domenica, giugno 27, 2010
Haggis Resume 06.27.2010
Barroganza
“Scusate, operano il mio gatto in Belgio”, “Pardon, devo andare in aeroporto a ricevere la prozia Genoveffa, emigrata nel ’37, che torna dall’Australia”, “No, quel giorno non si può: ci sarà Saturno in opposizione alla mia casa madre”, “Sono momentaneamente assente, mi hanno rapito gli alieni”.
Ne abbiamo sentite di scuse improbabili e di balle spaziali, ma il premio Faccia di Tolla per la spudoratezza va consegnato immantinente al neo-ministro (senza portafoglio) Aldo Brancher che, per sottrarsi alla convocazione in tribunale, si è avvalso al volo del Legittimo Impendimento accampando la scusa che è troppo occupato a organizzare un ministero inesistente, inventato di sana pianta.
Dinanzi a tanta impudenza ha perso la pazienza persino l’Inquilino del Quirinale, solitamente un mostro di self-control, cautela e diplomazia: il ché è tutto dire.
Berlusconi, Bertolaso, ora anche Brancher... la (B)arroganza ormai tracima senza più preoccuparsi di salvare la forma. Speriamo che dopo questo scivolone anche gli irriducibili devoti del verbo di Arcore inizino ad aprire gli occhi.
Ritorno al futuro
Strano ma vero: sino alla metà del secolo scorso il nostro Paese era il secondo produttore mondiale di canapa (Cannabis Sativa, da non confondere con la Cannabis Indica), di cui si utilizzava la fibra per produrre lenzuola, tovaglie, indumenti, sacchi, cordami, vele e carta di lusso, ma anche l’olio estratto dai semi per uso alimentare.
In quei tempi di miseria diffusa e di scarsità di moneta circolante, la coltivazione e la lavorazione (filatura) della canapa si facevano anche in casa per le esigenze della famiglia, come mi confermò mia suocera riferendosi a sua madre.
Dal dopoguerra in poi arrivarono in massa il cotone e le fibre sintetiche, ma soprattutto vennero estese alla cannabis sativa le norme penali che vietano la coltivazione della canapa indiana, con il risultato che la produzione nazionale di canapa venne azzerata.
Negli ultimi tempi, diverse aziende del settore bio (vedi qui e qui) si sono lanciate nella riscoperta della canapa italiana e dei suoi derivati; anche l’estensione delle coltivazioni ha dato segnali di risveglio.
Per ora, però, non si può parlare di ritorno al futuro: i vestiti e gli accessori in canapa (o misto-canapa) restano confinati in una nicchia di mercato, sono ancora uno sfizio per ecologisti puri-e-duri e radical-chic annoiati, ma un domani chissà... .
Made in India
Come si fa a “raccontare” in modo alternativo (molto alternativo) prodotti che sembrano inadatti a stuzzicare la fantasia del pubblico come una comune pasticca digestiva o un insetticida?
Chiedetelo ai pubblicitari indiani.
Il senso dello humour delle agenzie indiane è quanto meno particolare. Dei tabù legati al buono/cattivo gusto e al politically correct che limitano i creativi di casa nostra (o meglio, che cadono sotto la mannaia del cliente) in India sembrano infischiarsene allegramente; ne avranno sicuramente altri che da noi non esistono.
Esempi? Date un’occhiata allo spot qui sotto, realizzato dalla JWT di Mumbai.
Si sorride (forse), ma a denti stretti per la situazione surreale, sopra le righe e - soprattutto - per l’epilogo che più noir e cinico di così.. si muore.
Un secondo esempio è la campagna stampa realizzata nel 2006 dall’agenzia Ogilvy & Mather di Mumbai per Sargam-Digestives, marchio che propone pasticche che alleviano le difficoltà digestive.
L’immagine patinata di una bellezza al bagno che sott’acqua emette un’imbarazzante scia di bolle con tanto di “effetto jacuzzi” è ironica, ma di un cattivo gusto da campioni.
Buona settimana
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domenica, giugno 20, 2010
High density resume 06.20.2010
Fantastici quegli anni, ma anche no
Un articolo di Lux, al secolo il giornalista Lucio Bragagnolo, mi ha fatto riflettere, sorridendo, sulla mia appartenenza a quella schiera di over 40/nearby 50 che cercano di tenersi al passo con le tecnologie, ma che con la testa sono rimasti fermi a cavallo tra gli anni '80 e i ’90: il paleozoico in termini informatici.
