domenica, marzo 27, 2011
Ragionevoli dubbi e confortanti certezze
Nuke Sì, Nuke No, Nuke un caz
A poche settimane dalla catastrofe in Giappone e a meno di 3 mesi dalla consultazione referendaria, confesso di avere ancora le idee non del tutto chiare in materia di Nucleare SÌ/Nucleare NO.
Istintivamente sarei portato a stare dalla parte di chi dice “NO grazie”, tuttavia ho seri dubbi sulla sostenibilità economica e ambientale a lungo termine del mix con cui oggi produciamo l’energia che ci occorre: 77,5% da combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) - 22,5% da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico, fotovoltaico, biomasse, geotermico ecc).
Non credo di essere l’unico a essere confuso, perché intorno al nucleare c’è da tempo un balletto diabolico di pareri discordanti. Come se non bastassero le schiere di sedicenti esperti che non perdono occasione di salire in cattedra per pontificare a vanvera, a mio giudizio è in atto una deliberata opera di disinformazione concepita per celare robusti interessi di parte.
Non ho verità in tasca: mi limito a farmi alcune domande elementari e a cercare qualche risposta "a lume di naso".
- tornare al nucleare è utile al Paese?
- il nucleare è una soluzione conveniente?
- che garanzie di sicurezza possiamo aspettarci dalle erigende centrali termonucleari italiane, sempre che si facciano?
Sul primo e il secondo punto, a quel che posso capire, le 8 centrali previste dal piano del governo - di cui la prima entrerebbe a regime nel 2020 - avrebbero un impatto importante, ma non risolutivo rispetto alla nostra dipendenza dai combustibili fossili.
Si colmerebbe il gap che ci porta a comprare energia da Francia e Svizzera nei momenti di picco (di notte siamo noi a vendere energia ai cugini transalpini) e dovremmo ottenere un risparmio di circa il 20% sui costi di generazione dell’energia: una sforbiciata consistente sulla bolletta energetica nazionale, che però non è detto che sia trasferita nelle nostre bollette.
A fronte di ciò dobbiamo mettere i 40 miliardi di euro stimati per la realizzazione delle centrali nucleari a tecnologia francese ERP (nucleare di terza generazione); un buon affare per la Francia, che ci venderebbe non solo la tecnologia, ma con ogni probabilità anche il combustibile “preparato” per alimentare le centrali.
Un ulteriore punto cruciale non mi è chiaro: l’uranite e la carnotite da cui si ricava l’uranio sono minerali e, come tali, fonti non rinnovabili.
Se è vero che le riserve mondiali note sono “ragionevolmente” stimate dalla IAEA (International Atomic Energy Agency) in 4,7 milioni tonnellate e che il consumo annuo dei reattori nucleari in funzione è di circa 67.000 tonnellate, l’uranio resterà disponibile agli attuali prezzi di mercato fino al 2060/2070 a patto che i consumi restino stabili. Dopo di che l’uranio è destinato a diventare sempre più raro e costoso da estrarre (oggi siamo sotto la soglia dei 130 dollari al kg), di conseguenza sempre meno competitivo.
Facendo due conti, abbiamo davanti la prospettiva di investire 40 miliardi di Euro di denaro pubblico per realizzare un parco di 8 centrali atomiche che, se non ci saranno ritardi in corso d’opera, forniranno il loro contributo di 13.000 MWe non prima del 2040, ma che per assurdo rischiano di restare a corto di combustibile o di diventare antieconomiche appena qualche decennio dopo l’inaugurazione.
I nuclearisti parlano di bassa incidenza dell’uranio nel costo di generazione dell’energia e di prezzo stabile del kwh anche a fronte di grandi oscillazioni nelle quotazioni della materia prima: sarà anche vero, ma qualcosa non mi torna.
Sicurezza
Mettiamo pure che l’attuale governo, apertamente favorevole al nucleare, riesca a imporre la localizzazione delle centrali nucleari e dei siti per lo stoccaggio in sicurezza delle scorie, magari militarizzando il tutto a muso duro com’è successo con le discariche in Campania durante l’emergenza rifiuti. Resta, però, scoperta la questione del livello intrinseco di sicurezza delle erigende centrali.
Chi ci garantisce che grandi opere così evidentemente mission critical saranno costruite a prova di criminose truffe sui capitolati e che i collaudi saranno effettuati con la dovuta competenza, severità e trasparenza, possibilmente da parte di autorevoli enti internazionali terzi? A essere sincero, su questo punto non ho motivo di fidarmi “a scatola chiusa” delle promesse e delle rassicurazioni della lobby pro-nucleare.
