemplate erano pochissime: la Clausola, infatti, avrebbe annullato anche la Sezione 892, che esenta dalla tassazione i fondi sovrani.
A condurre al ritiro della Clausola 899 dalla manovra finanziaria sono state le reazioni allarmate di grandi investitori e analisti finanziari. L’opacità dei criteri per far scattare automaticamente i dazi ritorsivi e, soprattutto, la loro imprevedibilità avrebbero potuto generare insicurezza, scatenando un effetto boomerang sugli investimenti esteri negli USA, vitali per un’economia su cui pesano oltre 3.000 miliardi di debito pubblico da rifinanziare.
In conclusione, la Clausola 899 era un’arma di pressione difettosa, ma nella logica del bullismo negoziale seguita da Donald Trump questo aspetto era del tutto secondario rispetto al suo potenziale come leva intimidatoria. Perciò nessuno può escludere che - “buona la prima” - gli Stati Uniti si serviranno ancora in futuro di simili stratagemmi a danno dei suoi partner commerciali.
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venerdì, maggio 30, 2025
Dagli amici mi guardi Iddio...
Immaginate per un momento che un collega o un conoscente americano vi mandi una mail in cui scrive:
Ciao,
ti scrivo perché sono preoccupato per la tua situazione.
Mi spiace tanto che sia costretto a vivere in un’Europa abbruttita e in declino, votata al suicidio a causa di burocrati non eletti che hanno rinnegato i valori civili e religiosi dell’Occidente, patrimonio comune di noi americani e voi europei, e che stanno operando la sostituzione etnica attraverso l’accoglienza ai migranti.
Non so proprio come possiate sopportare questa élite laicista che calpesta apertamente la democrazia, odia e teme la libertà di espressione, perseguita i cristiani, utilizza la censura e la magistratura per reprimere il dissenso e mettere fuori gioco i partiti che hanno a cuore l’identità e la sicurezza delle loro nazioni come AfD in Germania e il Rassemblement National in Francia.
Ti pare accettabile che uno statista come Viktor Orban sia trattato dalla UE come un appestato o che le elezioni siano falsate in Romania e Polonia? non credo.
Malgrado questo, resto fiducioso che le cose presto cambieranno e che l’Europa si riallineerà agli Stati Uniti sulla base della comune identità culturale e cristiana.
Ipoteticamente, la mia reazione a questa mail oscillerebbe dall’inserire all’istante il mittente nello SPAM al chiedergli informazioni sui suoi fornitori di fumo e alcolici.
"Ricivilizzare" l'Europa
Ora possiamo smettere di immaginare e torniamo (purtroppo) con i piedi per terra. La narrazione distopica che avete letto è il succo del documento/manifesto "The Need for Civilizational Allies in Europe” ospitato dal 27 maggio scorso sul substack di cui il Dipartimento di Stato USA si serve per pubblicare discorsi programmatici, linee guida e documenti strategici.
L’autore, Samuel Samson, si fregia dell’incarico di consulente senior dell’Ufficio Democrazia, Diritti Umani e Lavoro (...) del Dipartimento guidato da Marco Rubio.
Il documento riprende e approfondisce i cardini del discorso-shock di J.D Vance alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco. Si tratta di una narrazione mistificante della situazione in Europa che disturba e allarma perché conferma l’impianto ideologico e gli obiettivi dell’amministrazione Trump nelle relazioni con l’Unione Europea: fare implodere la già instabile architettura della UE favorendo l’ascesa al potere dei partiti populisti e ultra-nazionalisti di estrema Destra. Si spiega così il titolo vago “La necessità di alleati civilizzanti in Europa”.
Non sfugge, peraltro, la specularità con le posizioni visceralmente anti-europee di intellettuali quali Aleksandr Dugin e di altri esponenti di spicco del nazionalismo russo fatte proprie da Vladimir Putin per nobilitare le sue politiche neoimperialiste e neozariste.
Con buona pace di chi aspira al ruolo di pontiere tra le due sponde dell’Atlantico, sembra proprio che sia lo zio Sam sia l’orso russo guardino all’Europa come a un grosso, grasso e stupido pesce destinato a finire nella padella di uno di due. Come recita il proverbio: “dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”.
Lascio qui il link al documento originale in inglese. Un ringraziamento particolare al professor Fabio Sabatini per l’imbeccata.
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mercoledì, marzo 26, 2025
This is not America
Prendiamo atto che sull’altra sponda dell’Atlantico è salita al potere gente a corto d'esperienza e di buone maniere; gente che non fa mistero di guardare all'Europa come a un consesso di bottegai avidi, rammolliti e pusillanimi cui va insegnato chi comanda e qual è il loro posto a tavola.
C’è un vicepresidente di belle speranze che nella sconsiderata chat di gruppo su Signal non si trattiene dal vomitare il suo disprezzo verso noi europei e la stizza perché i nostri commerci potrebbero beneficiare delle operazioni belliche decise unilatralmente dallo Zio Sam.
C’è un presidente che, non potendo negare oltre l’esistenza di una falla nella sicurezza nazionale causata dai dilettanti che ha nominato al governo, rincara la dose definendoci parassiti.
C’è, infine, l’incontinente deputata ultra-MAGA che, in conferenza stampa, zittisce una giornalista britannica di Sky News dicendole a muso duro: ”Non ce ne frega un ca**o della tua opinione. Tornatene al tuo paese che ha un enorme problema con l’immigrazione”
Prendiamo atto anche che da noi è in corso una gara tra esponenti del governo a chi si aggiudica l'ambito ruolo di scendiletto preferito delle deliziose personcine di cui sopra.
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lunedì, ottobre 10, 2022
In memoria di Antonio Russo, reporter scomodo e dimenticato
La mattina del 16 ottobre 2000 il cadavere di Antonio Russo, 40 anni, reporter free lance e collaboratore di Radio Radicale, veniva trovato sul ciglio di una strada poco frequentata a circa 25 km da Tbilisi, capitale della Georgia.
L’esame autoptico accerterà che il corpo del reporter, apparentemente integro, presentava lo sfondamento della cassa toracica e diffuse lesioni agli organi interni compatibili con un pestaggio condotto con tecniche in uso presso unità militari specializzate. Inoltre, l’alloggio di Russo a Tbilisi risultò svaligiato da ignoti che avevano fatto sparire bloc-notes, articoli, registratore, videocamera, nastri audio e video e il telefono satellitare, disdegnando denaro e altri oggetti di valore.
Qui finiscono le poche certezze: a distanza di 22 anni la morte di Antonio Russo è rimasta un cold case archiviato e, in larga misura, dimenticato. Le indagini condotte dalla Procura di Roma e dagli inquirenti georgiani, infatti, si conclusero in un nulla di fatto.
A questo punto, però, è necessario chiarire chi era Antonio Russo e cosa l’ha condotto a morire in Georgia.
Un reporter anomalo e scomodo
Antonio Russo approda al giornalismo alla fine degli anni ’80 proveniente dall’esperienza politica nelle file dei giovani federalisti e dei Radicali. E’ un reporter “anomalo” a cominciare dal rifiuto di sottostare alla trafila per l’iscrizione all’albo dei giornalisti. Malgrado la mancanza del tesserino, che talvolta gli verrà fatta pesare trattandolo da “abusivo”, Russo impara sul campo il mestiere dell’inviato di guerra seguendo i conflitti in Algeria, Rwanda, Zaire, Bosnia e Kosovo.
