lunedì, giugno 09, 2008

 

Agrifollia



A lume di naso (il mio e il vostro), cosa possono avere in comune un trader coreano, un imprenditore agricolo del lodigiano, i clandestini che sbarcano a Lampedusa, la diplomazia degli affari degli USA e dei singoli Paesi dell'Unione Europea, le multinazionali delle sementi e degli antiparassitari, i governi dell’India e dell’Argentina e noi, semplici consumatori preoccupati per i continui ritocchi verso l’alto dei prezzi al dettaglio di pane, pasta, riso, carne, latte, olio, frutta e ortaggi?

In apparenza nulla.

Eppure un legame c’è: sottile, indiretto, trasversale, fatto di interessi che si intrecciano, coincidendo o entrando in conflitto a seconda delle circostanze.
Il legame è rappresentato dall’attività di ciascuno di questi soggetti in una lunga catena che ha al centro materie prime molto particolari: i prodotti agricoli, ovverosia quanto di più indispensabile esista al mondo subito dopo l’acqua potabile, ciò che per milioni di persone fa la differenza tra la vita e la morte.

Da tempo i prezzi dei prodotti agricoli sono in fase di crescita e, secondo gli esperti, si tratta di una tendenza destinata a durare. Le cause vengono indicate nella concomitanza di fattori apparentemente slegati tra loro:
Quello che la maggior parte degli analisti e dei mezzi di comunicazione non sono inclini ad ammettere apertamente è che con questo stato di cose si va concretizzando lo spettro di una crisi alimentare planetaria senza precedenti.

Al recente summit della FAO, che si è occupato anche degli effetti del rincaro dei prodotti agricoli, si sono sentite ripetere le solite ricette liberiste: migliorare la produttività dell’agricoltura nei paesi in via di sviluppo e orientarla al mercato; nel frattempo, si vedrà di tamponare le situazioni locali di emergenza trasferendo parte del surplus agricolo esistente sotto forma di aiuti umanitari.

Queste soluzioni sembrano ignorare, per convenienza e/o per partito preso, un fatto lampante: l’agribusiness mondiale costruito negli ultimi decenni oggi è un giocattolo fuori controllo, una macchina che macina profitti monstre a vantaggio di pochi e va collocando bombe ad orologeria in giro per il mondo. Come dice il proverbio, però, “chi semina vento, raccoglie tempesta”.

Dagli anni ‘60 a oggi, la politica estera di USA e CEE in materia di produzioni agricole è stata quella di esportare nel resto del mondo il loro modello agroindustriale, allettando i paesi emergenti con la promessa di ricchezza, benessere e sviluppo raggiungibile attraverso l’adozione dei pacchetti tecnologici "all-inclusive" (macchine agricole, concimi di sintesi, sementi ad alta resa e antiparassitari).
La modernizzazione planetaria dell’agricoltura sembrava una combinazione “win-win”: per i Paesi dell’Occidente industrializzato, infatti, la vendita di forniture agricole è stata sia un business lucroso per le imprese nazionali sia un fattore di stabilizzazione nello scacchiere geopolitico, creando o consolidando legami non soltanto commerciali.
Dall’altro lato, c’erano le prospettive di guadagno certo sia per le aziende agricole acquirenti sia per le economie nazionali dei Paesi in via di sviluppo, che potevano contare sugli introiti garantiti dalle quote di produzione destinabili all’esportazione.

Quali sono i difetti in questo ciclo “virtuoso”?
- In primis, il modello agroindustriale “occidentale” ha favorito il mantenimento e l’allargamento dei latifondi esistenti poiché risulta efficiente e remunerativo solo quando è applicato su larga scala.
Inoltre, la meccanizzazione nei campi richiede l’impiego di pochi addetti, rendendo superfluo il ricorso estensivo alla manodopera in realtà locali dove non esistono alternative all’agricoltura.
- In secondo luogo, i pacchetti agricoli creano una dipendenza costante dai fornitori di sementi geneticamente manipolate e brevettate nonché di antiparassitari, pesticidi e diserbanti - non di rado aspetti curati da un’unica grande multinazionale agrochimica - con spese di esercizio insostenibili per i piccoli coltivatori, che appena possono svendono e fanno fagotto.
- La maggiore produttività garantita dall’agricoltura industriale e “orientata al mercato” ha mostrato un ulteriore rovescio della medaglia: ha creato monocolture che hanno profondamente alterato gli ecosistemi locali e sottratto spazi a quell’agricoltura mista che garantiva l’autosufficienza alimentare delle comunità locali.

E infine ci sono i paradossi macroscopici.
Prendiamo il caso dell’Argentina, da sempre grande produttore ed esportatore di carni bovine, che si trova a dover trovare un complicato compromesso tra la remuneratività dell’export e il fabbisogno interno che resta scoperto e che, combinato all’inflazione, fa schizzare in alto il prezzo al dettaglio della carne.

Oppure prendiamo il caso dell’India, divenuta uno dei maggiori produttori ed esportatori mondiali di riso senza che questo abbia ridotto la percentuale di popolazione che vive ben al di sotto della soglia di povertà.

Infine, gli effetti paradossali si vedono anche nell’agricoltura di casa nostra. Oggi le piccole imprese agricole che vogliono far quadrare i conti tendono a concentrarsi sulle colture di primizie in serra. Il prezzo spuntato per le produzioni in campo, infatti, spesso è talmente basso da rendere antieconomico effettuare la raccolta, con tanti cari saluti a noi consumatori che paghiamo frutta e verdura a prezzi da boutique.

Un’agricoltura globalizzata che produce squilibri sociali, indigenza e fame, un’agricoltura di rapina che impoverisce le risorse del territorio ed è in balia delle speculazioni finanziarie tradisce il suo compito basilare, che è dare da vivere e nutrire.
Se vi siete chiesti perché, ovunque nel mondo, la gente abbandona le campagne per inurbarsi nelle megalopoli o emigrare in cerca di miglior fortuna, ora avete in mano una delle possibili risposte.

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Comments:
ho seguito con accanimento la puntata di report in cui venivano affrontate queste tematiche. ed è stato allora che mi sono resa conto che questa situazione non ha sbocchi, con buona pace della fao.
una volta andava molto di moda il motto "agire localmente, pensare globalmente"; io lo riprenderei, e leggerei il "locale" in forma proprio micro-microscopica, tipo casa mia. in altre parole, un orto sul balcone...
 
Pensa che proprio oggi, mentre attraversavo la campagna del parco di Veio per andare a riprendere mia figlia a scuola, pensavo che mi potrei dare all'agricoltura. Magari riesco a mantenere me e la mia famiglia allargata. E chissene frega del petrolio....
 
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