giovedì, aprile 16, 2009
Après nous le déluge
“Dopo di noi il diluvio”.
Luigi XV è passato alla storia per poche cose al di fuori di questa celebre frase, che sintetizzava tutto il suo regale menefreghismo per il futuro e per i problemi che l’insostenibile sfarzo della corte di Versailles avrebbe lasciato in eredità alla Francia e ai francesi.
Mutatis mutandis, Daniele (Macca) ha sfornato un bel post in cui mette il dito su una piaga, su una questione che nei giorni del lutto nazionale e dello slancio solidaristico post-terremoto è stata trattata con le pinze, quasi fosse una imperdonabile caduta di stile: come si può ricostruire un’identità, un territorio, servizi e infrastrutture in un Paese che, a tutti i livelli, antepone la furbata, l’accomodamento compiacente e l’interesse personale alla memoria, al buonsenso e al senso di responsabilità.
Ci sono tanti, troppi piccoli Luigi XV in giro per l'Italia e a monte del disastro naturale in Abruzzo per non temere che li ritroveremo in prima fila a valle, al momento della ricostruzione.
La documentazione che accompagna i certificati di collaudo dell’ospedale San Salvatore a L’Aquila, firmati nel 1980 da un ingegnere, un architetto e un geologo, è a suo modo illuminante su come sia possibile chiudere gli occhi su carenze e omissioni contando sull’indifferenza, sull’ignoranza e sul silenzio altrui.
E, aggiungo io, si tratta di un documento raro, perché in Italia siamo specialisti nel tagliare nastri e nel mettere il cappello su qualsiasi risultato positivo, ma altrettanto lesti nell’addossare alla fatalità gli effetti nefasti delle truffe, le disgrazie evitabili, gli incidenti sui luoghi di lavoro ecc. ecc.
Il diluvio dimenticato
C’è un altro aspetto, se volete collaterale e indiretto, che mi ha colpito negli scenari del dopo sisma: l’alternativa tra l’ipotesi delle new town, insediamenti da realizzare ex novo in località diverse e lontane da quelle devastate, e la ricostruzione pura e semplice una volta rimosse le macerie e riparato ciò che è restaurabile.
A favore della seconda soluzione c’è l’istintivo radicamento di una comunità che ha in un luogo fisico i simboli visibili della sua identità, della sua storia, di una trama di rapporti e consuetudini che, qualora venisse recisa, acuirebbe il già penoso senso di smarrimento e alienazione.
Questo mi ha fatto pensare a quanto successe nella mia zona d’origine dopo l’alluvione dell’ottobre 1951.
Dopo anni di siccità, la Sardegna orientale (la costa affacciata sul Tirreno) venne flagellata per 6 interminabili giorni da precipitazioni incessanti, violente, con punte locali di 1431 mm di pioggia caduti in sole 24 ore.
Fu un diluvio di proporzioni bibliche, che concentrò la sua furia devastatrice soprattutto su Baronia, Ogliastra e Sarrabus. Frane, allagamenti, ponti crollati, comunicazioni ed elettricità interrotte, paesi isolati per giorni, smembrati o quasi totalmente distrutti, i primi soccorsi paracadutati dagli aerei rendono l’idea di quella apocalisse dimenticata.
Il mio paese natale, Lanusei, fu danneggiato solo in parte. Tuttavia, fino agli anni ‘80 il ricordo dell’alluvione era visibile nelle casupole e nelle baracche del cosiddetto Villaggio Santa Lucia: un’enclave all'estrema periferia dell'abitato sorta spontaneamente ad opera delle famiglie sfollate.
La sorte peggiore toccò a Gairo e Osini : due piccoli centri arroccati uno di fronte all’altro sui ripidi costoni a monte del rio (torrente) Pardu.
Per spiegare in termini semplici cosa accadde, dovete pensare a un terreno fatto di più strati poggiati in precario equilibrio l’uno sull’altro. Dopo l’alluvione, gli strati superiori iniziarono lentamente, ma inesorabilmente, a smottare a valle scorrendo su quelli inferiori.
L’agonia di Gairo e Osini durò una dozzina di anni, finché anche gli ultimi irriducibili dovettero arrendersi all’evidenza del pericolo per la loro incolumità e abbandonarono i due paesi, trasformati da allora in tristi, ma suggestive ghost town (vedi immagini sopra).
Mio padre, che alla metà degli anni ‘50 lavorava a Gairo, mi raccontava di come sistemasse strisce di nastro adesivo sulle crepe che correvano sui muri dell’ufficio e di come le trovasse in capo a qualche giorno spaccate in due dai microspostamenti del terreno che franava.
Gairo venne ricostruito in parte sulla costa (Gairo Cardedu) e in parte a monte del vecchio abitato (Gairo Sant’Elena), mentre Osini venne riedificato circa 2 km a SE.
Mi sono chiesto per anni cosa avesse convinto gairesi e osinesi a ostinarsi nel costruire le nuove abitazioni così pericolosamente vicino alle rovine di quelle antiche, circondandole di grandi muraglioni di contenimento, dato che un processo naturale può essere ritardato, ma non sviato dal suo corso fintanto che non perviene a un nuovo stato di equilibrio.
La risposta è in quanto ho detto sopra: in quella volontà di resistere allo sradicamento, costi quel che costi, che ispira le decisioni degli appartenenti a una comunità dopo un evento naturale traumatico.
Etichette: alluvione del 1951, Ricordi, Sardegna, terremoto
Comments:
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io non so se avrei il coraggio di ricostruire la mia casa nello stesso posto. ne farei una in legno, piccola e bassa. magari con le ruote sotto.
Intanto, grazie: mi onori sempre troppo.
Ricostruire anche un'identità è fondamentale. Come scrivi benissimo tu, le case sono anche nell'anima delle persone. Qui, nel 1976, neanche per un minuto si è pensato di spostare alcunchè. Ci fu una proposta, più che altro politica, di portare gli abitanti dei paesi distrutti (più di cento) a Udine e Pordenone, molto, molto meno colpite dal sisma. Credo durò un paio di giorni: dopodichè, con la nostra indole che si sa solare (eh eh!), li mandammo tranquillamente al diavolo. E' come si costruisce che importa. Per questo io sono ancora scettico su di Noi, come gente.
Un abbraccio, caro.
Dan (Macca)
Ricostruire anche un'identità è fondamentale. Come scrivi benissimo tu, le case sono anche nell'anima delle persone. Qui, nel 1976, neanche per un minuto si è pensato di spostare alcunchè. Ci fu una proposta, più che altro politica, di portare gli abitanti dei paesi distrutti (più di cento) a Udine e Pordenone, molto, molto meno colpite dal sisma. Credo durò un paio di giorni: dopodichè, con la nostra indole che si sa solare (eh eh!), li mandammo tranquillamente al diavolo. E' come si costruisce che importa. Per questo io sono ancora scettico su di Noi, come gente.
Un abbraccio, caro.
Dan (Macca)
Non potendo fare in altro modo, vorrei porgere un saluto personale all'anonimo Mac user che silenziosamente dimostra alta considerazione (mi auguro) per questo post d'archivio.
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