Niente che non succeda in tanti altri campi, perché è un fatto generazionale che, a distanza di decadi, ci scappi una furtiva lacrima vedendo sul Tubo un video musicale qualsiasi di quando eravamo ragazzi di primo pelo, fosse anche quello della più supponente band di debosciati mai esibitasi, per arrivare invariabilmente a concludere che quella sì che era musica..
Fatta questa precisazione, torno a quel mondo informatico che oggi appare così lontano e astruso, ma che su di me pesa in termini di abitudini che non riesco proprio a scrollarmi di dosso. A chi non c’è passato per esperienza richiedo un certo sforzo d’immaginazione, ma tant’è.
Ho appena scaricato dal web iTunes 9.2: poco meno di 500 MB per un’unica applicazione, e avverto una sensazione di vuoto allo stomaco pensando allo spazio abominevole che occupa.
Non c’è niente da fare: immancabili, i fantasmi degli hard disk da 40 o 250 MB con cui ho lavorato per anni appaiono e mi fissano corrucciati come fossi un folle sperperatore di spazio prima di farmi ciao ciao con la manina. Non conta neppure il fatto che oggi anche una chiavetta USB da quattro soldi offre 1 GB di spazio.
Diagnosi: claustrofobia cronica da hard disk sottodimensionato.
Altri riflessi condizionati?
Sì, ad esempio la riluttanza a tenere aperte più applicazioni contemporaneamente, come se ancora lottassi alla morte con la mancanza di RAM.
Con i 16 o 32 MB di costosissima RAM - di cui una parte assorbita dal sistema operativo - disponibili nei computer dei primi anni '90, era obbligatorio scegliere a cosa destinare la memoria per poter sperare di lavorare su Photoshop piuttosto che su Word o Filemaker senza trovarsi a dover riavviare il computer dopo mezzora al massimo.
O ancora l’incavolatura quando cerco un file archiviato anni fa e scopro che non lo posso più aprire perché l’avevo compresso con uno dei tanti programmini che servivano a risparmiare spazio sul disco rigido e che comunque, anche a recuperarli fortunosamente, oggi non girerebbero sul computer a disposizione.
Per non parlare di quando masterizzo un CD o un DVD. In automatico, verifico la velocità di masterizzazione, chiudo tutte le finestre e le applicazioni aperte e sto fermo a guardare finché l’operazione non è terminata; il tutto pur sapendo che l’epoca dei primi masterizzatori SCSI (scasi) esterni è finita da un pezzo, e con essa il dover trattenere il respiro e incrociare le dita temendo il fatale errore di scrittura/lettura (overburning).
Ripensando a queste e ad altre situazioni, mi passa d'incanto qualsiasi nostalgia per il passato, YouTube o non YouTube.
È un mondo difficile
4,7% in un mese, alla facciazza del 2% d’interesse annuo sbandierato dal faccione sorridente di Ennio Doris negli spot di Banca Mediolanum o del 4% (lordo) promesso per anni a chi apriva Conto Arancio. Mi riferisco al guadagno accumulato nel solo mese di maggio dagli Hedge Fund che hanno scommesso sul ribasso dell’Euro e sulle difficoltà di bilancio dei paesi dell’Eurozona.
Questa è la finanza, bellezza
Restando in tema, in questi giorni la cronaca ha riportato alla ribalta l’infatuazione per la finanza “creativa” che aveva contagiato amministrazioni regionali e comunali anni fa .
Andiamo con ordine. Tra il 2002 e il 2006, con il beneplacito del governo allora in carica, regioni come Puglia e Lombardia, ma anche diverse amministrazioni comunali si rivolsero a broker e a prestigiosi istituti di credito internazionali per trovare in Borsa le risorse finanziarie per eseguire opere pubbliche di vario genere.
In altre parole, le amministrazioni pubbliche erano autorizzate a rivolgersi al mercato finanziario per ottenere prestiti o emettere obbligazioni poliennali (bond) da collocare presso i risparmiatori italiani ed esteri.
Nel caso della Puglia e della Lombardia, queste regioni emisero un Bond e crearono contestualmente un fondo di ammortamento a garanzia del rimborso alla scadenza per un ammontare rispettivamente di 77 e 115 milioni di Euro.
