sabato, marzo 18, 2023

 

Qual è il prezzo della libertà d'informazione?



Mi ha colpito una notizia pubblicata dal Washington Post: un cronista residente nell’area di Tampa Bay (Florida), collaboratore di un importante portale all news e inserito nella rosa del premio Pulitzer per alcune sue inchieste, è stato licenziato per aver espresso un giudizio critico su un comunicato stampa diffuso del Dipartimento Educazione della Florida.

il comunicato in questione aveva per oggetto la partecipazione del governatore della Florida, Ron DeSantis, a una tavola rotonda nella quale si sarebbe discusso dei finanziamenti ai programmi scolastici ispirati ai principi dell’inclusione e delle pari opportunità di accesso alla conoscenza per gli studenti indipendentemente dalle diversità razziali, di lingua, di genere e di orientamento sessuale: argomento bollato come “woke” e notoriamente fumo negli occhi per il governatore nonché candidato in corsa alle primarie del Partito Repubblicano.

A giudizio del giornalista il comunicato stampa mancava di reali contenuti notiziabili al di là della segnalazione di un appuntamento politico di routine a sostegno dell’agenda ultraconservatrice di DeSantis e della sua campagna per la nomination alle presidenziali.
Niente di particolarmente nuovo: gli uffici stampa si trovano spesso a surrogare in qualche modo l’assenza di notizie e argomenti “forti” pur di soddisfare le esigenze di visibilità dei clienti. A fare la differenza rispetto a mille altri comunicati di questo genere che ogni giorno finiscono silenziosamente nel cestino è stata la reazione del giornalista, che ha avuto la malaugurata idea di rispondere esplicitando un giudizio tanto sintetico quanto tranchant:“questa è propaganda, non un comunicato stampa”.

Meno di un’ora dopo è scattata la ritorsione dell’ufficio stampa. Il capo delle relazioni esterne del Dipartimento Educazione, infatti, condivideva su twitter la mail di risposta del giornalista scatenando un vespaio.
A tarda sera il cronista è stato raggiunto telefonicamente dalla responsabile delle edizioni locali del portale che, ottenuta la formale conferma dell’accaduto, gli ha comunicato la rescissione immediata del contratto di collaborazione in quanto “la sua reputazione professionale era stata irrimediabilmente compromessa”.

La notizia offre più spunti di riflessione. Mi limito a elencarli, lasciando a chi legge la libertà di svilupparli:

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giovedì, febbraio 23, 2023

 

Dove eravamo rimasti?

Mesi di assenza e di non aggiornamento del blog, tutto perchè l'accesso memorizzato nel browser era saltato e "Big G" mi ha costretto all'arte di matti per rientrare. A presto.


lunedì, ottobre 10, 2022

 

In memoria di Antonio Russo, reporter scomodo e dimenticato



La mattina del 16 ottobre 2000 il cadavere di Antonio Russo, 40 anni, reporter free lance e collaboratore di Radio Radicale, veniva trovato sul ciglio di una strada poco frequentata a circa 25 km da Tbilisi, capitale della Georgia.
L’esame autoptico accerterà che il corpo del reporter, apparentemente integro, presentava lo sfondamento della cassa toracica e diffuse lesioni agli organi interni compatibili con un pestaggio condotto con tecniche in uso presso unità militari specializzate. Inoltre, l’alloggio di Russo a Tbilisi risultò svaligiato da ignoti che avevano fatto sparire bloc-notes, articoli, registratore, videocamera, nastri audio e video e il telefono satellitare, disdegnando denaro e altri oggetti di valore.

Qui finiscono le poche certezze: a distanza di 22 anni la morte di Antonio Russo è rimasta un cold case archiviato e, in larga misura, dimenticato. Le indagini condotte dalla Procura di Roma e dagli inquirenti georgiani, infatti, si conclusero in un nulla di fatto.
A questo punto, però, è necessario chiarire chi era Antonio Russo e cosa l’ha condotto a morire in Georgia.

