mercoledì, giugno 19, 2013
La musica che non gira intorno
Frullato di musica italiana
Ho ascoltato le esibizioni live di due band italiane e, ancora una volta, sono stato colto dalla sconfortante idea di essere diventato vecchio dentro, un “matusa” come si diceva un tempo.
C’è però qualcosa che non quadra nello sfacelo dei miei neuroni sensibili alla musica: mancano i sintomi della classica sindrome passatista, quella che induce a stabilire inderogabilmente la morte della musica al termine di una decade ormai lontana e che, in nome di tale verità inconfutabile, dispone l’animo del malcapitato allo sdoganamento ecumenico di tutto ciò che è stato prodotto entro la fatale scadenza, fossero anche le porcate più immonde.
No, sia pure confusamente io resto possibilista, aperto all’ascolto, desideroso di emozionarmi ancora, senza pregiudizi, nazionalismi o esterofilia. Ho i miei limiti di genere, ovviamente, perché ci sono sonorità come quelle di tal Scrillex, feticcio della mia ondivaga figlia adolescente, che mi risultano congeniali come la nevralgia del trigemino.
Per farla breve, la prima band era in odore di contratto per andare suonare in Giappone e negli USA per meriti ignoti, visto che il repertorio era un rock vagamente orecchiabile, suonato i modo passabile ma anche sciapo e per nulla originale.
La chicca era la vocalist: un corpo estraneo, fuori tempo e fuori tono, di quelle cantanti che sospetti siano state messe al microfono perché non c’era di meglio, perché è lei la ragazza del leader o perché ha portato in dote il garage o la cantina dove si fanno le prove.
La seconda band - e già definirla tale è un complimentone - si è esibita in una riuscita imitazione dei cori “da gita scolastica del liceo”, sia pure con contorno di basi elettroniche e tastiere.
Siccome di band emergenti, magari non scalcinate come quelle descritte, ne ho ascoltate parecchie e l’alternativa sono le ugole seriali plastificate-talentate-amicate-sanremate, sapete che vi dico? Che è ufficiale, sono un matusa e ora, senza alcuna vergogna, mi sparo in cuffia Get Lucky.
RIP
Fino a poche settimane fa, sinceramente, il nome Claudio Rocchi mi diceva poco o tendeva a sovrapporsi a quello di Claudio Lolli. Immagino il ribrezzo degli estimatori per cotanta dimostrazione d’ignoranza. D’altra parte, però, avrebbe poco senso se millantassi che all’alba della pubertà disponevo dei mezzi tecnici (dischi, giradischi, radio, registratori ecc.) e, soprattutto, dei mezzi culturali per confrontarmi con un certo genere musicale e con liriche ad alta densità di metafore: questo tipo di giochetto si fa quando si è adolescenti in vena di “farsi belli”.
M’è bastato leggere su una bacheca un post terribilmente umano della compagna di Rocchi per spingermi ad ascoltare un po’ di repertorio datato su youtube.
No, non è scattato il colpo di fulmine, però la distanza tra la libertà poetica di Claudio Rocchi e il conformismo glitterato della canzonetta attuale è roba da panico. Si vede che è era tempo che facessi i conti con la sua musica, e ci sono arrivato quasi fuori tempo massimo.
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