domenica, giugno 26, 2011
pillola amara
venerdì, giugno 24, 2011
Angry Arabiya: il coraggio di non arrendersi
Per un’involontaria ironia del caso, nelle stesse ore in cui il recidivo Tom MacMaster (v.di post: Amina Arraf e il suo vaso di Pandora) veniva colto con le mani nel sacco mentre tentava di spacciarsi in Rete per tale Miriam Umm Ibni, nel dimenticato Bahrain la macchina della repressione colpiva attivisti dei diritti civili, pacifisti, giornalisti e blogger con una raffica di sentenze per direttissima.
Il pugno di ferro della casa regnante è calato con forza sulla famiglia di una delle “voci” che ho seguito su Twitter questa primavera: Angry Arabiya, al secolo Zeinab Al-Khawaja, 27 anni, coniugata e madre di un bambino di circa un anno (l’immagine è quella del suo profilo su Twitter).
Abdellah Al-Khawaja, padre di Zeinab ed esponente di spicco delle associazioni per i diritti umani, è stato condannato all’ergastolo con l’accusa di aver fatto parte di un complotto diretto a rovesciare l’ordine costituito. La stessa Zeinab è stata arrestata e trattenuta in stato di fermo dalla polizia per aver invocato Allah subito dopo la lettura della sentenza.
Dalla fine di marzo, con coraggio e ostinazione, Angry Arabiya ha denunciato al mondo il clima di terrore e di intimidazione in cui è stata costretta a vivere dopo il brutale arresto del padre e del marito.
Nei suoi tweet, Angry Arabiya ha descritto per brevi flash la precarietà della sua situazione: la casa messa ripetutamente a soqquadro dalle perquisizioni, le risposte vaghe, sprezzanti o minacciose dei funzionari di polizia alle sue richieste di notizie sullo stato di salute e sul luogo di detenzione dei familiari, lo strazio delle visite ad amici e parenti colpiti dalla stessa sorte, la scelta di reagire attuando lo sciopero della fame.
I 140 caratteri, che costituiscono il limite massimo di scrittura concesso dal microblogging, sono uno spazio infinitesimale rispetto alla complessità delle esperienze e dei sentimenti di una persona.
Inoltre, come nella favola di Pollicino, bisogna seguire con costanza e attenzione le briciole disseminate dai tweet per dare un senso a quanto si legge e per provare a ricostruire tutto ciò che va oltre l’estrema sinteticità imposta dallo strumento.
Tanto premesso, devo dire che ho provato un rispetto istintivo verso questa perfetta sconosciuta e i suoi sentimenti.
Nonostante la concisione e la semplificazione della lingua inglese, ho visto stagliarsi in controluce la figura di una giovane donna angosciata e sotto pressione, ma anche orgogliosa e determinata, per nulla disposta a sottomettersi allo strapotere del regime o a chinare il capo davanti a quanti hanno tentato di farle pesare la sua condizione di donna, per di più sprovvista della “protezione” degli uomini della sua famiglia.
Spero di non aver preso un abbaglio perché sono le persone come queste, capaci di non arretrare, di non smarrire coraggio e dignità nel momento dell'apparente sconfitta, a ricordarci cosa significa "Stay Human", per cosa vale la pena mettersi in gioco.
Etichette: Foreign Office, The Smoking Pipe, web
lunedì, giugno 20, 2011
Suum cuique tribuere
che possa impadronirsi di una società
è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.
(Corrado Alvaro, 1961)
Etichette: black hole, diritti, The Smoking Pipe
domenica, giugno 19, 2011
Pontideide 2011
sabato, giugno 18, 2011
Amina Arraf e il suo vaso di Pandora
Ci sono diversi piani di lettura e altrettante lezioni su cui riflettere nello squallido epilogo del caso di Amina Arraf, a.k.a. “A gay girl in Damascus”.
Riepilogo i fatti a beneficio di quanti non avessero seguito la vicenda.
Da quando è iniziata la cosiddetta “primavera araba” il web è diventato uno degli snodi fondamentali per la diffusione di notizie, immagini e video “non ufficiali” che documentano l’evolversi delle rivolte popolari.
Decine di “citizen journalist” sfidano volontariamente la censura, l’arresto e la tortura in carcere per portare su Twitter, YouTube, Facebook e sui blog ciò che vedono, sentono e ritraggono con le fotocamere del cellulare in luoghi e situazioni dove non sono presenti o non sono ammessi i reporter delle testate internazionali.
Fonti di prima mano, quindi, importanti, ma evidentemente non sicure al 100% né imparziali.
Tra tutte queste “voci” conosciute solo con i loro pseudonimi è emersa quella di Amina Arraf, autrice di un blog intitolato ”A gay girl in Damascus” e di una pagina Facebook.