Un reporter anomalo e scomodo

Antonio Russo approda al giornalismo alla fine degli anni ’80 proveniente dall’esperienza politica nelle file dei giovani federalisti e dei Radicali. E’ un reporter “anomalo” a cominciare dal rifiuto di sottostare alla trafila per l’iscrizione all’albo dei giornalisti. Malgrado la mancanza del tesserino, che talvolta gli verrà fatta pesare trattandolo da “abusivo”, Russo impara sul campo il mestiere dell’inviato di guerra seguendo i conflitti in Algeria, Rwanda, Zaire, Bosnia e Kosovo.

A Pristina, Antonio Russo è l’ultimo giornalista occidentale a lasciare la città nonostante i bombardamenti e l’ultimatum impartito da Slobodan Milosevic. Sa di essere finito nel mirino delle autorità di Belgrado a causa delle sue corrispondenze per Radio Radicale in cui denunciava le operazioni di pulizia etnica contro i kossovari di etnia albanese. Così quando le truppe serbe iniziano i rastrellamenti casa per casa, si mette in salvo rocambolescamente salendo su un convoglio di profughi diretto verso la Macedonia del Nord. Rimasto bloccato al confine, viene dato per disperso finché non raggiunge Skopje a piedi.

Le posizioni sul conflitto in Kosovo e sull’intervento militare della NATO espresse senza alcuna concessione alla diplomazia in collegamento con Radio Radicale e con il talk show Moby Dick di Michele Santoro procurano a Russo più problemi che benefici anche in Italia, tant'è vero che alla stazione ferroviaria di Mestre, di ritorno da un convegno a Treviso, viene riconosciuto, contestato e malmenato da un gruppo di pacifisti reduci da una manifestazione anti-NATO svoltasi ad Aviano.

Cecenia

Antonio Russo si trasferisce nella Repubblica di Georgia allo scopo di seguire, attraverso canali non ufficiali, la seconda guerra cecena.
Entrare in Cecenia a ostilità iniziate senza essere giornalisti accreditati da Mosca significava rischiare di essere passati per le armi sul posto dalle forze russe oppure finire catturati e uccisi dai separatisti musulmani perché scambiati per spie.
Malgrado la frontiera sia sigillata, Russo ricava dalle informazioni che filtrano in Georgia la conferma della volontà di Putin di sradicare il focolaio islamista nel Caucaso definitivamente e a qualsiasi costo, incluso il ricorso ad armamenti e tattiche di controguerriglia in deroga alle convenzioni internazionali.

Pochi giorni giorni prima di essere assassinato, Russo telefona ai familiari annunciando il rientro in Italia e accenna di aver acquisto un video scioccante sulle atrocità commesse dall’esercito russo e dai suoi alleati ceceni del clan Kadyrov. Secondo alcuni amici, il reporter avrebbe ottenuto le prove dell’impiego di granate all’uranio impoverito oppure di torture e massacri su donne e bambini; si tratta, però, di mere supposizioni.

Nonostante l’assenza di prove, è plausibile che Russo con quell’ultima telefonata a casa abbia firmato la propria condanna a morte. Resta un mistero insondabile come un inviato di guerra esperto abbia potuto lasciarsi andare al telefono a rivelazioni tanto incaute, quasi avesse deciso di sfidare la sorte mettendo alla prova la reattività degli apparati di intelligence russi o di altri Paesi.

Al di là di un'incongruenza forse rivelatasi esiziale, Antonio Russo merita di essere ricordato per il suo essere stato un hombre vertical, spigoloso, scomodo ma anche eticamente integro nell'assolvere la professione di giornalista e inviato di guerra.
«Fondamentalmente dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna sempre tener presente che chi è dall’altra parte deve poter comprendere una realtà in cui non è presente. Questo, penso, è il massimo sforzo che i giornalisti devono compiere.»

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martedì, settembre 06, 2022

 

diffamazione online: quella sporca latrina



Sabato 3 settembre Cloudflare, azienda che si occupa di web hosting e sicurezza digitale, ha annunciato di aver interrotto la fornitura di servizi al forum Kiwi Farms.
Se questa notizia vi ha lasciato perplessi o indifferenti niente paura: probabilmente ancora non sapete cosa sia e come operi Kiwi Farms.

