mercoledì, settembre 17, 2008

 

Una storia disonesta



A) «Non ci credo... è morto Stefano Rosso»
B) «Chi?»
A) «Un cantautore, uno bravo»
B) «Ah...»
A) «Dai, mai sentita “Che bello, due amici, una chitarra e lo spinello”? »
C) «Ma non era di... di... com'è che si chiama... ah sì Califano?»
A) «...»


Vallo a spiegare a chi non è della tua generazione chi era Stefano Rosso, o meglio cos’era per te Stefano Rosso: un cantautore, una voce, una manciata di canzoni che non saranno state le più famose o le più importanti del loro periodo, però facevano parte della tua “educazione musicale”.

Stefano Rosso covers Vaglielo a spiegare che a metà degli anni Settanta i cantautori erano personaggi totemici: li si accettava e li si ascoltava con deferenza, i bravi come i brocchi, perché la nostra fame di musica era tale che non facevamo gli schizzinosi se una canzone da 6 minuti abbondanti stava tutta in 2 accordi di chitarra o se una voce era piatta come una tavola da surf.

Buon Dio, quello che contava per noi erano i testi.
Loro erano le nostre bandiere, erano con noi quando abbiamo acceso di nascosto la prima paglia e nell'ora del primo, dolorosissimo 2 di Picche ricevuto da "quella del primo banco, la più carina, la più cretina, cretino tu" (Antonello Venditti - Compagno di Scuola).
Li imparavamo a memoria, quei testi, mettendoci uno zelo sconosciuto alle rime di Leopardi, Pascoli e Carducci.

Spiegalo tu che la scelta del cantautore preferito era cosa di una certa importanza sociale perché era (anche) un modo di farsi belli nella compagnia vantando gusti musicali di un certo livello.
Ascolti Lucio Battisti? Naaa... vuoi metterlo con Claudio Lolli?!?

Stefano Rosso per quelli della mia età era uno della “scuola romana”.
Non poetico-impegnato come Francesco De Gregori né epico-incazzoso come Antonello Venditti prima maniera, Stefano Rosso usava l’ironia sia che cantasse storie delicate come in “Letto 26”, sia che si facesse beffe della femminilità emancipata e della mascolinità in crisi in “Adesso vedi cosa fo”.

L'ho lasciato nella cucina di casa sua che si faceva un pakistano nero ai tempi di "Una storia disonesta", l'arguta parodia di una serata fricchettona con gli amici che fu il suo massimo successo discografico. Perciò ora è dura ammettere che se ne sia andato per davvero, in punta di piedi, senza salutare.

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