sabato, settembre 22, 2012
Di piccole e grandi cose
Bigini d’autore
Bignami, Ciranna e Simone, ovvero tre esempi di case editrici che hanno fatto business senza aver mai messo sotto contratto autori celebri e tenendo un bassissimo profilo.
D’altronde, la specializzazione che li ha resi benemeriti agli occhi di migliaia di (ex) studenti era - ed è - il pulp educational, ovverosia i riassunti iper-concentrati e semplificati per sveltire la preparazione di esami e concorsi: materiali da maneggiare con discrezione, quindi, e dei cui servigi nessun cliente, per quanto soddisfatto, si è poi vantato pubblicamente.
Mi viene da sorridere ripensando ai Bignamini, i “bigini” per eccellenza, smilzi e con le loro tristissime copertine in cartoncino da piccola tipografia di paese, esposti in vetrina nella storica “Libreria dello Studente” che aveva sede in Piazzetta Savoia, a Cagliari.
Questo genere di manualistica usa e getta non sempre è di qualità accettabile, ma in molti casi la concisione e la chiarezza espositiva risultano sorprendenti, persino ammirevoli, specie se confrontate con la disperante dispersività e macchinosità di certi libri di testo “ufficiali”.
Condensare bene la complessità di una materia o di un libro in poche pagine è, né più né meno, un’arte. Sfrondare con l’accetta è il meno: bisogna padroneggiare l’argomento e possedere in uguale misura capacità di sintesi e chiarezza di linguaggio. Ragion per cui, faccio tanto di cappello alle case editrici e, soprattutto, ai misconosciuti autori degli umili “bigini”.
Pastafarian
Tutta la storia del trailer del film che descriverebbe Maometto come una figura equivoca e delle reazioni violente che ha suscitato nei paesi arabi a me puzza di gioco di sponda tra fazioni che puntano a lucrare vantaggi da un clima di muro contro muro tra Occidente e Islam.
L’operazione che ha portato alla realizzazione della pellicola di serie Z è avvolta da misteri e nebbie in cui fanno capolino personaggi borderline in qualche modo riconducibili alla lobby islamofoba americana.
Fare scoppiare la “bomba” durante la campagna per la presidenza USA appare, pertanto, una scelta tattica diretta a ottenere la massima risonanza e a recapitare a certi ambienti della destra radicale repubblicana il messaggio: “Hey, non dimenticate che ci siamo anche noi”.
Allo stesso tempo, la pubblicazione on line del trailer è stato un regalo servito su un piatto d’argento al fondamentalismo islamico, che non ha perso l’occasione di far sentire tutto il suo peso mobilitando e manovrando le piazze.
Non fosse una cosa seria, per cui alcune persone hanno perso la vita in Libia e altre sono in pericolo solo perché di nazionalità americana o, genericamente, “occidentali”, la pubblicazione del trailer sarebbe da rubricare come un’azione da perfetti thriller seeker, un po’ come in questo folle spezzone di “Ridere per ridere” di John Landis, interpretato da un quasi irriconoscibile Woody Allen:
A parte tutto questo, che attiene al lato più sudicio della lotta per il potere oscenamente travestita da zelo religioso, la vicenda pone alcuni interrogativi sul senso e sui limiti della libertà di espressione, sulla tolleranza e sul rispetto da dare alle religioni rivelate.
Mi pare che nella parte dell’opinione pubblica occidentale che si ritiene benpensante ci sia poca o nessuna voglia di andare oltre lo stereotipo dell’Islam popolato da individui ignoranti, ottusi e irascibili, spinti al revanscismo e al fanatismo religioso dal bisogno di compensare un ego roso da un irrisolto complesso di inferiorità: in pratica dei poveri di spirito, degli irrecuperabili da compatire e che non è il caso di provocare. Anche nelle versioni più soft e prive di malizia, si tratta di una visione paternalista e falsamente buonista, in cui occhieggia un inconsulto senso di superiorità.
Da altre parti, la virulenza delle reazioni nel mondo arabo è vista solo come l’ennesima conferma che i musulmani - ovunque siano - sono una minaccia; barbari ed eversori della civiltà con cui non è possibile arrivare a una pacifica convivenza, ma solo applicare inflessibilmente la legge del più forte e del “padroni in casa nostra”.
Nell’uno e nell’altro caso si ragiona in termini di masse, si applicano categorie universali senza alcun riguardo e senza alcun rispetto per le persone vere, in carne e ossa.
Non è che dall’altra parte della barricata le cose vadano meglio in termini di pensiero massificato, di diffidenza e di intolleranza verso la diversità. Come pare abbia detto un imam algerino durante un sermone “Cosa facciamo noi musulmani per dimostrare di essere migliori di chi ci giudica? Scendiamo in piazza sdegnati, urliamo la nostra rabbia e la scarichiamo nella violenza: non sappiamo fare niente di meglio?”.
Tornando a bomba, fino a che punto la libertà di esprimere una opinione, per quanto urticante sia, deve essere piena e incondizionata?
Dove finisce la libertà e inizia la responsabilità?