Permettetemi una premessa chiarificatrice. Di regola i fornitori di servizi tecnici sono rigorosamente agnostici nei confronti dei comportamenti e delle convinzioni dei clienti, astenendosi dal dare giudizi morali e dal surrogare le autorità competenti intervenendo con autonome iniziative censorie.
La presa di posizione di Cloudflare, perciò, rappresenta una extrema ratio giustificata da ragioni di gravità e urgenza, ovverosia la percezione che l’aggressività virtuale degli utenti di Kiwi Farms stesse per trasformarsi in una minaccia REALE alla vita di una persona.

Cos’è Kiwi Farms

Frequentando i social network vi sarete senz’altro fatti un’idea di cosa siano i troll e il cyberbullismo. Kiwi Farms combina il peggio di queste due categorie.
Creato nel 2013 da un ex administrator del controverso 8Chan, paradiso dei teorici delle cospirazioni, degli estremisti di Destra nonché una delle più malfamate discariche di internet, Kiwi Farms ospita e promuove campagne di molestie, persecuzione, calunnia, minacce e istigazione al suicidio.
Le vittime in genere sono scelte tra donne, rappresentanti di determinate minoranze quali esponenti LGBTQ o soggetti affetti da disturbi dello spettro autistico che, a giudizio degli utenti di Kiwi Farms, sarebbero del tutto immeritevoli delle attenzioni ricevute in campo artistico o nel sociale.

Una volta concordato il bersaglio, i frequentatori di Kiwi Farms mettono all’opera la panoplia delle tattiche per molestare, screditare e angosciare la vittima, i suoi familiari, amici e collaboratori.

In alcuni casi in cui il bersaglio della campagna - vuoi per problemi personali, vuoi perché prostrato dal sentirsi costantemente diffamato, minacciato e braccato - è giunto a togliersi la vita, Kiwi Farms ha celebrato l’evento intestandosene il merito. Ed è qui che si colloca, preventivamente, la sofferta decisione di Cloudflare di venire meno alla propria neutralità mettendo apertamente i bastoni tra le ruote a una campagna d’odio che stava degenerando.

A questo punto dovrebbero essere evidenti due cose:
a) che le macchine del fango come Kiwi Farms non sono affatto innocue, bolle virtuali in cui sfogare le pulsioni più sordide;
b) che ci si muove su un crinale sdrucciolevole ogni qual volta si sfiora la libertà di espressione o si avanzano nuove proposte per regolamentare responsabilità e poteri dei provider sui contenuti generati dagli utenti.
A chi non piacerebbe una Rete decontaminata dagli sversamenti di liquami tossici? Anche ipotizzando che tale risultato sia raggiungibile, il punto è: quale prezzo siamo disposti a pagare?

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martedì, agosto 30, 2022

 

Chi di GALSI ferisce...



Era inevitabile che, con le quotazioni del metano sul libero mercato schizzate alle stelle e il timore di un futuro prossimo di ristrettezze con i rubinetti dei metanodotti russi chiusi da Mosca, si riesumasse con rimpianto il ricordo del progetto - abortito - del gasdotto Algeria-Italia, noto come GALSI.
Nei giorni scorsi, infatti, eurodeputato eletto con la Lega ha presentato un’interrogazione per chiedere alla Commissione Europea chiarimenti in merito al GALSI, ricevendo in risposta il rabbuffo della Commissaria all’Energia, l’estone Kadri Simson, che ha avuto vita facile nel puntare il dito sull’incapacità dei governi italiani di utilizzare i 120 milioni di euro stanziati dall’Europa, non spesi e perciò tornati nel bilancio UE.

Cosa era, sulla carta, il GALSI?