Ciò che attirava l’attenzione di utenti e giornalisti era il taglio e la qualità di scrittura delle storie che Amina andava pubblicando; la verosimiglianza del quadro che faceva di sé e della sua precaria condizione di musulmana e omosessuale in un Paese arabo dalle frontiere sigillate, in bilico su una sanguinosa guerra civile.
A fine maggio, al culmine della popolarità in Rete e su diversi quotidiani internazionali, si sparge la voce che Amina è stata catturata dalla polizia siriana ed è trattenuta in una località imprecisata. Scatta una sorta di mobilitazione generale per ottenere notizie sulla sorte della sventurata eroina e per chiederne la liberazione.
Proprio attivando tutti i canali disponibili emergono le prime incongruenze sull’identità della misteriosa ed evanescente gay siriana. Il cerchio si stringe finché un paffuto nerd americano trasferitosi in Scozia, Tom MacMaster, è costretto ad ammettere pubblicamente di essersi inventato il personaggio di Amina Arraf senza aver mai messo piede in Siria.
Non basta, perché a stretto giro di posta si scopre che una grande sostenitrice della sedicente Amina, la fumantina caporedattrice del sito LGBT americano LezGetReal Paula Brooks, in realtà è un disoccupato eterosessuale che vive nell’Ohio.
La prima riflessione, scontata, riguarda l’affidabilità del citizen journalism come fonte di informazioni. Il discredito gettato dalla bufala virtuale è evidente, ma rischia di essere metabolizzato senza alcun correttivo.
La cosa peggiore che potrebbe succedere è che si usi la truffa mediatica di Amina come esempio per dire: “Ecco, lo vedete, l’informazione è una cosa troppo seria perché sia lasciata in mano a dei dilettanti”.
Già, i dilettanti... ma dalla vicenda escono con le ossa rotte anche i “professionisti”, i media mainstream e il giornalismo tradizionale, quello che un tempo era fatto di rigore deontologico e di faticosa verifica delle fonti e che oggi quasi non esiste più, travolto e seppellito dalla voracità bulimica di un sistema che consuma le notizie sempre più in fretta.
Oggi come oggi, i media convenzionali sono vittime e complici di una situazione in cui i filtri sono usati in modo discrezionale e dove chiunque, con un minimo di conoscenze, può mettere in circolo polpette avvelenate e patacche assolute.
Il fastidio verso ipotesi di tutoraggio sul web 2.0 non esclude la necessità di interrogarci sull’atteggiamento che abbiamo come utenti e “cittadini della Rete”.
A volte ho l’impressione che non siano chiari i confini tra un uso “ludico-sperimentale” degli strumenti a disposizione - per intenderci l’atteggiamento del bambino nel negozio di giocattoli - e la responsabilità che si dovrebbe avere quando si maneggiano informazioni, documenti, foto e video.
Un’ultima riflessione, amarognola, la riservo alla sconcertante banalità del male.
Tom MacMaster si è dichiarato “dolorosamente colpito” dalla veemenza delle reazioni. Lui “non pensava” di fare qualcosa di male nell’indagare sui confini tra realtà e invenzione narrativa e nel raccontare a modo suo le vicende mediorientali.
Non pensava minimamente ai danni che poteva provocare azzerando la credibilità del lavoro svolto “sul campo” da persone che hanno nel web l’unico canale per far sentire la loro voce.
Come un qualsiasi apprendista stregone bocciato all'esame, Tom MacMaster sta tornando nell’anonimato quasi senza pagare dazio: questo non mi sembra molto equo.
Etichette: comunicazione, Foreign Office, web
lunedì, giugno 13, 2011
Harakuorum
domenica, giugno 12, 2011
pizzini ispiratori
sabato, giugno 11, 2011
MarsEdit e Blogo: sfizi da blogger
La festa è traslocata altrove, ma il web-logging (blog) è ancora vivo. Qualcuno se ne va, altri si accomodano alla tastiera consapevoli che, nella stragrande maggioranza dei casi, le pagine del proprio diario online avranno una risonanza pari a quella di fiocco di neve che cada in Groenlandia durante la lunga notte artica.
Checché se ne dica, aggiornare un blog è una faccenda seria e maledettamente time consuming: nel tempo medio di “gestazione” di un singolo post, su Facebook vengono condivise diverse migliaia di contenuti. Se poi si appartiene alla razza del sottoscritto, che cova off-line ogni post come se dovesse partorire un semidio, fanno in tempo a sorgere e tramontare papati e imperi... .
Editor specializzati
Un blog può essere aperto per il puro piacere di scrivere e pubblicare le proprie riflessioni oppure come strumento al servizio di una strategia di self-promotion o di web marketing. Nell’uno come nell’altro caso, ci si può benissimo accontentare dell’editor online messo gratuitamente a disposizione dalla piattaforma che ospita il blog, anche perché nel tempo le funzionalità offerte da queste piccole finestre di editing sono notevolmente migliorate.