A Pristina, Antonio Russo è l’ultimo giornalista occidentale a lasciare la città nonostante i bombardamenti e l’ultimatum impartito da Slobodan Milosevic. Sa di essere finito nel mirino delle autorità di Belgrado a causa delle sue corrispondenze per Radio Radicale in cui denunciava le operazioni di pulizia etnica contro i kossovari di etnia albanese. Così quando le truppe serbe iniziano i rastrellamenti casa per casa, si mette in salvo rocambolescamente salendo su un convoglio di profughi diretto verso la Macedonia del Nord. Rimasto bloccato al confine, viene dato per disperso finché non raggiunge Skopje a piedi.
Le posizioni sul conflitto in Kosovo e sull’intervento militare della NATO espresse senza alcuna concessione alla diplomazia in collegamento con Radio Radicale e con il talk show Moby Dick di Michele Santoro procurano a Russo più problemi che benefici anche in Italia, tant'è vero che alla stazione ferroviaria di Mestre, di ritorno da un convegno a Treviso, viene riconosciuto, contestato e malmenato da un gruppo di pacifisti reduci da una manifestazione anti-NATO svoltasi ad Aviano.
Cecenia
Antonio Russo si trasferisce nella Repubblica di Georgia allo scopo di seguire, attraverso canali non ufficiali, la seconda guerra cecena.
Entrare in Cecenia a ostilità iniziate senza essere giornalisti accreditati da Mosca significava rischiare di essere passati per le armi sul posto dalle forze russe oppure finire catturati e uccisi dai separatisti musulmani perché scambiati per spie.
Malgrado la frontiera sia sigillata, Russo ricava dalle informazioni che filtrano in Georgia la conferma della volontà di Putin di sradicare il focolaio islamista nel Caucaso definitivamente e a qualsiasi costo, incluso il ricorso ad armamenti e tattiche di controguerriglia in deroga alle convenzioni internazionali.
Pochi giorni giorni prima di essere assassinato, Russo telefona ai familiari annunciando il rientro in Italia e accenna di aver acquisto un video scioccante sulle atrocità commesse dall’esercito russo e dai suoi alleati ceceni del clan Kadyrov. Secondo alcuni amici, il reporter avrebbe ottenuto le prove dell’impiego di granate all’uranio impoverito oppure di torture e massacri su donne e bambini; si tratta, però, di mere supposizioni.
Nonostante l’assenza di prove, è plausibile che Russo con quell’ultima telefonata a casa abbia firmato la propria condanna a morte. Resta un mistero insondabile come un inviato di guerra esperto abbia potuto lasciarsi andare al telefono a rivelazioni tanto incaute, quasi avesse deciso di sfidare la sorte mettendo alla prova la reattività degli apparati di intelligence russi o di altri Paesi.
Al di là di un'incongruenza forse rivelatasi esiziale, Antonio Russo merita di essere ricordato per il suo essere stato un hombre vertical, spigoloso, scomodo ma anche eticamente integro nell'assolvere la professione di giornalista e inviato di guerra.
«Fondamentalmente dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna sempre tener presente che chi è dall’altra parte deve poter comprendere una realtà in cui non è presente. Questo, penso, è il massimo sforzo che i giornalisti devono compiere.»
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giovedì, marzo 24, 2022
Gagauzia e l’Europa dell’Est delle piccole storie complicate
L’invasione russa dell’Ucraina ha risvegliato dolorosamente la consapevolezza di come, a 30 anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’assetto di tutta l’ampia fascia di Europa Orientale che va dalle repubbliche baltiche a Nord ai contrafforti del Caucaso a Sud-Est sia fragile e precario. E’ comprensibile, perciò, che nazioni come la Georgia e la Moldova siano in fibrillazione temendo che l’orso russo non si accontenti di appendere lo scalpo dell’Ucraina alla cintura ma abbia mire espansionistiche anche nei loro confronti.
La piccola e pacifica Moldavia/Moldova, poco più vasta del Belgio, solo negli ultimi anni ha cominciato a risalire la china dalla devastante crisi economica post-indipendenza che ha portato circa il 25% della popolazione a emigrare nel ventennio 1990-2010 (i moldavi sono la terza comunità straniera in Italia). Farebbe volentieri a meno, perciò, di essere riportata con le buone o le cattive nell’orbita di Mosca e, se solo potesse, sceglierebbe di entrare nell’Unione Europea anche domani.
A preoccupare e condizionare Chişinău non c’è solo la storica spina nel fianco della repubblica (separatista) di Transnistria, che le forze russe potrebbero facilmente utilizzare come testa di ponte, ma anche la situazione nella entità territoriale autonoma della Gagauzia, dove le spinte secessioniste e filo-russe sono sempre sul punto di deflagrare.
Gagauzia???
“Hai mai sentito parlare della Gagauzia?” è quasi una domanda retorica. Senza l’aiuto di Google e Wikipedia, la stragrande maggioranza degli italiani ignora l’esistenza di quest’angolo del Sud della Moldova a due passi dal confine con l’Ucraina meridionale.
In altre parole, se la Moldova ultimamente vanta un crescente numero di estimatori come meta turistica low cost e la fosca Transnistria incuriosisce con le sue atmosfere sovietiche alla “Goodbye Lenin”, la Gagauzia sembra quasi volersi nascondere agli occhi del mondo.
La scena, però, cambia se si pensa che a un’ora e mezza di macchina dalla capitale Chişinău la Repubblica Moldova (quasi) cessa di esistere. Formalmente si resta in territorio moldavo, non ci sono valichi di frontiera da superare e il paesaggio agricolo non muta. Tuttavia spariscono il moldavo (variante del rumeno) e l’alfabeto latino, sostituiti dal russo e dal cirillico, benché la lingua nativa sia il gagauzo, un idioma strettamente imparentato con il turco, l’azero, il turkmeno e lo uiguro.
Su circa 150.000 abitanti della regione, infatti, l’etnia maggioritaria (82%) è quella dei Gagauzi, popolo di origini turciche ma di religione cristiano-ortodossa insediatosi nell’area in un momento imprecisato del medioevo. Dal 1994, inoltre, la Gagauzia gode di un’ampissima autonomia amministrativa con lo status di entità territoriale autonoma, per dare un'idea qualcosa di più simile a uno stato federato che a una regione a statuto speciale.
Nazionalismi e separatismi “tattici”
Proprio l’autonomia ci porta al nocciolo della questione gagauza e, più in generale, al modo in cui nazionalismi, indipendentismi e il risiko della geopolitica interagiscano creando situazioni di conflitto semi-permanente (vedi Transnistria, Donbass, Abkhazia e Nagorno-Karabakh). Procediamo con ordine per non perdere il filo.
Al tracollo dell’URSS la Repubblica di Moldova, dichiaratasi indipendente, puntò a soddisfare due aspirazioni nazionaliste a lungo covate: riunificarsi con la Romania e de-russificare cultura e società imponendo il moldavo come lingua nazionale e l’alfabeto latino in luogo del cirillico.
Tali dichiarazioni d’intenti, fortemente simboliche, scatenarono le rivolte dei Russi e degli Ucraini stabilitisi in Transnistria e dei Gagauzi perché interpretate come volontà di imporre un’omologazione culturale e di ridurli allo status di minoranza linguistica. Transnitriani e Gagauzi preferivano mantenere i loro tradizionali legami di fedeltà alla Russia, riconoscenti alla compianta URSS che per settant’anni li aveva fatti sentire cittadini sovietici con pari diritti e dignità, almeno sulla carta.
A differenza della Transnistria, tuttavia, la secessione proclamata dalla Gagauzia nel 1992 non sfociò in un conflitto armato ma venne riposta nel cassetto nel 1994 con la concessione dell’autonomia.