Il progetto, sviluppato in partnership da Sonatrach, Edison, ENEL, Wintershall, Hera Trading, Sfirs (finanziaria della Regione Sardegna) e Snam Progetti, prevedeva la realizzazione di un gasdotto dai giacimenti nell’entroterra algerino sino a Piombino, dove il metano sarebbe stato immesso nella rete energetica nazionale.
Il percorso si sarebbe snodato per quasi 600 km attraverso condutture sottomarine e per circa 270 km in una dorsale a terra in Sardegna, con il territorio tagliato quasi in diagonale da SW (Porto Botte) a NE (Olbia).
Per il completamento dell’opera erano previsti 20 anni di lavori per un costo complessivo che stimato intorno ai 4 miliardi di €.
A pieno regime per il GALSI sarebbero fluiti 8 miliardi di metri cubi di gas metano l’anno: un contributo al fabbisogno energetico nazionale sostanzioso anche se non risolutivo, stante che i consumi annui di gas naturale in Italia sono nell’ordine di oltre 76 miliardi di mc, e in ogni caso una mossa intelligente in un’ottica di diversificazione dei fornitori.

Perché il GALSI non è decollato?

Questa è la parte più complicata del racconto. Spulciando gli articoli d’archivio risalenti a una dozzina e passa di anni fa è difficile destreggiarsi tra polemiche nimby, interrogativi legittimi, strategie idi mercato e decisioni prettamente politiche.

In discussione c’era la reale convenienza dell’opera. Le analisi di mercato, infatti, portavano a dubitare che anche nel lungo periodo le quotazioni del metano avrebbero avuto rialzi tali a rendere profittevole l’investimento; Edison, uno dei principali partner, fu la prima a mettere le mani avanti in questo senso.

Diverso è il discorso sulla vita operativa del gasdotto, legata allo stato delle riserve di idrocarburi nei giacimenti algerini. Se la stima di 25 anni prima dell’esaurimento era corretta, anche qualora fossero stati rispettati i tempi di consegna gli 8 miliardi di mc di gas sarebbero stati garantiti per un lasso di tempo di 5 anni o poco più.
Ne sarebbe valsa comunque la pena?
Sì, se si pensa alla nostra dipendenza energetica che rende attrattivi i giacimenti off-shore non ancora coltivati nell’Adriatico benché le stime sulle loro riserve di idrocarburi siano piuttosto modeste. Secondo alcuni esperti, se si sfruttassero tutti i giacimenti presenti sul territorio italiano si arriverebbe a coprire per alcuni anni circa il 10% del fabbisogno energetico in luogo dell’attuale 6% (3,3 miliardi di mc).

Ci sarebbero, poi, i controversi capitoli dell’impatto ambientale e del rapporto sacrifici/benefici per la Sardegna, non a caso gli argomenti su cui maggiormente infuriarono le polemiche.
L’attraversamento del territorio isolano avrebbe inevitabilmente comportato sacrifici notevoli in termini ambientali, di espropri e di limitazioni alle attività.
Anche prestando fede alle rassicurazioni sul ripristino ambientale presenti nel progetto, quali sarebbero state le contropartite per l’isola? Sulla carta NIENTE.
Nessuna royalty, dato che il gas sarebbe stato estratto all’estero, e non un solo mc del metano trasportato, di cui si prevedeva solamente il transito.
La metanizzazione della Sardegna, con le reti gas che tuttora coprono solo un numero irrisorio di comuni, non era un problema di competenza del GALSI. I costi - improponibili - di realizzazione degli allacci e delle diramazioni sarebbero stati, perciò, totalmente a carico delle casse comunali, consortili o regionali. Ancora di recente i vertici dell’ENEL hanno ribadito che nel futuro energetico della Sardegna non c'è posto per il metano (en passant, una manna per il GPL distribuito in bombole e bomboloni).
Era da scartare anche la possibilità di ottenere come partita di giro sconti sulle forniture alle imprese isolane energivore perché si dava per scontato che ciò avrebbe fatto scattare la mannaia dell’Unione Europea sugli "aiuti di Stato".

A torto o a ragione, pertanto, il GALSI si presentava come un progetto per molti versi solido e sensato, sfidante dal punto di vista ingegneristico ma mai del tutto convincente sotto il profilo della sostenibilità ambientale, economica e sociale. In altre parole, una mega infrastruttura difesa poco e male dagli stessi proponenti e - vista dalla Sardegna - l’ennesima servitù imposta all’isola.