E qui viene il bello, perché questi fondi di ammortamento vennero ceduti in gestione alle banche che avevano curato il collocamento dei Bond attraverso la creazione di un derivato, uno strumento finanziario che nello specifico funziona pressapoco così:
- io banca investo i fondi accantonati da te in titoli di stato o garantiti dallo stato scelti insindacabilmente da me;
- io banca riservo a me gli interessi;
- in caso di insolvenza di uno stato debitore tu, regione, dovrai cacciare i soldi che mancheranno all’appello.
Ciliegina sulla torta: è emerso che i fondi di accantonamento pugliesi e lombardi sono stati allocati in titoli del debito sovrano della Grecia.
È chiaro che si tratta di una scelta studiata per lucrare su un tasso d’interesse particolarmente elevato, adeguato al rischio di bancarotta del Paese.
Però che volete che importi questo insignificante dettaglio a banche che in questi anni hanno guadagnato senza rischiare un centesimo e ad amministratori che non rispondono pressoché MAI della gestione dei fondi pubblici?
Buona settimana
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domenica, giugno 13, 2010
No Borders Resume 06.13.2010
Bavagliocrazia
Un colpo d’ariete dopo l’altro sulle regole minime della democrazia, prende forma una dittatura cesaropopulista che nessuno sembra in grado di arginare.
Inutile che mi dilunghi sugli effetti deleteri di un provvedimento pananoico che sta alla difesa della privacy degli onesti come una scure sta alla raccolta delle orchidee.
È vero, la Costituzione definisce inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (art. 15, comma 1), ma non si può dire che la normativa che sinora ha regolato l’autorizzazione e l’uso delle intercettazioni non imponesse le motivazioni o non fornisse le garanzie di legge richieste dal secondo comma dell’art.15.
Mettendo insieme i provvedimenti fatti passare a colpi di fiducia di questi 2 anni abbondanti di legislatura diventa lampante l’idea di democrazia liberale dell’attuale maggioranza: impunità per pochi eletti e libertà di gestire affari di qualsiasi genere al riparo da ogni controllo.
Se già oggi siamo piazzati molto bene nella classifica mondiale dei paesi a più alto tasso di corruzione nella pubblica amministrazione (dal 41° posto del 2007 siamo retrocessi al 63° posto per trasparenza), con la legge bavaglio, i condoni, le sanatorie e i tagli di spesa che appiedano gli ispettorati è facile immaginare che arriveremo presto a spezzare le reni a Grecia e Romania, che stazionano ex-aequo al 71° posto.
Come faceva notare ironicamente qualcuno in Rete, con una magistratura inquirente a cui vengono spuntati gli artigli e una stampa imbavagliata, l’Italia tornerà a essere un paese tranquillo dove non succede mai niente, esattamente come ai “bei tempi” del regime fascista.
Svaporata
«Qualche commento su Israele? Lo stiamo chiedendo a tutti oggi»
«Dite loro di andare all’inferno fuori dalla Palestina»
«Ooh! Qualche commento più positivo su Israele?»
«Ricordatevelo, quelle persone sono occupate ed è la loro terra. Non è la Germania, non è la Polonia»
«Allora dove dovrebbero andare? Cosa dovrebbero fare?»
«Devono tornare a casa loro»
«Dov’è casa loro?»
«Polonia, Germania»
«Sta dicendo che gli ebrei devono tornare in Germania e in Polonia?»
«...E in America e in qualunque altro luogo. Perché esiliare persone che hanno vissuto lì per secoli?»
Non ci poteva essere siparietto finale più improvvido e rovinoso per sancire la definitiva uscita di scena di Helen Thomas, 90 anni ad agosto, riverita decana dei giornalisti accreditati alla Casa Bianca.
Invitata allo Jewish Heritage Celebration Day alla Casa Bianca, Helen Thomas è stata avvicinata per un commento da una troupe del Rabbino David Nesenoff.
Lei, arcigna e senza alcuna diplomazia, ha fatto scoppiare la bomba sulla legittimità dello stato d’Israele; un po’ come prendere la parola a tavola il giorno del compleanno del padrone di casa e dichiarare che il festeggiato dovrebbe lavarsi perché puzza come una iena.