Razionalmente era nell’interesse reciproco continuare a convivere, ancorché da separati in casa. Dopo la perdita della Transnistria, infatti, la Moldova non intendeva affrontare le conseguenze di un secondo, umiliante smembramento territoriale. Per la Gagauzia in gioco c’era lo sbocco per le sue produzioni agricole (vino, olio di girasole, ortofrutta, carne, lana), troppo limitate in volumi e periferiche per essere competitive su mercati esteri quali quello russo, ucraino o rumeno.
Sicuramente quasi tre decenni di recessione e feroce stagnazione economica non hanno giovato alla popolarità dello stato moldavo in Gagauzia. D’altro canto, le autorità gagauze hanno lavorato in senso contrario, portando avanti un’agenda politica filo-russa gradita alla popolazione e apertamente sostenuta da Mosca, cui si è aggiunta l'apertura alla cooperazione con la Turchia.
Se vi state chiedendo come mai due potenze regionali come Russia e Turchia si interessino a una regione piccola, povera e di scarsa rilevanza strategico-militare, la risposta è semplice.
Per la Federazione Russa l'allineamento ai suoi interessi della Gagauzia è importante per avere in mano una leva (la minaccia della seccessione) con cui ostacolare ed eventualmente bloccare l’inviso percorso di avvicinamento della Moldova alla UE.
Per la Turchia di Erdogan, che negli ultimi anni ha finanziato l’apertura di scuole e centri culturali nonché il rifacimento della rete idrica, il beneficio consiste invece nel rafforzare la narrazione neo-ottomana della "Turchia faro e patrono dei popoli turcofoni".
C’è, però, un altro punto di vista da considerare: quello dei Gagauzi. Per chi governa a Comrat danzare sul filo del rasoio tra autonomia e separatismo significa disporre di un potere contrattuale superiore al proprio peso specifico; vuol dire avere le spalle coperte dall’orso russo, flirtare con la Turchia e allo stesso tempo non rompere definitivamente con la Moldova, approfittandone per raccogliere tutti i vantaggi possibili.
Si tratta di una “politica dei tre forni” rischiosa in una parte d’Europa dove situazioni e rapporti di forza possono evolversi in modo repentino, ma per ora ha ampiamente pagato in termini di consenso popolare.
Basti pensare che nel 2014 in Gagauzia si tenne un referendum consultivo nonostante il parere di incostituzionalità dell’alta corte moldava. Sull’onda dell’annessione della vicina Crimea alla Russia, salutata in Gagauzia come un trionfo con gran sventolio di bandiere russe e gagauze, la popolazione si espresse “a maggioranza bulgara” (tra il 96 e il 98%) per il NO all’adesione della Moldova alla Unione Europea, Sì all’unione doganale con Russia, Bielorussia e Ucraina proposta da Mosca e Sì alla indipendenza da Chişinău.
L’ipotesi di un allargamento delle operazioni militari russe alla Moldova appare al momento uno scenario di fantapolitica ma, casomai si concretizzasse, è difficile pensare che la lealtà dei Gagauzi non vada spontaneamente a Mosca.
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giovedì, marzo 10, 2022
Il megafono dello zar non conosce la vergogna
"La Russia non ha intenzione di attaccare altri Paesi e non ha attaccato l’Ucraina. Stiamo rispondendo agli attacchi degli ucraini” (Sergej Lavrov)
Quella vecchia volpe del ministro degli esteri della Federazione Russa, Sergej Lavrov, ha rilasciato questa stupefacente dichiarazione nella conferenza stampa al termine del summit di Antalya (Turchia) non tradendo il minimo imbarazzo, quasi stesse riferendo qualcosa di ovvio e incontestabile.
Dobbiamo supporre, pertanto, che ciò che stiamo vedendo da giorni è una guerra finta, una serie TV con un budget faraonico girata in una imprecisata Cinecittà della Russia o dell’Europa orientale.
In subordine, sia pure a prezzo di un intenso sforzo d'immaginazione, dovremmo prendere in considerazione l'ipotesi che il governo ucraino abbia trovato il modo di scagliare case, palazzi, ospedali, ponti, centrali elettriche e aeroporti contro le batterie di artiglieria, i tank e gli aerei russi impegnati in una pacifica scampagnata nella "nazione sorella". Non contenti, i provocatori al potere a Kiev avrebbero tolto luce, gas e acqua alla popolazione ucraina per costringerla a partire in vacanza all'estero.
Non c’è che dire: se mai Lavrov dovesse rinunciare all'incarico ai vertici della Federazione Russa, avrebbe un futuro assicurato come star delle produzioni Marvel: pochi possiedono un talento naturale pari al suo per interpretare il ruolo di villain.
Etichette: Foreign Office, Lavrov, Russia, Ucraina
domenica, febbraio 27, 2022
Ucraina e la geopolitica non farlocca
Mi sono ripromesso di non condividere le mie riflessioni su quanto sta accadendo in Ucraina. Media, web e social letteralmente traboccano di informazioni e analisi della fattura più disparata, non raramente frutto di notizie non verificate, di opinioni farlocche e non qualificate o di pure e semplici mistificazioni di propaganda perché vi aggiunga ulteriore aria fritta a esclusivo beneficio della mia autostima.
Ho deciso, tuttavia, di tradurre e condividere questa articolata analisi geopolitica di Dmitri Alperovitch letta su Twitter per due motivi:
a) è stata postata il 21 dicembre 2021, due mesi circa prima che l’invasione russa avesse luogo, mostrando capacità analitiche e previsionali davvero notevoli;
b) fornisce chiavi di lettura straordinariamente acute e attuali sull’altrimenti poco comprensibile azzardo di Vladimir Putin.
Nelle ultime settimane sono diventato sempre più convinto che il Cremlino abbia, purtroppo, preso la decisione di invadere l'Ucraina alla fine dell'inverno. Sebbene sia ancora possibile per Putin ridimensionare l’esclatation e cambiare rotta, credo che la probabilità sia ora piuttosto bassa. Permettetemi di spiegare il perché.
Ci sono numerosi segnali che la Russia ha inviato di recente che mi fanno credere che l'invasione sia quasi certa, oltre a un numero consistente di ragioni per cui questa sarebbe la strada imboccata da Putin.
Segnali
1) Quello più ovvio: il massiccio dispiegamento militare ai confini dell'Ucraina (a Nord, Est e Sud in Crimea).
Questa mobilitazione è qualitativamente e quantitativamente diversa dal passato. Il 75% del totale dei gruppi tattici delle divisioni russe è stato spostato. Artiglieria, unità di difesa aerea, carri armati, APC, attrezzature per la posa di ponti, sminatori, escavatori corazzati, attrezzature ingegneristiche, rifornimenti di carburante, enormi quantità di logistica, ecc.
Questa mobilitazione imponente è una chiara preparazione per un’invasione su larga scala, non un bluff.
Inoltre, non si può tenere per sempre in stand by tutta questa attrezzatura, truppe e logistica. Rob Lee pensa che le forze russe dovrebbero ritirarsi entro l'estate al più tardi.
Come un fucile in una commedia di Cechov, non lo fai comparire se non ti aspetti di usarlo...
2) Preparazione informatica. Dall'inizio di dicembre c'è stato un drammatico aumento delle intrusioni informatiche dalla Russia nei siti del governo ucraino e nelle sue reti civili. Come ho detto ieri, gli obiettivi sono esattamente quelli che ti aspetteresti siano presi di mira per la raccolta di informazioni e la preparazione del campo di battaglia prima di un'invasione.
3) Ultimatum diplomatici. L'elenco delle richieste che la Russia ha presentato la scorsa settimana non è stato un punto di partenza per gli alleati degli USA e della NATO: semplicemente non è una proposta seria per l'avvio di negoziati.