Dal punto di vista politico, infine, è quanto mai probabile che il GALSI sia stato sacrificato dai governi succedutisi dal 2011 in poi un po’ per il mutato quadro economico mondiale e nazionale, con l’onda della recessione arrivata dagli USA e il debito pubblico italiano messo sotto stretta sorveglianza dall'Europa, un po’ perché, per una convergenza di interessi tra imprese e partiti, si scelse di andare al risparmio affidandosi al metano russo, conveniente e disponibile pronta cassa.

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giovedì, agosto 25, 2022

 

La schiavitù raccontata in prima persona



Se avete una certa età probabilmente ricorderete “Radici”, successo televisivo tratto dal bestseller dello scrittore afroamericano Alex Haley.
Rispetto alla saga familiare ricostruita nel romanzo di Haley, “The Life of Omar ibn Said” si colloca a monte. Questa autobiografia scritta in arabo, infatti, recuperata dopo oltre un secolo da un baule conservato in Virginia e acquisita dalla Biblioteca del Congresso, rappresenta una rara testimonianza in prima persona della tratta degli schiavi e della schiavitù.

1807: il venticinquenne Omar Ibn Said, membro di un’agiata famiglia senegalese, ben istruito e avviato a una carriera da Ālim (esperto in teologia, esegesi coranica e diritto) viene catturato da una banda di negrieri che fa strage lungo il percorso verso la costa, dove viene imbarcato nella stiva di una nave pronta a salpare per gli Stati Uniti.

Dopo oltre due mesi di navigazione in condizioni disumane, Omar viene sbarcato e venduto come schiavo al mercato di Charleston (Carolina del Sud). Per sua sfortuna, finisce nelle grinfie di uno schiavista locale crudele e incline alla violenza che Omar, in seguito, descriverà come senza un briciolo di umanità e totalmente privo di rispetto sia per la religione che per il Dio dei cristiani.

Omar riesce a scappare, ma la sua fuga termina a Fayetteville (Carolina del Nord), dove viene sorpreso intento in preghiera all’interno di una chiesa.
Imprigionato, Omar suscita scalpore mettendosi a scrivere in arabo sui muri della cella, smentendo il luogo comune che voleva gli schiavi africani selvaggi, carenti sul piano intellettivo e del tutto illetterati. Questo attira l’attenzione del facoltoso generale James Owen, che acquista Omar.

Consapevole di aver acquisito uno schiavo colto e musulmano, secondo lo spirito pio e "illuminato" dell’epoca Owen dona a Omar una copia della Bibbia tradotta in arabo.
Dal canto suo, Omar è abile nel compiacere il nuovo padrone mostrando di volersi integrare nella famiglia e nella comunità. Nel 1821 si fa battezzare, divenendo così un rispettato membro della locale chiesa presbiteriana.
Dal diario, però, appare chiaro che Omar applicò la Taqiyya, ossia la facoltà di simulare la conversione a un'altra religione e di adottare i costumi degli infedeli in presenza di un pericolo grave o di una persecuzione. Nella sua copia della Bibbia, infatti, annotò shure e passi del Corano o invocazioni rituali ad Allah, ovviamente incomprensibili per i membri della congregazione.

La scrittura del diario in arabo viene intrapresa da Omar quando ha superato la sessantina. L’autobiografia, infatti, è introdotta da queste righe: “Mi hai chiesto di scrivere la mia vita... Molto ho dimenticato del mio passato, così come della lingua araba. Non so più scrivere nella grammatica corretta o secondo i canoni del vero idioma. Perciò ti prego, fratello mio, in nome di Dio non biasimarmi perché sono un uomo dagli occhi deboli e dal corpo fiaccato”.
Omar ibn Said muore all’età di 94 anni.

Sebbene non esista una stima precisa sul numero di musulmani condotti come schiavi negli USA, è presumibile che lo fossero oltre il 40% degli africani catturati nelle nazioni equatoriali affacciate sul Golfo di Guinea.
In larghissima parte, la religione professata in Africa prima della riduzione in schiavitù è stata tra gli elementi identitari più velocemente cancellati sin dalla prima generazione; ciò a causa della convergenza tra le pressioni esercitate dai proprietari bianchi e un fenomeno di auto-censura e rimozione di un ricordo insieme doloroso e pericoloso.

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