sabato, febbraio 18, 2012
hard times
La crisi? C'è, cavoli se c'è.
La notte è ancora lunga da passare, buia e tempestosa, e solo quando verrà l'alba si potrà fare la conta dei sopravvissuti.
Si ha un bel dire che la comunicazione o è strategica o non è, che la qualità paga, che la professionalità, la creatività, l'analisi degli scenari e dei nuovi linguaggi generano valore aggiunto e altri bla bla bla in parte sinceri, in parte autoreferenziali.
Giusto stamattina ripensavo ad alcuni progetti innovativi messi in pista in questi ultimi anni che giacciono accantonati dopo il debutto in pompa magna. Uno spreco di intelligenze e di risorse che denota, più di 1000 altri dettagli, come la comunicazione aziendale sia ancora utilizzata in funzione prevalentemente tattica, frutto di temporanee convergenze di interessi e convenienze del management più che di una visione strategica condivisa.
Al di là di queste annotazioni di metodo, ho vari motivi per guardare al presente e al prossimo futuro con preoccupazione. Dopo l'estate, il mercato della comunicazione è passato da una morbida curva in discesa a una caduta libera dove tutti - dai grandi gruppi internazionali alle piccole agenzie - sono in fibrillazione nel tentativo di puntellare posizioni sempre più precarie.
La mancanza di liquidità delle aziende è divenuta una costante da monitorare mese per mese, ma anche una comoda scusa per far saltare contratti in essere, lasciando "buchi" da migliaia di Euro in fatture inevase, o per contrattare una robusta sforbiciata alla voce compensi. La tesi reaganiana del "tenere la bestia affamata" viene applicata ad arte anche da "virtuose" corporation che hanno chiuso l'anno fiscale con corposi incrementi di utili e dividendi.
Il risultato, scontato, è che le agenzie sono sempre più in debito d'ossigeno e, pur di continuare a lavorare con una parvenza di margine, tagliano i costi interni ridimensionando le strutture.
Nel mio piccolo, annuso l'odore della crisi nel fatto che dopo qualche anno torno ad avere sul groppone tutto l'editing di agenzia.
Non mi spaventa l'idea in sé di lavorare in una sorta catena di montaggio postindustriale. Mi pesa, piuttosto, l'incognita della mia tenuta fisica e nervosa alla pressione di certe giornate, il riadattamento forzato a certe velocità di esecuzione e la consapevolezza che i miei tempi di recupero da certe tirate oggi non sono più quelli di 5 o 10 anni fa.
Se solo ci fosse qualche soddisfazione spicciola in più in questo dannato lavoro che amo - non so fino a che punto corrisposto - forse il quadro non mi sembrerebbe così a tinte fosche.
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