57 anni di professione buttati al macero per una reporter che aveva scalato i gradini della carriera in un mondo fortemente maschilista armata di una grinta inossidabile nel braccare con domande puntute l’uomo più potente della terra.
Di lei, John Fitzgerald Kennedy diceva: “Sarebbe anche una ragazza carina se non fosse armata di penna e taccuino”.
È passato alla storia il suo pressing su George W. Bush sulle vere ragioni dell’intervento americano in Iraq. A Helen Thomas spettava l’onore della prima domanda e dell’ultima parola, il rituale “Thank you, Mr. President” nelle conferenze stampa dei Presidenti USA.
Ma per le parole dal sen fuggite non v’è rimedio.
Ne uccide più la lingua...
Il Belgio e i belgi hanno da sempre fama di essere così tranquilli, ordinati e prevedibili da essere indicibilmente noiosi.
Erano altri tempi: il Belgio era un piccolo stato neutrale divenuto ricco per il carbon fossile estratto dalle sue miniere, per il commercio di diamanti e per le materie prime che affluivano dal lontano Congo Belga, dove il cristianissimo re Leopoldo II attuava una politica di sfruttamento di una ferocia senza eguali.
Da almeno tre anni, però, il Belgio è sull’orlo della disgregazione, paralizzato da una crisi istituzionale che sembra irrimediabile e che preannuncia la spaccatura definitiva tra la Vallonia francofona a sud e le Fiandre a nord, dove si parla una variante dell’olandese.
Se la separazione non si è ancora consumata è perché resta da sciogliere il nodo della Regione di Bruxelles, area che ospita la capitale federale e del regno nonché capitale formale dell’Unione Europea.
Dal punto di vista territoriale, infatti, Bruxelles e le sue conurbazioni (19 municipalità) ricadrebbero nella parte fiamminga, però la popolazione è per il 70% francofona.
L’astio e l’insofferenza tra le due maggiori comunità linguistico-culturali, su cui soffiano gli indipendentisti fiamminghi di estrema destra del Vlaams Belang (ex Vlaams Blok) sono arrivati al punto che, a Bruxelles, i fiamminghi non affittano case ai francofoni o parlanti altre lingue neppure se il potenziale inquilino è un eurodeputato disposto a staccare lauti assegni.
Nessuno in Belgio sembra domandarsi che senso e che prospettive avrebbero due staterelli di coccio, fondati su basi puramente linguistiche, stretti nella morsa di vicini di ferro come Francia, Germania e Olanda.
Una finestra sul Caucaso
Non chiedetemi come ci sono arrivato: chi mi conosce sa che quando parto per i miei vagabondaggi sul web ci vuole l’Interpol per rintracciarmi :-)
A ogni modo, questo video è una finestra sul folklore della regione del Khevsureti, nel nordest della Georgia.
Può piacere o meno: personalmente trovo che quest'antica danza sia suggestiva e spettacolare.
Buona settimana
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lunedì, giugno 07, 2010
Archeoleggende
Lo confesso: ho pochissima stima per i programmi di Roberto Giacobbo, Vicedirettore del TG2, giornalista e autore di fortunate serie televisive come Mistero (Rai3), Stargate - Linea di Confine (TMC), La macchina del tempo (Rete 4) e Voyager - Ai confini della conoscenza (Rai2).
Bisogna riconoscere al sor Giacobbo un gran fiuto nell’aver scovato il suo filone d'oro in quella nicchia ai margini estremi della storia e dell’archeologia dove qualsiasi teoria “alternativa” tinta di mistero e di paranormale è benvenuta, nonché smaglianti doti di intrattenitore nel proporre le sue minestrine scandendo magistralmente i tempi televisivi e il lancio delle “esche” per ingolosire e tenere alta la suspance nel pubblico a casa.
Quando passano i titoli di coda, il telespettatore medio si sente soddisfatto per aver preso parte all’illusoria caccia al tesoro, ma mai completamente appagato perché, nella migliore delle ipotesi, avrà sbirciato solo il fumo dell’arrosto più volte promesso in trasmissione.
Ma che fine fanno i tanti sedicenti misteri rimasti irrisolti?
Tornano a circolare dove la redazione di Giacobbo li ha scovati: nei circuiti di infotainment delle TV americane e britanniche, nella pubblicistica pseudo-storica e e sul web, in attesa che qualcuno li impacchetti nuovamente, riproponendoli con l’aggiunta della solita “sensazionale scoperta”.