Ho lasciato per ultimo un ulteriore quesito irrisolto: stante che le fonti fossili costano sia in termini economici sia di impatto ambientale e che la crescita delle fonti rinnovabili difficilmente potrà andare a coprire oltre il 30% della domanda di energia, possiamo permetterci di aspettare che una nuova tecnologia ci metta a disposizione una fonte di energia “pulita” a buon mercato? Possiamo rinunciare definitivamente all’atomo o invece dovremmo accettarlo, pur sapendo che è una scelta rischiosa, costosa e (forse) poco lungimirante?
Buon compleanno mr X
Il 24 marzo di 10 anni fa, Steve Jobs presentava al pubblico la prima versione definitiva di Mac OS X, nome in codice 10.0 ”Cheetah” (ghepardo). In quell’occasione il carismatico guru di Apple invitava tutti a seguirlo e a imparare a “nuotare nell’Aqua”, alludendo al nome dell’interfaccia grafica introdotta con il nuovo sistema operativo dei computer con la Mela Mordicchiata.
In questi 10 anni Mac OS X, giunto recentemente alla versione 10.6.7 “Snow Leopard”, ha cambiato più volte look e si è enormemente arricchito di funzioni. Tuttavia ieri, guardando diverse immagini della schermata dei Mac in puro stile Aqua, con le sue inconfondibil righine grigie, le trasparenze marcate dei menù a tendina e le cornici delle applicazioni che simulavano l’alluminio spazzolato (brushed alloy), ho quasi rimpianto quella grafica dalla leggerezza fresca, quasi giocosa, nel senso che talvolta mi farebbe piacere evadere dal grigio serioso e un po’ “plasticoso” che la fa da padrone nell’attuale interfaccia del sistema operativo e delle applicazioni.
Mi è parso giusto mettere tre immagini che “raccontano” l’evoluzione di Mac OS dal 1997 (System 7.6) al 2011 (Mac OS 10.6.7), passando per il 2001 (Mac OS 10.0).
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domenica, marzo 13, 2011
A sunday soup
Non possumus
Poche idee, poco o punto originali, in compenso assai livorose. Mi domando quali esperienze scolastiche devastanti abbiano indotto questa persona a coltivare l’apodittica certezza che gli insegnanti siano una casta di privilegiati nullafacenti. La risposta più verosimile è che parli senza alcuna competenza in merito, senza neanche quel minimo di esperienza “sul campo” da genitore.
Quel che mi colpisce negativamente, in questo come in altri casi, è il livello di indottrinamento che traspare dall’appiattimento sulle argomentazioni ideologiche e sul lessico populista della propaganda filogovernativa.
C’è la crisi economica mondiale, c’è un debito pubblico monstre, ergo “non possiamo più permetterci” tutta una serie di servizi al cittadino forniti dallo Stato, sovvenzionati attraverso la redistribuzione del gettito fiscale o le aliquote imposte sulla retribuzione dei lavoratori.
Questo è il mantra, la vulgata, l’articolo di fede squadernato per giustificare e assolvere la politica di tagli lineari alla spesa pubblica e le sue propaggini mascherate da riforme epocali.
Da ciò discende che:
- Dovremmo accettare a capo chino la dura realtà di un drastico ridimensionamento nei servizi essenziali che non si traduce in una minor pressione fiscale, che resta e resterà ancora a lungo scandalosamente vicina a quella di Paesi dove il welfare è una cosa seria e funzionante; ça va sans dire che dovremmo essere lieti di pagare a prezzo pieno 1/3 del solito servizio.
- Dovremmo essere esultanti per scelte dolorosamente austere che “alleggeriscono” lo Stato, non fosse per il piccolo, trascurabile dettaglio che (specialmente) in Italia l’arretramento del pubblico viene pagato a usura mediante il sovvenzionamento, diretto e indiretto, di un privato che subentra “sussidiariamente” o per gentile concessione trentennale “chiavi in mano”.
Corre, io credo, una sottile, ma netta linea di demarcazione tra l’essere cittadini consapevoli delle difficoltà di un Paese declinante come il nostro e l’ottica servile di chi vuole vedere la mano benevola della Provvidenza in ogni azione del padrone di turno e, perciò, augura la forca ai cattivi soggetti, i sediziosi e i miscredenti... finché non viene toccato nei suoi interessi.
Le mani in tasca
Guarda caso, il governo che si è sempre vantato di “non mettere le mani nelle tasche dei cittadini” (sottinteso, non come quei sordidi comunisti che godono a tassare e molestare i probi cittadini) è stato beccato con le mani infilate nel TFR dei lavoratori, da cui ha prelevato e preleva per coprire la spesa corrente e per scopi diversi da quelli previsti dalla legge, peraltro senza alcuna reintegrazione o interesse.
A ribadire questo "simpatico" andazzo, passato opportunamente sotto silenzio, non è la solita gazzetta rossa, ma la Corte dei Conti.
La magistratura contabile non ha usato il guanto di velluto, scrivendo nero su bianco che si tratta di «un'operazione di natura espropriativa senza indennizzo, o comunque di prelievo fiscale indiretto nei confronti di categorie interessate a versamenti finalizzati a scopi ben diversi dal sostegno alla finanza pubblica».