In effetti, sarebbe con tutta probabilità respinto dalla stessa Russia se si trattasse di misure reciproche per non schierare missili Iskander a Kaliningrad e missili da crociera nel territorio russo occidentale.
4) Rendere pubblico l'elenco delle richieste - rendendo di conseguenza difficile fare marcia indietro senza perdere la faccia - è un passo diplomatico senza precedenti che segnala ulteriormente come non vi sia una seria intenzione di intavolare negoziati e si cerchi un pretesto propagandistico per l'invasione.
5) Rifiuto dei negoziati multilaterali e richieste di colloqui one to one USA-Russia. Questo passo è progettato per provocare un rifiuto da parte degli Stati Uniti (ancora un altro pretesto per la guerra) o creare una spaccatura tra gli USA e i suoi alleati in Europa. In ogni caso, una mossa win-win.
6) La richiesta perentoria di una risposta urgente. Una vera trattativa sui punti sollevati dalla Russia richiederebbe anni. Aspettarsi che si risolva rapidamente non è realistico e la Russia lo sa. È un ulteriore pretesto per l'invasione sostenendo che gli USA non prendono sul serio le preoccupazioni russe.
7) Retorica. Con il ricorso a una retorica infiammata le cose stanno raggiungendo il punto di ebollizione. Il linguaggio diplomatico viene scaraventato fuori dalla finestra e ogni giorno c’è una nuova escalation.
8) Si sta preparando il campo di battaglia dell'informazione per una provocazione che possa essere addossata a Ucraina, USA o NATO (o tutti e tre); sarà usata come parte di una scusa per giustificare un'invasione.
Motivi
Parliamo ora dei motivi per invadere - dal punto di vista di Putin - che sono altrettanto numerosi
1) Timore che si modifichi l'equilibrio di forze militari tra Kiev e i separatisti del Donbass.
Putin ha osservato la guerra nel Nagorno Karabakh e ha potuto apprezzare ciò che un esercito armato con moderne armi NATO, come i droni turchi TB2 al servizio degli Azeri, può fare per riconquistare un territorio.
Inoltre, ha perso la fiducia che il presidente ucraino Zelensky sia interessato a risolvere per via diplomatica la questione del Donbass e crede di aver bisogno di prevenire con un intervento militare un cambiamento dello status quo negli oblast separatisti.
Per inciso, la spinta di Saakashvili (ex presidente della Georgia n.d.r) a riarmare l’esercito e riconquistare i territori separatisti di Ossetia e Abkhazia, cambiando lo status quo imposto da Mosca, è ciò che ha innescato la guerra in Georgia nel 2008. Le somiglianze con la situazione attuale sono inquietanti.
2) Preoccupazioni per l'espansione della NATO. Si può discutere quanto si vuole sul fatto che la NATO rappresenti davvero una minaccia per la Russia, ma l'importante è che le élite del Cremlino ne è convinta.
Negli ultimi trecento anni, ci sono state numerose e devastanti invasioni della Russia lanciate da quelle che oggi sono Bielorussia e Ucraina. La prospettiva che uno dei due Paesi aderisca alla NATO (un'implicita alleanza militare anti-russa) è stata e sarebbe inaccettabile per qualsiasi leader russo - Putin, Eltsin, Gorbaciov o persino qualcuno come Navalny, ed è vista come una minaccia mortale.
3) Manovre ostili dell’Occidente. Il governo filo-occidentale in Ucraina, le manifestazioni e contestazioni al presidente bielorusso Lukashenko, la rivoluzione colorata in Georgia, le proteste di piazza a Mosca ecc. sono state tutte lette da Putin attraverso la medesima lente: tentativi segreti dell’Occidente di sabotare e destabilizzare la Russia e creare coalizioni di stati antagonisti ai suoi confini.
4) Cavallo di Troia. Putin si è convinto che un'Ucraina filo-occidentale rappresenti una seria minaccia dato il dispiegamento di armamenti e consulenti NATO anche senza un’adesione formale all’Alleanza.Il suo discorso sui missili piazzati a 4-5 minuti di volo da Mosca o sulla minaccia alla Crimea può suonarci come una paranoia, ma lui ci crede ed è tutto ciò che conta in questo momento.
5) Punizione esemplare. Putin sa che un'invasione dell'Ucraina porrebbe fine in modo permanente sia a tutti i discorsi su una possibile adesione alla NATO di Ucraina, Georgia, Bielorussia o qualsiasi stato dell'Asia centrale, sia sul dispiegamento di armi e truppe NATO nei loro territori senza il benestare della Russia.
Sa,inoltre, che in questo modo ripristinerebbe istantaneamente la sfera d’influenza della Russia in quella parte del mondo: nessuno stato dell'ex URSS (a parte i Paesi baltici) oserebbe flirtare nuovamente con la NATO o l'Unione Europea.
6) Finestra delle opportunità. Dal punto di vista della scelta dei tempi, potrebbe non esserci momento migliore per invadere l’Ucraina.
Gli USA, infatti, sono distratti dalla politica interna e dal nuovo confronto geopolitico con la Cina, i prezzi dell'energia sono alle stelle, l’Europa dipende dal gas russo e persino gli Stati Uniti attualmente stanno importando petrolio russo. Di conseguenza, ci sono scarse possibilità che scatteranno sanzioni economiche sui combustibili fossili.
7) Le sanzioni non sono un deterrente efficace. La Russia ha imparato a convivere con le sanzioni, anche se non le piacciono. La sua economia è molto più resiliente oggi rispetto ad esse grazie anche all'aiuto della Cina.
La Russia, inoltre, ha imparato ad aspettarsi sanzioni qualsiasi cosa faccia. Le sanzioni comminate quest'anno (2021 n.d.r) per attività tradizionalmente considerate “spionaggio accettabile” - come le intrusioni nei database e il malware disseminato nelle reti di enti federali e aziende USA - hanno minato il loro uso come deterrente poiché inviano il segnale che l’Occidente sanzionerà la Russia per tutto ciò che fa.
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mercoledì, dicembre 23, 2020
Alieni ortodossi a New York
Bill De Blasio, Sindaco di New York, ha fama d’essere persona di larghe vedute. Per costringerlo a elevare una sanzione da 15.000 $, perciò, ci deve essere dietro un motivo serio.
Lo schiaffo degli ultraortodossi
Destinatari della multa sono i vertici cittadini della setta chassidica Satmar, ala fondamentalista dell’ebraismo ortodosso che si concentra a Williamsburg (Brooklyn) e nel sobborgo di Kyrias Joel, contando nella sola Grande Mela su 65.000/75.000 aderenti.
A far saltare la mosca al naso di De Blasio è stata la sfacciata violazione delle disposizioni anti Covid-19 su assembramenti, distanze di sicurezza e uso di mascherine in occasione delle nozze del nipote di Aaron Teitelbaum, uno dei due grandi rabbini che si spartiscono la guida della setta, organizzate in gran segreto in una sinagoga di Williamsburg e celebrate alla presenza di migliaia di fedeli festanti (la capienza massima della sinagoga è di circa 7.000 persone).
C'era stato un precedente:
a ottobre, le nozze del nipote del gran rabbino Zalman Teitelbaum, fratello minore e acerrimo rivale di Aaron, erano state forzatamente ridotte ad appena 50 invitati dopo la minaccia di divieto da parte del Governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo.
I seguaci di Aaron hanno fatto tesoro della lezione riuscendo a mantenere il segreto più assoluto sui preparativi delle nozze. Poi, non contenti di aver eluso le norme dimostrando di infischiarsene della pandemia che sta flagellando gli Stati Uniti, a cose fatte hanno avuto l’impudenza di vantarsene pubblicamente con un articolo dai toni entusiastici comparso sul giornale in Yiddish della setta.
