mercoledì, luglio 17, 2024
Giustizia "tombale" sulle vittime del terremoto?
Nel giro di pochi giorni sono state emesse due sentenze nelle cause civili intentate dai familiari di vittime del terremoto a L’Aquila etichettate nei titoli di varie testate giornalistiche come "shock", “scandalose” o "vergognose". In entrambe i procedimenti le richieste di risarcimento sono state rigettate e i familiari dovranno farsi carico delle ingenti spese legali.
A ben vedere queste sentenze non sono arrivate come fulmini a ciel sereno, ma sembrano rispecchiare un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di concorso di colpa che si rifà all'articolo 1227 del codice civile richiamato dal successivo articolo 2056 per la responsabilità extracontrattuale.
In particolare l'articolo 1227 comma 1 recita:
"Se il fatto colposo del danneggiato ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate."Già più di un anno fa, decidendo sulla richiesta di risarcimento avanzata per sette persone decedute nel crollo di una palazzina a L'Aquila, il tribunale adito stabilì di decurtare la somma da liquidare ritenendo che vi fosse concorso di colpa nella decisione degli inquilini di non abbandonare lo stabile dopo la prima forte scossa.
La corte non ritenne dimostrato che la scelta delle vittime fosse stata condizionata dalle dichiarazioni rassicuranti rilasciate dalla Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile cinque giorni prima del terremoto del 6 aprile. In quella occasione gli esperti avevano affermato che il lungo sciame sismico iniziato a novembre stava scaricando l'energia tellurica, rendendo improbabile un evento su scala maggiore.
I giudici, tuttavia, tennero in considerazione che gli inquilini avessero fatto affidamento sulle caratteristiche antisismiche dell'edificio, ignorando che il costruttore non si era attenuto alle disposizioni di legge.
La storia si ripete
In sintesi, anche nelle recenti sentenze i giudici di secondo grado si sono attenuti alla interpretazione di cui sopra, reputando non provata la sussistenza di un nesso causale tra le dichiarazioni diffuse dalla Protezione Civile e la scelta di otto studenti universitari di non lasciare i loro alloggi alle prime avvisaglie del terremoto.
Pertanto la decisione, rivelatasi fatale, di restare a dormire al chiuso è stata considerata come concorso di colpa in quanto in violazione delle norme comportamentali di prudenza e diligenza.
E ora?
L'amarezza dei familiari delle vittime per l'esito avverso delle cause è resa ancora più cocente dalla probabile impossibilità di ricorrere in Cassazione. Per effetto della cd. riforma Cartabia, infatti, il ricorso in Cassazione è precluso quando la sentenza d'appello abbia confermato per le medesime ragioni, inerenti ai medesimi fatti, quella di primo grado.
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domenica, maggio 20, 2012
earthquake
Questa domenica cupa e piovosa è iniziata una manciata di minuti dopo le 4 AM. Stavo dormendo come un ciocco quando Monica mi ha destato dicendo che c'era appena stata una scossa di terremoto, lunga e molto forte. Incredibile ma vero, non avevo sentito nulla sebbene il letto avesse sobbalzato come una vettura che passi sopra una serie di dossi.
Per deformazione professionale, il primo impulso è stato quello di alzarmi, accendere il Macbook e andare a caccia di maggiori informazioni. Invece sono rimasto a letto, tenendo per me la sensazione di fastidio per la stupidità di quel riflesso: a che pro drizzare le antenne virtuali quando non puoi renderti utile in alcun modo?
C'è qualcosa di larvatamente cinico e voyeuristico in questa smania di essere "testimoni", o meglio spettatori di qualcosa che sta avvenendo a centinaia di km.
Per questo, pur comprendendo il dovere di cronaca, ho fatto fatica a guardare le dirette dei TG dove era quasi palpabile l'attesa che avvenisse qualcosa di drammatico da riprendere.
Nel primo pomeriggio c'è stata la replica: magnitudo 5.1. Anche questa volta Monica è stata la prima a percepire la scossa e a indicarmi il lampadario del soggiorno che ondeggiava. Solo in quel momento ho avvertito come una vibrazione nel divano su cui ero seduto: qualcosa di simile al passaggio sotto casa di un trasporto speciale, niente di più di una lieve e spiacevole sensazione durata il tempo di un sospiro.
In Emilia è stato un altro momento di terrore, qui no: qui la vita ha continuato a ronzare pigramente sotto la pioggia come se nulla fosse.
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giovedì, aprile 16, 2009
Après nous le déluge

Luigi XV è passato alla storia per poche cose al di fuori di questa celebre frase, che sintetizzava tutto il suo regale menefreghismo per il futuro e per i problemi che l’insostenibile sfarzo della corte di Versailles avrebbe lasciato in eredità alla Francia e ai francesi.