Ciò non toglie che si possa ancora preferire una gestione del blog più “meditata” e totalmente controllata in locale sul proprio computer: per intenderci qualcosa di più vicino a quello che facciamo con un testo usando Word o una presentazione in PowerPoint.
Ebbene, anche se non molto conosciuti, esistono software specializzati per questo compito. Applicazioni (per Mac) come MarsEdit e Blogo consentono di scrivere testi e inserire immagini restando off-line senza che sia necessaria alcuna conoscenza di HTML e impaginazione grafica. Quando il post è ultimato, basta premere un bottone e il programma provvede alla pubblicazione.
Diamo un’occhiata?
MarsEdit 3.3
MarsEdit è un programma onesto, robusto ed efficiente, che tuttavia presenta incoerenze che andrebbero affrontate radicalmente da parte della Red Sweater Software.
L’interfaccia è semplice, ma completa e confortevole. Ad esempio, una volta impostati i riferimenti del blog di destinazione, MarsEdit si occupa automaticamente di importare e ordinare cronologicamente tutti i post già pubblicati con i relativi tag (categorie), consentendo così di consultare l'archivio, controllare citazioni, editare o copiare al volo testo e immagini. Durante la scrittura, una finestra gemella mostra un’anteprima aggiornata in tempo reale, mentre le regolazioni per l’inserimento, l’allineamento e l’eventuale ridimensionamento delle immagini sono accorpate in un’unica finestra a comparsa.
Dolenti note
MarsEdit è stato sviluppato avendo in mente i primi blog quasi esclusivamente testuali. Questa impostazione emerge chiaramente nella gestione, tuttora approssimativa, delle immagini.
Se si sceglie di scrivere in modalità Rich Text, ad esempio, il testo non scorre intorno alle immagini, ma rigorosamente sopra e sotto indipendentemente dall’allineamento. Scegliendo la modalità HTML, invece, si ottiene lo scorrimento del testo, ma il codice generato manca delle istruzioni perché venga lasciato un margine bianco di rispetto tra i bordi dell’immagine e il testo.
Trattandosi di un software a pagamento (circa 40 Dollari), difetti e limiti dovuti a un gap di sviluppo rispetto agli editor online gratuiti mi paiono difficilmente accettabili.
Blogo 1.3
Rispetto a MarsEdit, quest’applicazione realizzata dalla software house drinkbrainjuice ha un’interfaccia utente meno convenzionale, tuttavia impadronirsi dei comandi e delle funzioni è cosa altrettanto rapida ed intuitiva.
A differenza di MarsEdit, Blogo non va a rastrellare l’archivio dei post già pubblicati. In compenso, Blogo sembra più a suo agio del competitor nel gestire dietro le quinte codice HTML+CSS per una impaginazione curata. A onor del vero, però, il codice generato dal programma è abbastanza caotico anche se perfettamente funzionante, ragion per cui è meglio "non aprire quella porta" per curiosare.
Il programma è impostato per la scrittura in modalità Rich Text, ma ciò non interferisce con l'interazione tra immagini e flusso del testo. L’inserimento di immagini avviene trascinando con il mouse la foto desiderata in un riquadro presente all’interno dello spazio di lavoro dell'applicazione, mentre la regolazione delle dimensioni diventa comoda solo dopo diversi tentativi a vuoto, dato che la logica di funzionamento non mi è sembrata il massimo dell'intuitività.
L’anteprima importa in una finestra la grafica del blog per dare all’utente una rappresentazione verosimile del risultato finale, anche se il refresh ogni 30 secondi può risultare fastidioso quando si è alle prese con la stesura di un post particolarmente lungo e impegnativo.
La licenza di Blogo costa 25 Dollari: lo sviluppo e le caratteristiche del prodotto sembrano giustificare il prezzo, non di meno resta sub judice l’utilità di investire in quello che, tutto sommato, è uno sfizio da blogger.
P.S: Per questo post ho usato Blogo in prova.
Etichette: geekcopy, Passatempo, vita da blogger, web
mercoledì, giugno 08, 2011
Just considering
Pro-Israele: abuso di legittima difesa
Per quel poco che ne so, il semiologo Ugo Volli è studioso assai quotato. Non lo conoscevo affatto, invece, nei panni dell’aggressivo polemista schierato senza se e senza ma a difesa di Israele e dei suoi interessi.
Non c’è spazio per distinguo, sfumature o concessioni al dubbio nella posizione espressa da Volli nell’articolo “Abracadabra, i palestinesi non ci sono più” pubblicato sul magazine on line Informazione Corretta: i buoni, i coraggiosi, gli onesti e i veri democratici sostengono lo stato ebraico; chi non si schiera senza riserve con Israele è automaticamente collocato tra gli antisemiti, creduloni, imbelli e fiancheggiatori dei perfidi, intolleranti e retrogradi arabo-palestinesi.