Chi sono i chassidim Satmar?
Stiamo parlando di una delle più numerose e potenti frange dell’ebraismo ultra-ortodosso, forte di circa 120.000 adepti sparsi tra USA, Israele, Olanda, Argentina e altre nazioni.
I tratti distintivi dello chassidismo Satmar sono l’estrema, letterale aderenza alle norme religiose, il totale rifiuto della moderna cultura laica, il fervente anti-sionismo, l’autoisolamento sia nei confronti dei non-ebrei sia verso il resto del mondo ebraico, l’autorità indiscussa del Rabbino su qualsiasi decisione rilevante nella vita del fedele e il sostegno all’educazione e alla comunicazione in Yiddish.
Non è un caso se a Kyrias Joel, 26.000 abitanti, il 91,5% dei residenti comunica in Yiddish in casa contro il 6,5% che utilizza l’inglese e ben il 46% dichiara di “non parlare bene o non parlare affatto l’inglese”.
Le origini della setta sono in Transilvania, regione oggi in gran parte entro i confini della Romania, ma fino alla prima guerra mondiale all’interno della cosiddetta Grande Ungheria e dell’impero Austro-ungarico. Il nome Satmar altro non è che la traslitterazione in Yiddish di Szatmárnémeti, l’odierna Satu Mare, città transilvana dove il rabbino Joel Teitelbaum aveva acquisito largo seguito tra la fine del XIX e la prima parte del XX secolo.
Nel giugno del 1944 Joel Teitelbaum scampò all’annientamento nazista della popolazione ebraica ungherese grazie ai suoi seguaci che raccolsero un’ingente somma per consentirgli di salire sul cosiddetto Treno di Kastner, il convoglio merci che trasportò 1.684 ebrei ungheresi da Budapest alla Svizzera dietro il pagamento di una cospicua somma di denaro alle autorità germaniche.
Dalla Svizzera, Rabbi Joel si spostò prima nella Palestina sotto mandato britannico e successivamente a New York dove, a guerra finita, riorganizzò la sua comunità tra gli ebrei di origine ungherese e mitteleuropea.
La famiglia Teitelbaum è di fatto una dinastia rabbinica (cosa non rara nell'ebraismo ultraortodosso) attualmente divisa tra i due nipoti di Rabbi Joel, ed è anche un piccolo impero: alla morte del padre degli attuali leader, avvenuta nel 2006, il patrimonio della setta era stimato in 1 miliardo di Dollari tra beni immobili, attività e conti correnti.
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domenica, dicembre 13, 2020
L'eredità di Trump in politica estera
Prima o poi qualcuno scriverà un’articolessa o un saggio tracciando un bilancio ponderato della politica estera statunitense durante la presidenza di Donald J. Trump.
Della gestione della politica estera da parte dell’amministrazione Obama si è scritto che fu disastrosa, incoerente, inefficace e che il Nobel per la Pace fu del tutto immeritato: c’è sicuramente del vero in queste critiche.
Si può, però, dar credito a chi di Trump fa il panegirico descrivendolo come il primo presidente in oltre un secolo a non essere entrato in guerra, il brillante stratega che ha rivitalizzato la politica estera USA con il suo approccio volitivo, decisionista e poco convenzionale, il patriota e faro dell’Occidente che ha restaurato la grandeur a stelle-e-strisce fuori dei confini americani?Quasi a ridosso dei titoli di coda del suo controverso mandato, Trump ha messo a segno l’ennesimo colpo diplomatico nel filone della cosiddetta “Pace di Abramo” convincendo il Marocco a normalizzare i rapporti diplomatici con Israele in cambio del riconoscimento USA dell’annessione marocchina dell’ex Sahara Spagnolo.
Ed è proprio questa diplomazia mercantilista e del baratto, pilastro della politica estera di Trump insieme alla tattica "del bastone e della carota” nelle trattative commerciali, che dovrebbe essere messa sotto la lente d’ingrandimento e analizzata nei singoli dossier separando le poste in attivo e le perdite.
Dall'Ucraina al Sudan passando per Iraq, Siria, Israele, Yemen, EAU, Arabia Saudita e Somalia, senza dimenticare Afghanistan, Iran, Venezuela, Messico, Russia, Turchia, Libia, le nazioni africane della fascia subsahariana e le relazioni tutt'altro che facili con i partner NATO qual è e quanto potrà risultare ingombrante l'eredità di Donnie?
Si tratta di un lavoro che esula dalle mie scarse competenze e risorse, per cui posso unicamente sperare di poter beneficiare da lettore dell'acume di analisti di spessore.
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mercoledì, marzo 13, 2019
Una questione spinosa
Brexit a parte, c'è un neonato morto di polmonite in un desolato campo di detenzione nel nord della Siria ad agitare le acque della politica inglese. Si tratta del figlio di Shamima Begum, una delle tre teenager fuggite dal Regno Unito per unirsi al califfato nero dell'ISIS.
Per la oggi diciannovenne Shamima quel neonato era il terzo figlio, dopo i due dati alla luce e morti prematuramente avuti da un foreign fighter olandese, anch'esso catturato e detenuto in un campo dall'altra parte della Siria.Per allevare quel figlio, Shamima aveva chiesto di poter tornare nel Regno Unito pur riaffermando la sua lealtà all'ISIS e dichiarandosi indifferente all'orrore di cui era stata testimone oculare. Dinanzi a tale atteggiamento, la risposta del governo britannico era stata improntata alla massima fermezza: alla ragazza era stata revocata la cittadinanza britannica.
Quel che si rimprovera al governo di Theresa May è di non aver mosso un dito per il neonato, malgrado fosse a conoscenza delle durissime condizioni di vita nel campo, dove poco meno di 100 bambini sono morti da dicembre a oggi e molti altri sono destinati a incontrare lo stesso fato.
Il Segretario di Stato agli Affari Esteri, Jeremy Hunt, ha giustificato la linea di condotta del governo dichiarando che era stato fatto il possibile, ma che non si potevano esporre funzionari britannici al rischio di operare in una zona di guerra; affermazione opinabile poiché il campo dove si era spostata Shamima si trova lontano dal teatro delle operazioni belliche, in un'area stabilmente sotto il controllo delle forze dell'Esercito Popolare Siriano, alleato degli USA e del Regno Unito.
In altre parole, dopo essersi levato la rogna di riportare in patria Shamina e di dover istruire un processo a suo carico, il governo Tory avrebbe abbandonato il bimbo al suo destino non considerandolo più affar suo, facendogli in questo modo pagare le colpe di sua madre.
Dando per scontata una certa dose di opportunismo politico nella polemica in corso c'è da chiedersi se un atto di misericordia, pur non dovuto nei confronti di una donna privata della cittadinanza, sarebbe stato più opportuno delle espressioni pro forma di cordoglio.
Non diversamente da quanto è successo in Italia nel caso di ostaggi catturati all'estero e riportati in patria dietro il pagamento di un lauto riscatto, anche nel Regno Unito sono forti i sentimenti di ostilità e di biasimo verso la madre, cui si imputa in toto la responsabilità per la morte del neonato. Nessuno aveva costretto la minorenne Shamima a scappare di casa, aggirare le disposizioni del governo e andare ad affiliarsi all'ISIS in Siria. Ragion per cui nulla avrebbe giustificato uno sforzo da parte del governo di Sua Maestà per recuperare la pecorella niente affatto smarrita e salvare il figlio nato da un criminale.
"Buonismo"e "Cattivismo", pietà e rigore assoluto si contrappongono muro contro muro, ognuno con le proprie ragioni non trattabili.
