domenica, marzo 25, 2012
Nel bene e nel male
La riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali per ora è poco più di un indice, un documento che illustra l’orientamento del governo in carica.
Che una riforma fosse necessaria per ripulire un ambito inceppato, distorsivo, inefficiente e ingiusto è fuori di dubbio.
Un mercato iperflessibile in entrata al punto da rendere stabile solo la precarietà e il lavoro intermittente, massimizzando forme di sfruttamento selvaggio e di lavoro grigio, e bloccato in uscita, con lo scaricamento sul sistema previdenziale pubblico dei costi di crisi aziendali endemiche, irreversibili o frutto di delocalizzazioni furbette, è una micidiale palla al piede per un Paese che di suo ha smesso da anni di crescere al passo con il resto d’Europa e del mondo.
Che poi una riforma ambiziosa possa funzionare ed essere equa in un momento di stagnazione profonda, con risorse pubbliche prossime allo zero malgrado un livello di tassazione - diretta e indiretta - che si appresta a sfondare il tetto del 70%, è tutto un altro paio di maniche.
Bene fa Mario Monti a ricordarci di guardare lontano e di non limitarci a difendere strenuamente l’esistente quando ciò significa ipotecare il futuro, caricando sulle spalle delle prossime generazioni un fardello insostenibile.
Allo stesso tempo, però, c’è un limite fisiologico alla capacità dei lavoratori di prendersela responsabilmente tra le natiche in nome e per conto della soddisfazione dei mercati finanziari e del gotha di Eurolandia, lasciando in eredità ai loro figli un sistema che accentua drammaticamente le diseguaglianze sociali.
Quel che pare evidente è che sulla flessibilità in uscita e l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il premier e il ministro Elsa Fornero hanno perseguito tenacemente una ibridazione spuria tra il modello tedesco e le sirene del liberismo puro-e-duro inglese e statunitense, in apparenza senza tenere conto degli effetti potenziali della saldatura tra l’espulsione di forza lavoro che continuerà ad avvenire per effetto della recessione e l’allungamento dei requisiti per accedere al sistema pensionistico contenuto nella riforma della previdenza varata in pieno clima di emergenza.
Non solo, ma con un uso spregiudicatamente politico e propagandistico della trattativa e dello “strappo” finale con la CGIL hanno avvalorato la tesi - tanto cara a una grande e influente azienda italiana - che la concertazione con le parti sociali sia il tappo che fino a oggi ha bloccato gli investimenti industriali e la competitività del Paese.
Per certi versi, gli exploit dialettici e l’atteggiamento assunto dal Ministro del Welfare durante la trattativa mi sono sembrati in piena sintonia e continuità con quelli del suo predecessore nel governo Berlusconi: Maurizio Sacconi.
Che i sindacati debbano recitare il loro mea culpa per come si sono adagiati sulla gestione di comode rendite di posizione è un fatto sotto gli occhi di tutti, ma che siano loro l’ostacolo da svellere per rendere l’Italia un paese ospitale per i capitali esteri e dove si può fare impresa è una panzana risibile, anzi tragica.
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