Mutatis mutandis, Daniele (Macca) ha sfornato un bel post in cui mette il dito su una piaga, su una questione che nei giorni del lutto nazionale e dello slancio solidaristico post-terremoto è stata trattata con le pinze, quasi fosse una imperdonabile caduta di stile: come si può ricostruire un’identità, un territorio, servizi e infrastrutture in un Paese che, a tutti i livelli, antepone la furbata, l’accomodamento compiacente e l’interesse personale alla memoria, al buonsenso e al senso di responsabilità.
Ci sono tanti, troppi piccoli Luigi XV in giro per l'Italia e a monte del disastro naturale in Abruzzo per non temere che li ritroveremo in prima fila a valle, al momento della ricostruzione.
La documentazione che accompagna i certificati di collaudo dell’ospedale San Salvatore a L’Aquila, firmati nel 1980 da un ingegnere, un architetto e un geologo, è a suo modo illuminante su come sia possibile chiudere gli occhi su carenze e omissioni contando sull’indifferenza, sull’ignoranza e sul silenzio altrui.
E, aggiungo io, si tratta di un documento raro, perché in Italia siamo specialisti nel tagliare nastri e nel mettere il cappello su qualsiasi risultato positivo, ma altrettanto lesti nell’addossare alla fatalità gli effetti nefasti delle truffe, le disgrazie evitabili, gli incidenti sui luoghi di lavoro ecc. ecc.
Il diluvio dimenticato
C’è un altro aspetto, se volete collaterale e indiretto, che mi ha colpito negli scenari del dopo sisma: l’alternativa tra l’ipotesi delle new town, insediamenti da realizzare ex novo in località diverse e lontane da quelle devastate, e la ricostruzione pura e semplice una volta rimosse le macerie e riparato ciò che è restaurabile.
A favore della seconda soluzione c’è l’istintivo radicamento di una comunità che ha in un luogo fisico i simboli visibili della sua identità, della sua storia, di una trama di rapporti e consuetudini che, qualora venisse recisa, acuirebbe il già penoso senso di smarrimento e alienazione.
Questo mi ha fatto pensare a quanto successe nella mia zona d’origine dopo l’alluvione dell’ottobre 1951.
Dopo anni di siccità, la Sardegna orientale (la costa affacciata sul Tirreno) venne flagellata per 6 interminabili giorni da precipitazioni incessanti, violente, con punte locali di 1431 mm di pioggia caduti in sole 24 ore.
Fu un diluvio di proporzioni bibliche, che concentrò la sua furia devastatrice soprattutto su Baronia, Ogliastra e Sarrabus. Frane, allagamenti, ponti crollati, comunicazioni ed elettricità interrotte, paesi isolati per giorni, smembrati o quasi totalmente distrutti, i primi soccorsi paracadutati dagli aerei rendono l’idea di quella apocalisse dimenticata.
Il mio paese natale, Lanusei, fu danneggiato solo in parte. Tuttavia, fino agli anni ‘80 il ricordo dell’alluvione era visibile nelle casupole e nelle baracche del cosiddetto Villaggio Santa Lucia: un’enclave all'estrema periferia dell'abitato sorta spontaneamente ad opera delle famiglie sfollate.

La sorte peggiore toccò a Gairo e Osini : due piccoli centri arroccati uno di fronte all’altro sui ripidi costoni a monte del rio (torrente) Pardu.
Per spiegare in termini semplici cosa accadde, dovete pensare a un terreno fatto di più strati poggiati in precario equilibrio l’uno sull’altro. Dopo l’alluvione, gli strati superiori iniziarono lentamente, ma inesorabilmente, a smottare a valle scorrendo su quelli inferiori.
L’agonia di Gairo e Osini durò una dozzina di anni, finché anche gli ultimi irriducibili dovettero arrendersi all’evidenza del pericolo per la loro incolumità e abbandonarono i due paesi, trasformati da allora in tristi, ma suggestive ghost town (vedi immagini sopra).
Mio padre, che alla metà degli anni ‘50 lavorava a Gairo, mi raccontava di come sistemasse strisce di nastro adesivo sulle crepe che correvano sui muri dell’ufficio e di come le trovasse in capo a qualche giorno spaccate in due dai microspostamenti del terreno che franava.
Gairo venne ricostruito in parte sulla costa (Gairo Cardedu) e in parte a monte del vecchio abitato (Gairo Sant’Elena), mentre Osini venne riedificato circa 2 km a SE.
Mi sono chiesto per anni cosa avesse convinto gairesi e osinesi a ostinarsi nel costruire le nuove abitazioni così pericolosamente vicino alle rovine di quelle antiche, circondandole di grandi muraglioni di contenimento, dato che un processo naturale può essere ritardato, ma non sviato dal suo corso fintanto che non perviene a un nuovo stato di equilibrio.
La risposta è in quanto ho detto sopra: in quella volontà di resistere allo sradicamento, costi quel che costi, che ispira le decisioni degli appartenenti a una comunità dopo un evento naturale traumatico.
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