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sabato, marzo 09, 2019
Vittime collaterali
Tutto ciò che conosciamo della guerra, dai filmati passati nei telegiornali ai film più drammatici e realistici, è nulla rispetto all’impatto del video girato dalla cabina di un elicottero d’attacco AH-64 Apache che documenta una “operazione militare di routine” condotta nel 2007 a Sadr City - sobborgo di Baghdad, circa 1 milione di abitanti - in cui morirono due reporter dell’agenzia Reuters macellati per strada, insieme a una dozzina di civili adulti e due bambini, dai proiettili del cannone automatico da 30 mm dell’elicottero.
Il video fa parte dei materiali classificati che Wikileaks ha ottenuto da whistleblower come Bradley (oggi Chelsea) Manning. Per lo stato maggiore e l'Amministrazione USA, l’equipaggio dell’Apache rispettò le procedure di sicurezza e le regole d’ingaggio su un gruppo di civili che fu bollato sbrigativamente come “insurgents” (rivoltosi). Dall’alto, l’attrezzatura dei reporter venne scambiata per armamenti.Il sonoro del video testimonia lo scambio radio tra l’elicottero e il comando, ma anche l’accanimento nel fare fuoco su un furgone sopraggiunto per soccorrere i feriti, in particolare uno dei reporter che si vede trascinarsi a terra ed essere colpito nuovamente mentre sta per essere adagiato sul pianale dell’automezzo.
All’interno del van semidistrutto le truppe di fanteria USA arrivate sul posto trovano due bambini feriti gravemente. Nel video si vede un soldato trasportare a braccia uno dei bambini verso un veicolo corazzato d’appoggio Bradley. Tuttavia la richiesta di trasportarli d’urgenza all’ospedale di campo americano riceve dal comando l’ordine di lasciare che se ne occupino gli iracheni.
Nell’asettica terminologia tecnica, tutto ciò rientra sotto l’etichetta “vittime collaterali”.
Per chi avesse il fegato di confrontarsi con la crudezza delle immagini e dimestichezza con l’inglese parlato e scritto lascio il link YouTube alla drammatica testimonianza del soldato che cercò di soccorrere i bambini: https://youtu.be/kelmEZe8whI
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lunedì, aprile 02, 2018
L'inferno, con le migliori intenzioni
“Se si vuole combattere efficacemente il nomadismoCosì, nella civile e democratica Svizzera, scriveva il Dr. Alfred Siegfried (nella foto sotto), dal 1926 al 1958 “regista” di una grande operazione di igiene sociale ed eugenista contro gli Jenische, i gitani svizzeri, finalizzata a convertirli forzatamente in popolazione sedentaria, integrata e “utile”.
è necessario dissolvere i legami tra le persone nomadi.
È necessario, anche se può sembrare crudele,
distruggere i nuclei familiari: non c'è alternativa”.
Il metodo utilizzato fino al 1972 dall’opera assistenziale “Les enfants de la grande route” partiva dal dogma che il nomadismo andasse sradicato definitivamente in quanto produttore di marginalità, parassitismo sociale e delinquenza.
Per questo nobile fine, la macchina dell’Operazione agiva sottraendo i bambini zingari alle loro famiglie per collocarli in orfanotrofi, famiglie affidatarie e, nei casi più “difficili”, ospedali psichiatrici. I clan nomadi venivano seguiti e messi nel mirino nei loro spostamenti grazie alla collaborazione delle autorità cantonali, specialmente nei Grigioni, Canton Ticino, San Gallo e Svitto.
Allo scopo di sradicare la perniciosa ereditarietà del nomadismo, i metodi educativi consigliati e applicati sconfinavano spesso in vessazioni e umiliazioni sia fisiche che psicologiche. Anche dal punto di vista dell’istruzione, era raccomandato di fare i conti con le limitate capacità di apprendimento dei nomadi, instradandoli verso lavori di bassa manovalanza. Sulle ragazze, inoltre, poteva essere praticata la sterilizzazione a fine eugenetico.
Lo scandalo del programma di sedentarizzazione coatta degli zingari scoppiò solo nel 1972, provocando la chiusura di Les enfants de la grande route e, successivamente, le pubbliche scuse da parte della massima autorità della Confederazione Elvetica.
Dagli archivi è emerso che poco meno di 600 bambini gitani sono stati sottratti ai genitori e “rieducati”. Alcuni, faticosamente, hanno riallacciato rapporti con le loro famiglie naturali; altri hanno preferito restare nell’ombra e non consultare la documentazione per non scoperchiare un capitolo oltremodo doloroso e umiliante del loro passato.
Perché rievocare tutto questo? Non per scorno della Svizzera, ma perché mai come in questi casi l’inferno si nasconde sotto il manto di intenzioni in apparenza nobili e sociali.
Per un’ulteriore trattazione approfondita, il link da seguire è questo
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sabato, febbraio 24, 2018
Un "cold case" spinoso
Nel 1998 un blitz animalista liberò in un colpo solo circa 6.000 visoni dalle gabbie di un allevamento britannico dove erano tenuti in vista di essere sacrificati alle esigenze del settore pellicceria.
L’incursione seminò il caos nelle campagne circostanti perché i mustelidi, spinti dalla fame, saccheggiarono nidi e tane della fauna selvatica, attaccarono le fattorie facendo strage di pollame e conigli e finirono sotto le ruote delle auto di passaggio prima di essere riacciuffati.
Al blitz assistette anche una agente sotto copertura della Met(ropolitan) Police londinese infiltrata nel gruppo, autorizzata a partecipare al reato dai vertici del reparto con la garanzia che non avrebbe dovuto subire in futuro conseguenze disciplinari e penali.
Qualche anno dopo l’agente si dimise dal reparto e dalla polizia. L’incarico le stava creando seri problemi psicologici perché la vita in comune con i membri del gruppo animalista aveva creato un coinvolgimento emotivo tale da rendere insostenibile il doppio ruolo. Di lì a poco andò a convivere in campagna con uno dei leader del gruppo e la sua vita tornò, faticosamente, a scorrere sui binari di un anonimato borghese.
Vent’anni dopo, un’inchiesta giornalistica ha ripreso in mano il caso irrisolto dei visoni, per cui non era stato arrestato e incriminato nessuno, e ha rivelato la presenza delle barbe finte della Met Police.
La risposta della polizia londinese è stata uno scarno comunicato in cui ha ammesso il proprio ruolo, si è scusata con i colleghi della polizia locale per la mancata condivisione di informazioni e ha messo nero su bianco il nome (finto) dell’agente infiltrata, tenendo nel contempo coperta l’identità dei dirigenti che avevano gestito l'operazione.
L’ex agente ha replicato con una lettera alla stampa, addolorata e infuriata per il comportamento sleale che la smascherava, dandola in pasto a un processo mediatico e, soprattutto, al risentimento delle persone che avevano avuto fiducia in lei, accogliendola e trattandola come una di loro.
Fin qui i fatti, dopodiché è arduo farsi un’opinione e trarre una qualsivoglia morale. Lealtà, senso del dovere, fiducia, ambiguità, tradimento, bene e male sono mescolati troppo strettamente; né può essere diversamente ogni volta che per perseguire un interesse superiore “si scende a patti con il diavolo”.Chi ha agito correttamente? Chi ha tradito la fiducia di chi?
[fonte della notizia: The Guardian online]
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giovedì, febbraio 22, 2018
Brexitnovela
“Brexit Mon Amour” - Diciannovesima puntata: scena quinta
Al tavolo delle trattative per la Brexit il gioco si sta facendo duro. A nome del governo di Sua Maestà Britannica, l’intrepida premier Theresa May cala l’asso della sua nuova, dirompente proposta.