Dobbiamo accettare forme di censura preventiva alla circolazione delle opinioni e delle idee in nome del politicamente corretto?
Qual è il confine tra la richiesta di rispetto verso le religioni e il larvato ricatto morale per cui qualsiasi critica o ironia su singoli aspetti della religione altrui diventa ipso facto una provocazione inaccettabile?
Quasi quasi mi dichiaro pastafariano.
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domenica, settembre 16, 2012
Segnali da decifrare
Ben ritrovati, più o meno
No, non sono scomparso. La prolungata stasi del blog è dovuta a un rientro al lavoro tra i più pesanti che ricordi: una concentrazione di scadenze ravvicinate da arrivare a notte stremato e troppo poco lucido per postare. Con questi chiari di luna si è costretti a correre, correre, correre come criceti sulla ruota. Non è ancora finita, e penso che la marea inizierà a defluire (forse) a metà ottobre.
Abbiamo solo scherzato
Dal carteggio privato tra Benito Mussolini e Claretta Petacci è emerso che, ancora a una manciata di giorni dal drammatico epilogo della sua tragica avventura alla guida della RSI, l’ex Duce degli Italiani era persuaso che Hitler avrebbe rovesciato le sorti della guerra scatenando la ventilata “arma totale”.
Mutatis mutandis, non è dato sapere se, prima del secco comunicato stampa che ha definitivamente liquidato il progetto Fabbrica Italia, vi fosse ancora qualcuno tra gli entusiasti della prima e della seconda ora (editorialisti, sindacalisti, politici ecc.) ancora convinto che Sergio Marchionne avrebbe dato seguito a quanto annunciato e promesso in pompa magna nel 2010.
È evidente che lo sprofondo del mercato dell’auto nel nostro paese ha avuto un peso nella rottamazione di Fabbrica Italia, ma ciò non toglie che tutta la vicenda abbia avuto sin dagli esordi lo spiacevole sentore di un bluff, di uno specchietto con cui si sono fatte adescare, per convenienza o sudditanza intellettuale, tante prestigiose allodole che ora tacciono o fanno vista di cadere dal pero.
Lo scatolone vuoto di Fabbrica Italia non è stato inutile per la FIAT, tutt’altro: è stato solo ritirato quando la sua presenza è divenuta superflua e imbarazzante, non prima, però, di aver consentito alla famiglia Agnelli e al suo top manager di racimolare vantaggi concreti in cambio… di quasi nulla.
Agitando lo scatolone e minacciando di metterlo via, infatti, il carismatico Marchionne ha dettato le sue condizioni “prendere o lasciare” in tema di relazioni industriali e di modifica dei contratti negli stabilimenti italiani del gruppo FIAT.
Questa stessa tattica, inoltre, ha consentito a FIAT di godere di una relativa intoccabilità e della massima libertà di azione. Non che fosse particolarmente difficile in un paese dove i governi si guardano bene dall’abbozzare uno straccio di politica industriale o si limitano, pateticamente, ad auspicare che un amministratore delegato trovi il tempo di fissare un incontro chiarificatore.
Ma la consegna del silenzio o, al massimo, del rabbuffo all’acqua di rose è stata osservata anche dalla “libera stampa” italiana, dai partiti e da sindacati più realisti del re.
Era già tutto previsto, come nella malinconica canzone di Riccardo Cocciante.
Il poliziotto buono
In un suo saggio del 2007, Naomi Klein prendeva in esame alcuni casi di applicazione concreta delle teorie liberiste sviluppate verso la metà degli anni '60 dall’economista Milton Friedman e dalla cosiddetta Scuola di Chicago.
Il titolo lasciava poco spazio a equivoci “The Shock Doctrine - The rise of disaster capitalism”.
Sintetizzando, la dottrina dello shock economico è di una semplicità agghiacciante: è necessario creare nella popolazione un senso continuo d’insicurezza e di stress psicologico tale da far diventare accettabile qualsiasi decisione politica ed economica.
Più le ragioni della minaccia appaiono incomprensibili e fuori del controllo dei bersagli, più questi ultimi saranno disponibili a concessioni dolorose nella direzione desiderata da chi tira le fila del gioco.
Nulla di strano che un economista di stampo Liberal come Mario Monti conosca bene le teorie di Friedman e che le abbia in parte mutuate in una dichiarazione di alcuni anni fa - reperibile su YouTube - in cui esaltava il ruolo benefico della crisi come momento maieutico che accelera i tempi del cambiamento e dell'innovazione, vincendo le resistenze delle forze conservatrici.
La domanda è: l'esecutivo tecnico guidato da Mario Monti ha qualche idea sul come passare dalla gestione della fase acuta dello shock economico a quella della ripresa e dell'espansione, oppure è solo il "poliziotto buono" che lavora in tandem con quello cattivo (i mercati) e ora, non sapendo bene che pesci pigliare, si limita a prendere tempo in attesa di ulteriori ordini dall'alto?!?
Non vorrei che la luce che Monti e Passera hanno sostenuto di intravedere alla fine del tunnel sia, come ha ribattuto Marchionne, quella dei fanali del treno che sta sopraggiungendo.
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