Certo, Volli non ricorre esplicitamente a un simile schematismo grossolano e criptorazzista, non di meno dietro lo schermo della prosa elegante e del sarcasmo pungente la sostanza non cambia granché.
Il pretesto per agitare il randello verbale viene offerto a Volli niente meno che dal presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che, in una dichiarazione, ha rivendicato per il suo popolo la discendenza da filistei e cananei e, con essa, una sorta di “diritto di primogenitura” sulla terra contesa.
Ai nostri occhi di sprovveduti occidentali simili vanterie pseudostoriche appaiono un peccato veniale, uno scivolone propagandistico di poco conto. Da che mondo è mondo, infatti, i popoli hanno millantato ascendenze illustri in divinità o semimitici eroi eponimi per nobilitare le loro origini e giustificare le loro ambizioni.
Tuttavia, a dimostrazione di come in Medio Oriente certe argomentazioni retoriche sono prese dannatamente sul serio, anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto precisi richiami a un legame di 4000 anni con la “terra dei padri” e alla “ancestrale patria ebraica” nel suo discorso davanti al Congresso USA,.
Se vogliamo parlare di storia, esistono testimonianze documentali che descrivono la Terrasanta dall’alto medioevo alla metà del diciannovesimo secolo come un'area depressa e spopolata.
Gerusalemme appariva a viaggiatori e pellegrini come una città di modeste dimensioni, isolata nel bel mezzo di un territorio pressoché disabitato e scampata all'abbandono solo in virtù della sua straordinaria importanza religiosa.
Gli attuali palestinesi, invece, discenderebbero in larga misura dai fellahin che, tra la fine del Settecento e gli inizi del Novecento, sciamarono alla spicciolata dai poverissimi villaggi dei paesi arabi limitrofi per cercare lavoro e sostentamento come contadini e pastori nei latifondi dell'allora Palestina ottomana.
Il progressivo passaggio di mano nella proprietà delle terre dai possidenti egiziani, siriani, libanesi e iracheni ai ben più motivati e organizzati coloni dei Focolari Ebraici fu un ulteriore incentivo per questa immigrazione interna al mondo arabo.
Non c'è dubbio, infatti, che i futuri palestinesi si considerassero "a casa loro" e che non avvertissero alcuna necessità di dotarsi di un'identità di popolo in un contesto regionale e culturale rimasto tutto sommato omogeneo fino agli anni '30 del secolo scorso.
Le cose cambiarono radicalmente con la riscrittura a tavolino della geografia politica mediorientale e, soprattutto, con l'evento dirompente della nascita d'Israele.
In ogni caso, mi pare davvero specioso appigliarsi all'effettiva genesi storica degli arabo-palestinesi per disconoscere e denigrare le aspirazioni di un popolo - non importa se definibile come palestinese o solo genericamente "arabo" - che ha assunto un'identità nel momento stesso in cui è stato sfrattato, emarginato, trattato come un ospite abusivo in casa sua, così come i palestinesi devono prendere atto che lo Stato d'Israele esiste ed è un interlocutore ineludibile.
Fino a quando non si arriverà ad accettare questi dati di fatto, rinunciando al sogno di cancellare definitivamente l'ingombrante vicino di casa come se la sua esistenza fosse una sgradevole "anomalia della storia", i maestri dell'oltranzismo continueranno a tenere i loro bravi sermoncini infiammati.
Esorcismi postmoderni
Rappresentazione paradossale ed esasperata? Forse, ma in fondo non tanto lontana dalla realtà. Oggi si può avere una vita molto social ed essere soli al punto di dovere esorcizzare a tutti i costi il silenzio.
TG-Schìf
Se le vergini vestali dell'informazione televisiva nazionalpopolare fossero ancora capaci di arrossire di vergogna, c'è da scommettere che di questi tempi alcuni telegiornali somiglierebbero a campi di papaveri nel pieno della fioritura.
Definire oscena l'informazione sui referendum del 12 e 13 giugno fornita da TG1, TG2, TG5, TG4 e Studio Aperto è voler fare atto di misericordia a tutti i costi.
Il diritto basilare del corpo elettorale a essere informato in modo corretto, completo e imparziale su un evento che lo chiama direttamente in causa è stato ignorato e sistematicamente sabotato a colpi di interpretazioni anodine dei regolamenti, ritardi, omissioni, indicazioni confuse o palesemente errate.
Ormai i fasti servili dei cinegiornali dell'Istituto Luce sono belli che superati. Non fosse per l'italiano fluente e il taglio smaccatamente frivolo di certi servizi, sospetterei che ciò che passa in TV in realtà sono gli archivi della Radio Televizioni Shqiptar (Albania) durante l'era del compagno-presidente Enver Hoxha.
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