La risposta piccata del Ministero dell’Economia, secondo cui non vi sarebbe alcun danno ai soggetti interessati ai versamenti e ai prelievi, è stata sonoramente rispedita al mittente in quanto i dati finanziari esposti da Via Nazionale sarebbero «parziali, lacunosi e fondati su statistiche elementari».
Qualcuno ha il coraggio di parlare anche in questo caso di toghe rosse e magistratura politicizzata?
Fine vita
Ho letto qui un’intervista a Monsignor Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, sul discusso disegno di legge sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento” (DAT).
Il prelato giuliano non ha detto alcunché di trascendentale o di diverso dalla posizione ufficiale della CEI, favorevole al testo elaborato dal Governo.
Tuttavia, pur nel rispetto di una posizione legittimamente intransigente sul principio della vita come dono da salvaguardare dal concepimento alla morte, mi trovo in disaccordo con le “giustificazioni etiche” addotte a sostegno di un impianto normativo marcatamente ideologico e ascientifico, che entra a gamba tesa nella delicata sfera dell’autodeterminazione dell’individuo e nella deontologia medica.
Sostenere, ad esempio, che l’alimentazione e l’idratazione artificiale non possano essere sospese in quanto non rappresentano terapia e, pertanto, non configurano accanimento teraputico è insieme una petizione di principio e una solenne cazzata perché qualsiasi intervento medico atto a influire sulle condizioni fisiche o psichiche del paziente - fosse anche la somministrazione di un placebo - è per ciò stesso terapia, com’è scritto a chiare lettere nelle convenzioni internazionali riguardanti l’attività medica.
A parte questo, a mio modo di vedere c’è qualcosa di intrinsecamente arbitrario, autoritario e innaturale alla base dell’applicazione integrale e (surrettiziamente) ope legis di un diritto alla vita indisponibile a chicchessia.
C’è alla base una visione salvifica del dolore e della sofferenza da accettare in silente umiltà, elaborata dalla tradizione cattolica fin dal medioevo, che oggi si salda alla pretesa di imporre alla scienza e alla medicina di forzare la natura pur di salvare l'integrità di un principio fatto passare per legge naturale, anche a costo di andare contro la valutazione obiettiva del medico curante e la volontà chiaramente espressa dal paziente.
La mia non è una posizione a favore del relativismo etico, del suicidio assistito o dell’eutanasia, ma solo la constatazione, frutto di esperienza, che una volta applicato tutto ciò che è umanamente e scientificamente possibile per curare e per alleviare la sofferenza si debba rispettare la natura che ci ha voluti mortali.
Santi dell’altro mondo: San Maximòn
Questa bella foto della chiesa gialla a San Andreas Xecul contenuta nel sito del fotografo Tom Robinson (ne raccomando la visione) mi ha incuriosito, portandomi a imbattermi, del tutto casualmente, nel mistero guatemalteco di San Maximòn.
Già in passato ho scritto di santi popolari dell’America Latina, la cui venerazione è in varia misura "tollerata" dalla Chiesa Cattolica. Non immaginavo, però, di trovare un santo non ufficiale con le caratteristiche enigmatiche e inquietanti di San Maximòn o San Simòn.
Più che a un santo canonizzato, infatti, Maximòn fa pensare a un demone che è meglio avere a favore che contro; una divinità dai gusti e dai vizi piuttosto umani da ammansire e da ingraziarsi con offerte di candele, sigarette, sigari, rum, acquavite e denaro.
È probabile che Maximòn fosse in origine una divinità del pantheon Maya legata al ciclo delle piogge e/o alla sessualità ctonia, cui si sarebbe sovrapposta in parte la figura di Pedro Alvarado, il luogotenente di Hernan Cortes che conquistò e cristianizzò il Guatemala a fil di spada.
San Maximòn è effigiato in statue di legno abbigliate con eleganza vistosa; giacca, cravatta, fusciacca, uno o più cappelli calati in testa e, talvolta, occhiali da sole. Le confraternite che curano il culto accendono sigari e sigarette oppure versano rum e acquavite nella bocca del simulacro mentre presentano in dialetto maya le preghiere dei postulanti.
Nessuno osa mettere in dubbio la potenza e la protezione di San Maximòn, neanche i turisti che con difficoltà raggiungono i villaggi sulle alture del Guatemala occidentale che sono la roccaforte di questo santo popolare.
Kung-Fu Mantis (per sdrammatizzare)
Buona settimana
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martedì, marzo 01, 2011
Tempi morti
Contabilità: nel weekend ho trascorso poco meno di 12 ore con i bambini (22 se si contano le ore di sonno) e ben 13,5 in viaggio (circa 6,5 effettive, quasi 7 in attesa tra stazioni e aeroporti).
Un'esperienza francamente deficitaria, da non ripetere.
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