Due esempi tra i tanti: i teschi di luce Maya e l’Arca di Noè sull’Ararat.
Nell’enigma dei teschi di cristallo di quarzo di provenienza messicana ci hanno inzuppato il biscotto in tanti, buon ultimo Steven Spielberg per la saga di Indiana Jones.
Il più famoso tra questi strani manufatti è quello detto di Mitchell-Hedges.
La storia propagandata a più riprese da Anne Mitchell-Hedges è che il teschio sia stato da lei ritrovato nel 1924 in un ripostiglio nascosto in una piramide nel sito Maya di Labaantùn (Belize). Il ritrovamento fortuito avrebbe suscitato gioia incontenibile negli indios presenti, che avrebbero riconosciuto nel teschio un importante strumento sacro dei tempi antichi.
Sempre secondo la fonte succitata, il teschio fu esaminato nei laboratori Hewlett Packard a Santa Clara (California), che avrebbero confermato che il cranio era stato ricavato da un unico blocco di quarzo ialino grande tre volte l’oggetto finale e lavorato senza l’ausilio di strumenti moderni.
I tecnici sarebbero rimasti impressionati dal fatto che il manufatto era stato scolpito con estrema precisione in senso contrario all’asse naturale del quarzo, senza segni di sfaldatura.
Giusto per aggiungere una coloritura “gotica” al mito nascente, Mitchell-Hedges scrisse che il teschio porta sfortuna e morte certa a chi lo irride, mentre protegge le persone che, più saggiamente, lo rispettano.
Le proprietà benefiche e spirituali dei teschi in questione vengono così spiegate in un'intervista da Joshua Shapiro, "custode" di alcuni teschi di cristallo: "Possiamo dire che i maya li considerano come oggetti sacri che vanno custoditi e tenuti segreti perché credono che siano vitali per l’umanità e che possano contribuire a creare un mondo più pacifico per il futuro. Il teschio di cristallo contiene grandi energie e saggezza per le genti maya, che devono essere preservate a ogni costo".
Dagli anni ’30 a oggi, però, i mezzi d’indagine sui manufatti hanno fatto parecchi passi in avanti.
Lo Smithsonian Institute ha potuto esaminare la mandibola del teschio di Mitchell-Hedges al microscopio elettronico, sotto luce ultravioletta e con la tomografia computerizzata, scoprendo così tracce inconfondibili dell’uso di moderni strumenti di taglio ad alta rotazione dotati di lama circolare in acciaio diamantato, ovviamente incompatibili con la tecnologia disponibile intorno all’ottavo secolo D.C, ossia ai tempi dei Maya.
Altrettanto ovvio che i cultori del mistero e dei rituali sciamanici new-age tacciano su questa scoperta sin troppo... ovvia.
Quanto ai resti della biblica Arca di Noè, ciclicamente tornano alla ribalta persone che sostengono di aver trovato o avvistato i resti dell’imbarcazione sui ghiacciai dell’Ararat, al confine tra Turchia e Armenia.
Tra questi ricercatori dell’Arca perduta si contano anche due italiani: Angelo Palego e Claudio Schranz (maggiori informazioni qui e qui).
È vero che se Schliemann non avesse avuto cieca fiducia nell’Iliade e nell’Odissea non sapremmo tutto ciò che oggi sappiamo sulla storia di Troia, ma nel caso dell’Arca biblica nulla di più concreto di un breve video girato da Schranz nel 2002, che mostra un presunto spuntone di legno che sporge dalle nevi, è stato portato per suffragare l’esistenza dei resti del natante in cima all'imponente vulcano che domina il Caucaso.
L’ultimo team di esploratori che sostiene di aver trovato l’Arca di Noè ha dichiaro in conferenza stampa di essersi imbattuto a quota 4000 in un incavo dove, intrappolata tra ghiacci e roccia vulcanica, stava una “parete di legno”.
Sul pavimento di questa cavità sarebbero state visibili tracce di paglia e di cordame. Niente di nuovo rispetto a quanto riportato da decenni, nessuna prova tangibile riportata dall’Ararat: tuttavia la notizia è finita sulle pagine dell’autorevole magazine Time.
Non c’è dubbio:abbiamo bisogno del mistero, di un santo graal da cercare per continuare a sognare.
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