Governo Britannico: «Sentite un po’... e se invece di rispettare il 2020 come data ultima per chiudere la transizione facessimo che vi avvertiamo noi - con calma, eh? - quando saremo pronti a lasciare definitivamente il mercato unico?»(brusii e accenni di protesta)
Governo Britannico: «No, no.. andiamo!! Ora non mi fate quei musetti imbronciati! Sapeste quanto ho penato per convincere quei quattro infamoni del mio partito che chiedono la hard brexit o la mia testa… Dicevo: resta inteso che gli attuali diritti dei cittadini UE che arrivano nel Regno Unito scadranno ad aprile 2018 e che nel periodo di transizione saremo liberi di accordarci con chi QUIZ ci pare senza consultarvi.. Allora che ne dite?»
Delegati UE: «Madame gradisce anche qualche fetta di culo?!?»
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domenica, gennaio 28, 2018
ONG e la strategia di avvelenamento dei pozzi
Adesso che i conti di chiusura d’anno sono definitivi, le ONG possono constatare gli effetti devastanti prodotti dalla campagna di discredito subita nel corso del 2017: le donazioni da privati nel nostro Paese hanno subito un calo stimato tra il 5 e il 10%.
Si tratta di una batosta non indifferente, ben superiore alle fluttuazioni fisiologiche. Quel che fa più male, al di là dell’entità contabile e dei riflessi sui progetti e programmi di cooperazione internazionale, è che il flop nella raccolta fondi rispecchia un mutato atteggiamento degli italiani nei confronti delle ONG, che scontano e continueranno a scontare anche nel 2018 un’immagine sporcata dall’accusa infamante di essere state complici e addirittura al soldo degli scafisti.
È difficile non pensare a un piano accuratamente preparato. Per ridurre l’interferenza umanitaria delle ONG che si frapponeva alla strategia di chiusura e militarizzazione delle frontiere UE bisognava agire in modo indiretto e bastonarle nel loro punto sensibile: la credibilità agli occhi dell’opinione pubblica e dei donatori privati.
Una tattica di “avvelenamento dei pozzi” iniziata a fine 2016 mettendo in circolo dossier riservati di fonte Frontex in cui si ventilavano collusioni tra le attività delle navi noleggiate dalle ONG per il salvataggio a mare e la malavita che gestisce il traffico di immigrati.
Non accuse precise e circostanziate, solo sospetti e indizi disseminati ad arte, ma sufficienti a sensibilizzare una Procura della Repubblica: quella di Catania.
Ed è proprio il Procuratore etneo Carmelo Zuccaro, sino ad allora segnalatosi per riservatezza e misura nelle dichiarazioni, a fare esplodere la bomba parlando pubblicamente dell’apertura di indagini volte ad appurare se le ONG fossero finanziate dai trafficanti di migranti.
Da allora la campagna di discredito conosce un crescendo, cavalcata non solo - com’era prevedibile - dalla forze politiche di Destra ed Estrema Destra che hanno fatto dell’allarme invasione e del nazionalismo xenofobo la loro arma di propaganda, ma anche in modo più sfumato e opportunista dai media e da partiti e movimenti sia all’opposizione che al governo.
Nell’estate 2017 le ONG sono pubblicamente messe alla gogna e si arriva al capolavoro tattico del Ministro degli Interni Marco Minniti che impone l’aut-aut: o firmare un accordo vincolante e accettare di essere messe sotto tutela oppure essere escluse dalle operazioni di rescueing.
In quelle condizioni cercare di ristabilire la verità, di raccontare cosa stava succedendo di fronte alle coste libiche, delle norme e delle procedure che regolano le operazioni di salvataggio a mare è stato utile come cercare di svuotare un pozzo con un ditale da cucito.
Non c’è che dire: al netto dei difetti delle ONG e di eventuali errori compiuti durante le frenetiche operazioni di salvataggio a mare, se qualcuno voleva che le ONG si mettessero a cuccia c’è perfettamente riuscito.
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domenica, giugno 11, 2017
Disumanizzare
Non mi ritengo buonista: mi sta solo sul cazzo chi, dall'alto di una presunta superiorità culturale e morale, con due righe sprezzanti di commento su Facebook disumanizza milioni di persone di cui, ovviamente, sa tutto quel che c'è da sapere.
Agli occhi di questi colti crociati da tastiera gli altri sono il MALE alle porte di casa: se non sono belve sanguinarie sono parenti o complici di belve, infidi sempre e comunque.
Perciò ai loro occhi è innaturale che nascano, crescano, ridano, piangano, sudino, abbiano fame, paura e il mal di denti, si innamorino, abbiano figli e li amino come noi.
Ne discende che per i subumani non valga quel che diceva un Rabbi messo a morte sotto il regno di Tiberio:
E chi è quel padre fra di voi che, se il figlio gli chiede un pane, gli dia una pietra?"Believe me when I say to you / I hope the Russians love their children too" cantava Sting a metà degli anni '80...
O se gli chiede un pesce, gli dia invece un serpente?
Oppure se gli chiede un uovo, gli dia uno scorpione?
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mercoledì, gennaio 11, 2017
Il passo falso del grillo
Mi sono posto una domanda oziosa: come dare una parvenza di senso alla scombinata liaison dangereuse tra il ruspante ed euroscettico MoVimento Cinque Stelle e i vertici del gruppo Liberal-democratico al Parlamento Europeo?
I protagonisti
Guy Verhofstadt - ex premier del Belgio, interessato ad aprire le porte dell’ALDE al M5S allo scopo di puntellare la posizione dei Liberal-Democratici come terzo gruppo dell’Europarlamento, ma soprattutto per prenotare per sé la prossima poltrona di prestigio lasciata vacante a Strasburgo o Bruxelles.
I vertici M5S - per cui concludere la trattativa con Verhofstadt e l'ALDE era un’occasione da cogliere perché:
• avrebbero svincolato gli euro-pentastellati dall’alleanza sempre più limitante e improduttiva con l’UKIP di Nigel Farage, poco coinvolto nei lavori dell’Europarlamento da quando ha fatto bingo con la Brexit;
• operando all’interno dell’ALDE, la pattuglia del M5S avrebbe potuto esercitare un’influenza maggiore sulle decisioni dell’Europarlamento;
• ultimo ma non ultimo, c’era una discreta possibilità di ritagliarsi la stessa autonomia decisionale goduta all’interno del gruppo parlamentare EFDD.
Gli ignari
Quasi tutti gli europarlamentari dei due gruppi più la base elettorale del M5S in Italia.
Il feuilleton
L’accordo, strombazzato in Italia come già concluso e solo da ratificare, è saltato miseramente.
Le resistenze, le proteste e le spaccature all’interno dell’ALDE che Verhofstadt aveva sottostimato si sono trasformate in una porta sbattuta in faccia ai Cinque Stelle.
Questi ultimi, non potendo fare altrimenti, hanno inscenato la manfrina del “non ci meritano”, “questa volta abbiamo fatto tremare i poteri forti e loro hanno reagito” ecc. ecc. La verità è che ora pagheranno pegno a Nigel Farage per rientrare nell’EFDD.
Il taxi
Tutto questo mediocre canovaccio mi ha ricordato una frase di Enrico Mattei: “Uso i partiti allo stesso modo in cui uso i taxi: salgo, pago la corsa e scendo.”
La trattativa è stata il taxi su cui sono saliti due estranei che intendevano raggiungere i rispettivi obiettivi.
