sabato, giugno 18, 2011

 

Amina Arraf e il suo vaso di Pandora



Ci sono diversi piani di lettura e altrettante lezioni su cui riflettere nello squallido epilogo del caso di Amina Arraf, a.k.a. “A gay girl in Damascus”.

Riepilogo i fatti a beneficio di quanti non avessero seguito la vicenda.
Da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba” il web è diventato uno degli snodi fondamentali per la diffusione di notizie, immagini e video “non ufficiali” che documentano l’evolversi delle rivolte popolari.
Decine di “citizen journalist” sfidano volontariamente la censura, l’arresto e la tortura in carcere per portare su Twitter, YouTube, Facebook e sui blog ciò che vedono, sentono e ritraggono con le fotocamere del cellulare in luoghi e situazioni dove non sono presenti o non sono ammessi i reporter delle testate internazionali.
Fonti di prima mano, quindi, importanti, ma evidentemente non sicure al 100% né imparziali.

Amina2Tra tutte queste “voci” conosciute solo con i loro pseudonimi è emersa quella di Amina Arraf, autrice di un blog intitolato ”A gay girl in Damascus” e di una pagina Facebook.
Ciò che attirava l’attenzione di utenti e giornalisti era il taglio e la qualità di scrittura delle storie che Amina andava pubblicando; la verosimiglianza del quadro che faceva di sé e della sua precaria condizione di musulmana e omosessuale in un Paese arabo dalle frontiere sigillate, in bilico su una sanguinosa guerra civile.

A fine maggio, al culmine della popolarità in Rete e su diversi quotidiani internazionali, si sparge la voce che Amina è stata catturata dalla polizia siriana ed è trattenuta in una località imprecisata. Scatta una sorta di mobilitazione generale per ottenere notizie sulla sorte della sventurata eroina e per chiederne la liberazione.

Proprio attivando tutti i canali disponibili emergono le prime incongruenze sull’identità della misteriosa ed evanescente gay siriana. Il cerchio si stringe finché un paffuto nerd americano trasferitosi in Scozia, Tom MacMaster, è costretto ad ammettere pubblicamente di essersi inventato il personaggio di Amina Arraf senza aver mai messo piede in Siria.
Non basta, perché a stretto giro di posta si scopre che una grande sostenitrice della sedicente Amina, la fumantina caporedattrice del sito LGBT americano LezGetReal Paula Brooks, in realtà è un disoccupato eterosessuale che vive nell’Ohio.

La prima riflessione, scontata, riguarda l’affidabilità del citizen journalism come fonte di informazioni. Il discredito gettato dalla bufala virtuale è evidente, ma rischia di essere metabolizzato senza alcun correttivo.
La cosa peggiore che potrebbe succedere è che si usi la truffa mediatica di Amina come esempio per dire: “Ecco, lo vedete, l’informazione è una cosa troppo seria perché sia lasciata in mano a dei dilettanti”.

Già, i dilettanti... ma dalla vicenda escono con le ossa rotte anche i “professionisti”, i media mainstream e il giornalismo tradizionale, quello che un tempo era fatto di rigore deontologico e di faticosa verifica delle fonti e che oggi quasi non esiste più, travolto e seppellito dalla voracità bulimica di un sistema che consuma le notizie sempre più in fretta.
Oggi come oggi, i media convenzionali sono vittime e complici di una situazione in cui i filtri sono usati in modo discrezionale e dove chiunque, con un minimo di conoscenze, può mettere in circolo polpette avvelenate e patacche assolute.

BreaknewsIl fastidio verso ipotesi di tutoraggio sul web 2.0 non esclude la necessità di interrogarci sull’atteggiamento che abbiamo come utenti e “cittadini della Rete”.
A volte ho l’impressione che non siano chiari i confini tra un uso “ludico-sperimentale” degli strumenti a disposizione - per intenderci l’atteggiamento del bambino nel negozio di giocattoli - e la responsabilità che si dovrebbe avere quando si maneggiano informazioni, documenti, foto e video.

Un’ultima riflessione, amarognola, la riservo alla sconcertante banalità del male.
Tom MacMaster si è dichiarato “dolorosamente colpito” dalla veemenza delle reazioni. Lui “non pensava” di fare qualcosa di male nell’indagare sui confini tra realtà e invenzione narrativa e nel raccontare a modo suo le vicende mediorientali.
Non pensava minimamente ai danni che poteva provocare azzerando la credibilità del lavoro svolto “sul campo” da persone che hanno nel web l’unico canale per far sentire la loro voce.
Come un qualsiasi apprendista stregone bocciato all'esame, Tom MacMaster sta tornando nell’anonimato quasi senza pagare dazio: questo non mi sembra molto equo.

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Comments:
Troppa Libertà? Troppo poca? Dal mio angolino di web, praticamente sconosciuto, guardo con un misto di tristezza e di sconforto cose del genere. Molte persone pensano che la Rete possa far passare ogni cosa, anche il delirio di una mente che ha concepito un "gioco" come questo. Lo dico pensando al fatto che la mancanza di diritti e di Democrazia, in moltissime parti del Mondo, è fonte di tragedie vere. Ecco, allora mi sento di dire che l'unico filtro che si dovrebbe inventare è quello contro gli imbecilli e, credimi, avrebbe da fare moltissimo lavoro.
Un abbraccio.
 
@Daniele - temo che filtrare gli imbecilli sarebbe impresa improba, del tipo "scopare il mare".
Non sono del tutto pessimista sulla possibilità che maturi un sano senso critico e di responsabilità negli utenti e posso sperare che il caso Amina faccia sviluppare anticorpi contro un certo tipo di spazzatura.
 
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