lunedì, settembre 18, 2023
Diga del Gleno: la sciagura accantonata compie 100 anni
Il primo dicembre prossimo sarà trascorso un secolo esatto dal disastro della diga del Gleno (Alpi Orobie), una delle sciagure accantonate di un Paese che da sempre ha seri problemi di memoria.
Il computo ufficiale delle vittime nei paesi e nelle frazioni della Val di Scalve e di parte della Val Camonica fu di 356 morti.
Cos’era successo?
Quel primo di dicembre del 1923 la sezione centrale della diga non ancora ultimata né collaudata sul torrente Povo si sbriciolò sotto la pressione dell’acqua che aveva riempito l’invaso a causa di un autunno particolarmente piovoso. Una massa d’acqua, fango e detriti stimata tra 5 e 6 milioni di metri cubi percorse come una furia il letto del torrente spazzando via ciò che incontrava fino a concludere la sua corsa riversandosi nel Lago d’Iseo.
A differenza del Vajont ( diga costruita a regola d’arte nel posto sbagliato ), quella del Pian di Gleno fu una brutta storia di errori ingegneristici, decisionismi fuori luogo e ricorso a materiali scadenti.
Andiamo per ordine.
La prima richiesta di concessione per lo sfruttamento idroelettrico del torrente Povo risale al 1907. Dopo essere passata varie volte di mano, la concessione viene rilevata nell’immediato primo dopoguerra dalla Ditta Galeazzo Viganò, di proprietà di una famiglia si imprenditori brianzoli arricchitisi con le loro filande attive a Triuggio.
Nel 1917, dopo che il Genio Civile ha stabilito che l’invaso non potrà contenere più di 3,9 milioni di metri cubi d’acqua, la Ditta Galeazzo Viganò comunica alle autorità l’inizio dei lavori sebbene il progetto esecutivo non sia stato ancora presentato per approvazione. Solo nel 1921 il progetto per la costruzione di una diga a gravità elaborato dall’ingegnere bergamasco Gmur completa l’iter burocratico e risulta approvato.
Tutto a posto? Neanche per idea.
Nel 1918 l’Ing. Santangelo ha preso il posto di Gmur, deceduto, e il progetto viene modificato in corso d’opera da diga a gravità, dove è il peso stesso dello sbarramento a contrastare la pressione esercitata dall’acqua, a diga ad archi multipli, struttura in grado di trasferire alle rocce di fondazione le spinte del lago.
Solo che Michelangelo Viganò e suo fratello Virgilio, messo a dirigere il cantiere della diga malgrado manchi delle necessarie competenze tecniche, non hanno intenzione di perdere tempo e denaro nel demolire lil basamento già costruito per la diga a gravità e scavare la roccia in modo da ancorare saldamente gli archi. Inoltre, i due Viganò si confermano allergici alle intromissioni del Genio Civile, per cui scelgono di mettere ancora una volta quest’ultimo davanti al fatto compiuto.
Nell’agosto 1921 l’Ing. Castelli del Genio Civile ispeziona il cantiere e fa partire una diffida immediata alla prosecuzione dei lavori, ingiungendo ai Viganò di presentare un nuovo progetto esecutivo. In barba alla diffida i lavori proseguono a ritmo serrato anche perché le maestranze sono pagate a cottimo. Per risparmiare, inoltre, i materiali utilizzati sono di qualità scadente, lavorati e applicati senza cura.
Nell’ottobre del 1923 il bacino artificiale si riempie a causa delle piogge e si manifestano le prime massicce perdite d’acqua alla base delle arcate sovrastanti le fondamenta a gravità. Si arriva alle 7.15 di sabato primo dicembre 1923, ora in cui le 10 arcate centrali della diga di Gleno crollano come un castello di carte.
Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condanna Virgilio Viganò e l'ingegner Santangelo a tre anni e quattro mesi di reclusione più 7.500 lire di multa. La pena sarà ridotta a due anni di reclusione e la multa revocata in virtù degli accordi stragiudiziali per il risarcimento ai familiari delle vittime e a quanti avevano subito danni.
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