Accordarsi era esclusivamente una questione di convenienza: ci sarebbe stato tempo e modo, in seguito, per appianare le siderali divergenze di vedute, per far digerire ai rispettivi parchi buoi l’idea che il rospo da baciare era un bellissimo principe sotto maleficio e, al momento opportuno, separarsi salvando la reputazione.
Sul più bello, però, il taxi ha forato: nemici come prima.
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martedì, novembre 01, 2016
Vizi privati e pubbliche virtù mediorientali
il business della vergogna
Il tallone d'Achille delle società ultra-conservatrici e formalmente puritane come quelle dei Paesi Arabi è notoriamente il sesso, e alcuni hanno imparato ad approfittare di questo punto debole per puntellare l'economia locale, come ad esempio la cittadina marocchina di Oued Zem, 115.000 abitanti, divenuta una delle capitali mondiali delle estorsioni online a sfondo sessuale.
Il meccanismo è semplice, ma ben rodato: si vagliano i profili social delle potenziali vittime: giovani adulti celibi o sposati, che vengono "agganciati" con richieste di contatto da parte di false identità femminili.
Segue la proposta di una sessione di sexcam su Skype, e qui entra in gioco l'abilità tecnica dei truffatori. Al posto della giovane, avvenente e disinibita ragazza libanese, egiziana, giordana o di uno dei Paesi del Golfo c'è un video scaricato dal web, reso credibile attraverso la perfetta sincronizzazione tra le immagini e le azioni reali (es: i messaggi vengono digitati quando nel video la protagonista scrive alla tastiera).
Le vittime vengono invitate a masturbarsi davanti alla videocamera e, se stanno al gioco, sono perdute. Pochi minuti dopo la conclusione della sexcam, infatti, il ricatto arriva attraverso un messaggio privato su WhatsApp o Facebook: o si pagano entro pochi giorni somme corrispondenti a 2.000/5.000 euro o il video con le prodezze onanistiche sarà inoltrato a mogli, familiari e amici.
Il racket della masturbazione online non è un'esclusiva di Oued Zem, ma nella cittadina marocchina ha di fatto soppiantato come principale fonte di entrate sia la decrepita miniera di fosfati gestita dallo Stato sia le rimesse degli emigrati, calate drasticamente con la crisi economica mondiale.
A Oued Zem si contano qualcosa come 50 agenzie di money transfer che movimentano principalmente denaro proveniente da estorsioni online. In questa lucrosa economia sommersa sono occupati centinaia di giovani locali che riescono a portare a casa sino a 300/400 euro al giorno.
Un'associazione britannica che si occupa di supporto alle vittime di questo genere di truffe dichiara di aver ricevuto oltre 14.000 richieste di aiuto dal 2012 a oggi, provenienti in larga misura da giovani arabi, e che almeno 1/3 delle estorsioni aveva come base il Marocco.
Toh! Chi si rivede
Un brevissimo flash per salutare, con rispetto, un piccolo trionfo della perseveranza, unita a una notevolissima dose di spregiudicatezza politica: l'elezione di Michel Aoun a Presidente del Libano.
L'ottantunenne Aoun, cristiano maronita ed ex alto ufficiale delle forze armate libanesi, è una vecchia conoscenza per chi segue, anche distrattamente, le faccende mediorientali.
Sul finire degli anni '80, infatti, il generale Aoun si mise in testa di diventare protagonista assoluto nel Paese dei Cedri martoriato da una lunga e sanguinosa guerra civile da "tutti contro tutti" che opponeva cristiani maroniti, sunniti, drusi, palestinesi e sciiti in alleanze che variavano a seconda delle convenienze dei leader e, soprattutto, degli interessi dei Paesi vicini.
Con un'autostima esagerata, Aoun vedeva se stesso come un De Gaulle libanese e cercò di opporsi militarmente allo strapotere della Siria, occasionalmente alleata con le milizie Hizbollah filo-iraniane e i drusi guidati da Walid Jumblatt. Gli andò malissimo e dovette prendere la strada dell'esilio.
La sua elezione, fortemente sponsorizzata proprio dagli ex arci-nemici Hizbollah, ha rotto uno stallo istituzionale che durava da oltre 2 anni e segue un accordo di non-belligeranza con il premier Saad Hariri, sunnita e sostenuto dall'Arabia Saudita.
Solo il futuro ci dirà se la strana coppia riuscirà a preservare il fragile equilibrio tra comunità che tiene insieme il Libano, un tempo lontano considerato - a seconda dei punti di vista - la Svizzera o la baldracca del Medio Oriente.
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domenica, ottobre 16, 2016
Spezzeremo le reni alla Russia?
Mi domando in cosa fossero occupati i politici nostrani nel luglio scorso, quando al vertice NATO di Varsavia venne deciso il dispiegamento, dal 2017, di un battaglione interforze di 4.000 uomini ai confini tra Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia e la Federazione Russa.
Nessuno - a Destra come a Sinistra - battè ciglio o alzò la voce allorché i ministri Gentiloni e Pinotti ne diedero informazione durante un'audizione in Parlamento, chiarendo che l'Italia aveva accettato di contribuire, a rotazione, con una compagnia di 140 soldati, salvo stracciarsi le vesti e dare fiato alle trombe ora.
La risposta forse, sta nell'inveterato provincialismo straccione della politica italiana, incapace di articolare un pensiero coerente che vada oltre i confini e le beghe di casa nostra, ferocemente attaccato al motto "A 'nu palmo d'o culo mio fa' chello ca vuo'".
Solo così si spiega come la politica italiana si sia svegliata scoprendo improvvisamente che il confronto tra NATO e Federazione Russa è precipitato a livelli da guerra fredda, con un'escalation di accuse reciproche e un mostrare i muscoli che non lasciano presagire niente di buono, ignara che la decisione presa a Varsavia ne è parte integrante come risposta agli incidenti di confine in Lettonia, dove tra la tarda primavera e l'inizio dell'estate scorsa le forze russe hanno ripetutamente sconfinato nel corso di esercitazioni militari.
Errori veniali, si dirà, ma dopo quanto successo in Crimea le Repubbliche Baltiche temono - non senza qualche fondamento - di essere le prossime pedine a essere sacrificate in una partita per la supremazia geopolitica più grande di loro.
Lo schieramento di un contingente NATO non è una buona notizia e sicuramente non aiuta la distensione, benché sia di dimensioni pressoché simboliche data la vastità dei confini interessati.
Sinceramente dubito che i 140 militari italiani partiranno per "spezzare le reni alla Russia" o per emulare le gesta degli spartani alle Termopili: sarebbe già qualcosa se la loro missione fosse utile non tanto a "salvare la faccia" alla NATO, cui le repubbliche baltiche e la Polonia sono associate, quanto come deterrente a ulteriori prove di forza.
Per quanto si possa pensare tutto il peggio possibile dell'espansione a est della NATO e degli interessi di cui è longa manus, è proprio il divampare di un'ulteriore guerra lampo lo scenario che va evitato a ogni costo.
Servirebbe più di qualsiasi altra cosa un'azione diplomatica efficace, quella che sinora né l'Italia, né il tandem Germania-Francia né l'Unione Europea si sono dimostrate in grado di allestire, lasciando così il gioco - e il fiammifero acceso - nelle mani poco delicate e affidabili delle stellette NATO.
Non mi reputo un guerrafondaio: solo ritengo che il tardivo belato bipartisan dei politici di casa nostra non sia una risposta e non contenga alcuna proposta utile.
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domenica, maggio 29, 2016
Idee
Ogni tanto in rete si trovano idee forse donchisciottesche, ma ingegnose, che fanno sorridere e inducono a pensare che l'umanità non sia un unico affollato letamaio senza speranza.
Maya Pedal, Guatemala from Matteo de Mayda on Vimeo.
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